Uno, nessuno e centomila: analisi e commento

Uno, nessuno e centomila: analisi, commento e significato del romanzo più famoso di Pirandello, dedicato alle tante identità di ciascuno

Uno, nessuno e centomila: analisi e commento
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Uno, nessuno e centomila

Di cosa parla Uno, nessuno e centomila?
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Il romanzo Uno, nessuno e centomila, scritto da Luigi Pirandello a partire dal 1910 e pubblicato nel 1926, racconta la crisi d’identità del protagonista, Vitangelo Moscarda, causata dalla scoperta di essere visto dal prossimo diversamente da come si vede lui stesso, e che questa visione cambia da persona a persona. Vitangelo arriva alla conclusione di essere:

  • uno (cioè l’immagine che lui ha di sé stesso),
  • centomila (come le forme che gli vengono attribuite dagli altri)
  • e, in conclusione, nessuno (perché l’idea che lui ha di sé non coincide con nessuno di quelle che gli altri hanno di lui, e non si sa quale sia la più giusta).

Questo romanzo è tipico della prima metà del Novecento, poiché il protagonista è al centro di un discorso che unisce poche sequenze narrative, ma soprattutto molte riflessive e dialogiche. Presenta temi tipici di quell’epoca, come lo smarrimento d’identità, il malessere psichico e la follia. Inoltre Pirandello non è nuovo al tema della scomposizione delle identità, infatti, aveva già affrontato questo tipo di argomento nel Fu Mattia Pascal.

Uno, nessuno e centomila: analisi del testo

D’altra parte, Luigi Pirandello (nato nel 1867 e morto nel 1936), già da giovane aveva dichiarato, in alcuni scambi epistolari con la moglie e con un amico, di sentirsi a volte come diviso in due personalità (il “Piccolo Me” e il “Grande Me”).

La narrazione si svolge in otto capitoli, suddivisi a loro volta in brevi paragrafi, molto utili per seguire meglio il filo del racconto.

Vitangelo Moscarda, giovane fannullone che ha ereditato dal padre buona parte di una banca gestita in società con due imbroglioni (Firbo e Quantorzo), si accorge, dopo che la moglie gli fa notare che lui ha il naso un po’ storto, che l’immagine che lui ha di sè, non è uguale a quella che gli attribuiscono. Anzi, a quelle, perchè riflettendo ancora scopre pure che ognuno si era fatto un’idea di lui, a seconda di come lo vedeva.

Moscarda continua a riflettere ricordando i luoghi della sua infanzia e pensando al fatto che quella che per lui era la casa dei bei ricordi della sua fanciullezza, per qualcun altro sarebbe potuta essere una semplice catapecchia abbandonata.

A questo punto Moscarda afferma che l’uomo vive di fissazioni, facendo un esempio: le parole sono dei suoni vuoti che ciascuno, attraverso le proprie fissazioni, riempie del senso che vuole loro attribuire. Queste “fissazioni”, però, cambiano anche a seconda del luogo in cui ci si trova: in campagna, vedendo un aereo, Moscarda si domanda perchè l’uomo tenti meschinamente di imitare la natura, facendo il paragone con un uccellino, che, libero di volare, dona a Moscarda una sensazione di libertà e verità. Libertà perchè viene sopraffatto dalla libertà stessa della natura, e verità perchè in campagna pensa di ritrovare il senso vero delle cose.

Tornando in città, invece, il volo dell’aereo non gli sembrerà più così assurdo, perchè lì tutto è meccanico e finto e, nonostante la natura cerchi degli spiragli per avere un po’ di spazio, l’uomo (“fissato” com’è) le toglie ogni tipo di respiro. Con questa lunga metafora, Pirandello ci vuol far capire il rapporto tra la forma (rappresentata dal grigiore e dallo squallore della città) e la vita (identificata nell’esuberanza e nell’energia della campagna, cioè della natura).

Moscarda sostiene che, così come le case sono delle costruzioni dell’uomo, dalle fissazioni di questo derivano anche le immagini degli altri che si costruisce nella sua realtà: questa affermazione proviene da una riflessione su sua moglie Dida. Lei, infatti, si era costruita un’immagine di lui tutta particolare, che chiamava Gengè, e che non corrispondeva alla realtà di Vitangelo, inducendo quest’ultimo a essere invidioso di questo “Gengè” che gli impediva di godersi l’amore di sua moglie.

Quindi, essendosi accorto di aver vissuto una vita contraffatta dalle identità che gli altri gli attribuivano, decise di vendicarsi di tutti i “Vitangelo Moscarda” e i “Gengè”, confondendo tutte le sue centomila forme, ed eliminandole.

Uno, nessuno e centomila: trama

Prima di raccontare come giunse a questa distruzione, Moscarda ricorda il padre, riflettendo sulla casualità della vita e ancora sul fenomeno per cui suo padre, per gli altri rispettabile uomo d’affari, oppure spietato usuraio, era visto da lui soltanto come un genitore tenero e affettuoso. Per rafforzare la sua tesi, secondo la quale ci si costruisce un’immagine diversa per ogni persona che si frequenta, fa l’esempio di un uomo che, ricevendo in casa due amici contemporaneamente, si trova talmente in imbarazzo da doverne mandare via uno, perchè non può sopportare l’idea che l’uno lo veda come lo vede l’altro.

A questo punto Moscarda prende in esame il caso di Marco Di Dio e della moglie Diamante, che non pagano l’affitto: dopo tanto tempo dall’ultima volta si reca in banca (da lui descritta come pervasa da uno squallido grigiore, descrizione indicativa anche dell’umore che quell’ambiente gli ispira), dopo aver fatto una scenata a Firbo e Quantorzo, ruba gli incartamenti della casa abitata dal Di Dio e lo fa sfrattare durante una brutta giornata di pioggia, salvo poi regalargli la stessa casa dalla quale lo aveva cacciato.

Ora tutti, a partire da sua moglie Dida e dallo stesso Marco Di Dio, cominciano a sospettare che Vitangelo sia diventato pazzo, mentre lui in realtà è molto soddisfatto di sè, perchè è riuscito a dimostrare di poter cambiare in breve tempo la “maschera” che gli altri avevano dipinto su di lui.

Un giorno, dopo un diverbio con la moglie, Moscarda esce di casa per portare a spasso Bibì, la sua cagnetta, cominciando a parlare con lei e sfogandosi di tutto quello che avrebbe voluto dire agli altri.

Tornando a casa, trova Dida in salotto con Quantorzo e si rende conto che in realtà la conversazione si svolge tra otto persone: Quantorzo per sè, per lui e per Dida, Dida per sè, per lui e per Quantorzo, e Moscarda per Dida e per Quantorzo, perchè capisce in fondo di non essere nessuno.

Quantorzo lo rimprovera per la sfuriata fatta in banca, ma lui ribatte di essere il capo della banca e, minacciandolo, gli chiede se lo crede pazzo.

Quantorzo, dopo che Vitangelo afferma di non volersi più sentire chiamare usuraio, ma di voler chiudere la banca, se ne va gridandogli che è pazzo. Dida, innervosita per il comportamento del marito, decide di andare a vivere per un periodo nella casa del padre, il quale, andato il giorno dopo a trovare Vitangelo per chiarire l’inconveniente, si convince anche lui che il nostro eroe problematico sia pazzo e torna subito a casa scegliendo di accogliere la figlia.

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Dopo qualche giorno, Moscarda viene invitato da Anna Rosa, un’amica della moglie, che gli racconta che tutti lo credono pazzo e lo vogliono fare interdire, e gli consiglia di parlare con monsignor Partanna per impedire l’interdizione.

Ma prima che Anna Rosa gli dica queste cose, la rivoltella che tiene nella borsetta come ricordo del padre, cade a terra e spara un colpo che le arriva al piede. Partanna, credendo che Moscarda avesse regalato la casa a Marco Di Dio per un accesso di bontà, gli consiglia di donare i suoi soldi a don Sclepis, che li avrebbe usati per la costruzione di una casa per i poveri.

Moscarda accetta, più che per altruismo, per fare un piacere ad Anna Rosa e allo stesso tempo sbarazzarsi di quel denaro che gli ricorda sempre la sua identità di usuraio. Dopodiciò Vitangelo torna da Anna Rosa per sapere come sta e, proprio mentre sta per abbracciarla, parte un altro colpo di pistola che lo ferisce gravemente.

Il giudice incaricato di istruire il processo contro Anna Rosa prende molto tempo per le sue decisioni: infatti Moscarda dichiara che il colpo di rivoltella è partito a causa di un ennesimo incidente, mentre Anna Rosa ha ammesso di avere sparato volontariamente perchè impaurita da tutte le considerazioni sulla vita di cui lui le aveva parlato.

Il giudice va a casa di Moscarda per interrogarlo, ma questo non gli da ascolto e continua a chiedergli se gli piaccia la bella coperta verde che ha sulle ginocchia.

Ora nessuno crede né a Moscarda, né ad Anna Rosa: tutti pensano che Vitangelo stesse per violentarla, e Sclepis vede nella donazione totale l’unico mezzo per espiare le colpe.

Moscarda accetta le condizioni del prete: dona tutto e va a vivere come un povero nella casa per poveri costruita con i suoi stessi soldi.

Per testimoniare in tribunale, Vitangelo si presenta con i miseri vestiti dell’ospizio. Ormai non ha più senso chiamarlo Moscarda, ma tutti, suo malgrado, lo fanno ancora.

Adesso lui vive libero in campagna senza nessun bisogno di un nome che gli dia un’identità, perché ha trovato nella natura, che muore e nasce continuamente, la sua vera identità.

Uno, nessuno e centomila: commento

Sebbene questo libro sia stato pubblicato nel 1926, dunque in piena era fascista (o forse proprio per questo), non ci sono riferimenti storici né politici. Al contrario, il suo significato è universale e atemporale, e si può trovare soltanto qualche riferimento minimo alla società di Richieri, città immaginaria non meglio identificata in cui è ambientata la narrazione.

Il narratore è autodiegetico, infatti è lo stesso Moscarda che racconta la sua esperienza attraverso una focalizzazione fissa e una distanza narrativa mimetica. Spesso si rivolge direttamente al lettore, come se stesse conversando con lui, perciò il linguaggio utilizzato è scorrevole, con una struttura sintattica che propende alla paratassi, e il lessico è quotidiano, anche se di tanto in tanto comprende alcuni vocaboli oggi in disuso.

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