Il mito di Ulisse e Polifemo: testo, parafrasi e analisi del Libro IX dell’Odissea
Indice
1Ulisse e Polifemo: trama del Libro IX dell’Odissea
Odisseo, una volta rivelato il suo nome e la sua patria, commossosi all’udire il cantore cieco Demodoco raccontare la sua storia, inizia a narrare ad Alcinoo le vicende del suo lunghissimo e tormentato viaggio di ritorno da Troia verso Itaca.
Ulisse era partito con i compagni quando l’eroe aveva assalito la città di Ismaro in Tracia e l’aveva conquistata: i compagni però si erano trattenuti troppo a lungo, così i Cìconi erano riusciti contrattaccare. Costretta a fuggire precipitosamente, la compagine greca fu travolta da una forte tempesta presso Capo Malea che fa perdere loro ogni orientamento.
Da quel momento Ulisse e i compagni vagano quasi alla deriva, finché approdano alla terra dei Lotofagi, i famosi mangiatori di loto. È un incontro pericoloso perché il loto è una pianta che produce l’oblio del passato: alcuni Greci ne mangiano i fiori, dimenticano la patria, dimenticano le fatiche del viaggio, dimenticano i loro affetti: così l’eroe deve reimbarcarli con la forza.
Ripartiti, raggiunsero l’isola di fronte alla terra dei Ciclopi: Ulisse, mai pago di visitare e conoscere, anche in situazioni di pericolo, si era avventurato con un gruppo nel territorio di questi giganti antropofagi dotati di un occhio solo e qui fu intrappolato nella grotta di Polifemo.
Polifemo, brutale, aveva preso a mangiare a due a due i compagni dell’eroe. Così Ulisse dovette escogitare uno stratagemma per salvarsi: ubriacato Polifemo con un vino che portava con sé, rivela al Ciclope di chiamarsi Nessuno; quando Polifemo si addormenta, Ulisse e i compagni sopravvissuti lo accecano con un palo incandescente. I Ciclopi, accorsi alle grida di Polifemo, non riuscirono a capire che cosa stesse succedendo perché, alla domanda su chi gli stesse facendo del male, Polifemo rispondeva ossessivamente “Nessuno”. Nascosti sotto il ventre delle pecore di Polifemo, i Greci riuscirono a evadere dalla grotta.
2Libro IX dell’Odissea: il testo di Ulisse e Polifemo
Ma come, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate,
allora, fatta adunanza, parlai in mezzo a tutti:
<<Voialtri ora aspettatemi, miei cari compagni;
io con la mia nave e la mia ciurma
andrò a esplorare queste genti, chi sono,
se son violenti, selvaggi, senza giustizia,
o amanti degli ospiti e han mente pia verso i numi>>.
Così detto, salii sulla nave e ordinai che i compagni
a loro volta salissero e la fune sciogliessero.
Subito quelli salivano e sui banchi sedevano,
e in fila seduti battevano il mare schiumoso coi remi.
Quando dunque arrivammo alla terra vicina,
qui sull’estrema punta una grotta vedemmo, sul mare,
eccelsa, ombreggiata da lauri; e qui molte greggi,
pecore e capre, avevano stalla; intorno un recinto
alto correva, fatto di blocchi di pietra,
e lunghi tronchi di pino, e querce alta chioma.
Qui un uomo aveva tana, un mostro,
che greggi pasceva, solo, in disparte, e con altri
non si mischiava, ma solo viveva, aveva animo ingiusto.
Era un mostro gigante; e non somigliava
a un uomo mangiatore di pane, ma a picco selvoso d’eccelsi monti,
che appare isolato dagli altri. Allora ai fidi compagni ordinavo
di rimanere alla nave, di far guardia alla nave;
e io, scelti fra loro i dodici più coraggiosi,
andai, ma un otre caprino avevo, di vino nero,
[...]
Un grande otre pieno di questo portavo e dei cibi
in un cesto; perché sentì subito il mio cuore altero
che avremmo trovato un uomo vestito di poderoso vigore,
selvaggio, ignaro di giustizia e di leggi.
Rapidamente all’antro arrivammo, ma dentro
non lo trovammo; pasceva pei pascoli le pecore pingui.
Entrati nell’antro, osservammo ogni cosa;
dal peso dei caci i graticci piegavano; steccati c’erano,
per gli agnelli e i capretti, e separata ogni età
vi stava chiusa, a parte i primi nati, a parte i secondi,
a parte ancora i lattonzoli; tutti i boccali traboccavan di siero,
e i secchi e i vasi nei quali mungeva.
Subito allora mi supplicarono con parole i compagni,
che, rubati i formaggi, tornassimo indietro; che in fretta,
all’agile nave gli agnelli e i capretti spingendo
fuori dai chiusi, rinavigassimo l’acque del mare;
ma io non volli ascoltare – e sarebbe stato assai meglio –
per vederlo in persona, se mi facesse i doni ospitali.
Ah! non doveva essere amabile la sua comparsa ai compagni.
Là, acceso il fuoco, facemmo offerte, e anche noi
prendemmo e mangiammo formaggi,
e l’aspettammo dentro, seduti, finché venne pascendo;
portava un carico greve di legna secca, per la sua cena.
E dentro l’antro gettandolo produsse rimbombo:
noi atterriti balzammo nel fondo dell’antro.
Lui nell’ampia caverna spinse le pecore pingui,
tutte quante ne aveva da mungere;
ma i maschi li lasciò fuori, montoni, caproni, all’aperto nell’alto steccato.
Poi, sollevandolo, aggiustò un masso enorme, pesante,
che chiudeva la porta: io dico che ventidue carri
buoni, da quattro ruote, non l’avrebbero smosso da terra,
tale immensa roccia, scoscesa, mise a chiuder la porta.
Seduto, quindi, mungeva le pecore e le capre belanti,
ognuna per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo.
E subito cagliò una metà del candido latte,
e, rappreso, lo mise nei canestrelli intrecciati;
metà nei boccali lo tenne, per averne da prendere
e bere, che gli facesse da cena.
Come rapidamente i suoi lavori ebbe fatto,
allora accese il fuoco e ci vide e ci disse:
<<Stranieri, chi siete? e di dove navigate i sentieri dell’acqua?
forse per qualche commercio, o andate errando
così, senza meta sul mare, come i predoni,
che errano giocando la vita, danno agli altri portando?>>
Così disse, e a noi si spezzò il caro cuore
dalla paura di quella voce pesante e di quell’orrido mostro.
Ma anche così, gli risposi parola, gli dissi:
<<Noi siamo Achei, nel tornare da Troia travolti
da tutti i venti sul grande abisso del mare;
diretti alla patria, altro viaggio, altri sentieri
battemmo: così Zeus volle decidere.
Ci vantiamo guerrieri dell’Atride Agamennone,
di cui massima è ora sotto il cielo la fama,
tale città ha distrutto, ha annientato guerrieri
innumerevoli. E ora alle tue ginocchia veniamo
supplici, se un dono ospitale ci dessi, o anche altrimenti
ci regalassi qualcosa; questo è norma per gli ospiti.
Rispetta, ottimo, i numi; siamo tuoi supplici.
E Zeus è il vendicatore degli stranieri e dei supplici,
Zeus ospitale, che gli ospiti venerandi accompagna>>.
Così dicevo; e subito rispose con cuore spietato:
<<Sei uno sciocco, o straniero, o vieni ben da lontano
tu che pretendi di farmi temere e rispettare gli dèi.
Ma non si danno pensiero di Zeus egίoco i Ciclopi
né dei numi beati, perché siam più forti.
Non certo evitando l’ira di Zeus ti vorrò risparmiare,
né te, né i compagni, se non vuole il mio cuore.
Ma dimmi dove lasciasti la nave ben fabbricata,
se laggiù in fondo all’isola o vicino, che sappia>>.
Così disse tentandomi, ma non mi sfuggì, perché sono accorto.
E rispondendogli dissi con false parole:
<<La nave me l’ha spezzata Poseidone enosίctono,
contro gli scogli cacciandola, al limite del vostro paese;
proprio sul promontorio: il vento dal largo spingeva.
Io solo sfuggii con questi l’abisso di morte>>.
Così dicevo: nulla rispose nel suo cuore spietato,
ma con un balzo sui miei compagni le mani gettava
e, afferrandone due, come cuccioli a terra
li sbatteva, scorreva fuori il cervello e bagnava la terra.
E fattili a pezzi, si preparava la cena;
li maciullava come leone montano; non lasciò indietro
né interiora, né carni, né ossa o midollo.
E noi piangendo a Zeus tendevamo le braccia
vedendo cose terribili: ci sentivamo impotenti.
Quando il Ciclope ebbe riempito il gran ventre,
carne umana mangiando e latte puro bevendo,
si distese nell’antro, sdraiato in mezzo alle pecore.
E io pensai nel mio cuore magnanimo
d’avvicinarmi e, la spada puntuta dalla coscia sguainando,
piantarla nel petto, dove il fegato s’attacca al diaframma,
cercando a tastoni; ma mi trattenne un altro pensiero.
Infatti noi pure là perivamo di morte terribile:
non potevamo certo dall’alta apertura
a forza di braccia spostare l’enorme roccia, che vi aveva addossata.
Così allora gemendo aspettammo l’Aurora lucente.
Come, figlia di luce, brillò l’Aurora dita rosate,
accese il fuoco di nuovo; munse le pecore belle,
tutte per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo.
Poi, quando rapidamente i suoi lavori ebbe fatto,
ancora, afferrando due uomini, si preparò il pasto.
Mangiato, spinse fuori dall’antro le pecore pingui,
senza fatica togliendo l’enorme masso: ma subito
ve lo rimise, come se alla faretra rimettesse il coperchio,
e con un lungo fischio al monte volse le pecore pingui
il Ciclope; e io rimasi a meditar vendetta in cuore,
se avessi potuto punirlo, m’avesse dato Atena quel vanto.
E questo nell’animo mi parve il piano migliore:
c’era un grande vincastro del mostro, presso uno dei chiusi,
un tronco verde d’olivo: doveva averlo tagliato
per portarlo poi secco; lo giudicammo, a vederlo,
grande come l’albero di nera nave, da venti banchi,
di nave larga, da carico, che solca l’abisso infinito,
tanto era lungo, tanto era grosso a vederlo.
Io mi avvicinai e ne tagliai quanto due braccia,
e lo diedi ai compagni, e comandai di sgrossarlo.
Essi lo resero liscio; poi io mi misi a aguzzarlo
in punta, quindi lo presi, lo feci indurire alla fiamma,
e lo nascosi bene, coprendolo sotto il letame,
che per la grotta in grande abbondanza era sparso.
Poi volli che gli altri tirassero a sorte,
chi avrebbe osato con me, sollevando quel palo,
girarlo nell’occhio, quando l’avesse preso il sonno soave.
Estrassero a sorte quelli che appunto avrei scelti,
quattro: e quinto con loro io mi contai.
A sera tornò, le pecore bei velli pascendo,
e subito nel vasto antro spinse le pecore pingui,
tutte quante: non ne lasciava all’aperto nella corte profonda,
o per qualche suo piano, o forse un dio così volle.
Dunque, dopo che, sollevandolo, aggiustò il grande masso,
seduto mungeva le pecore e le capre belanti,
tutte per ordine, e cacciò sotto a tutte il lattonzolo.
Come rapidamente i suoi lavori ebbe fatto,
ancora, afferrando due uomini, preparò il pasto.
Allora io al Ciclope parlai, avvicinandomi
con in mano un boccale del mio nero vino:
<<Ciclope, to’, bevi il vino, dopo che carne umana hai mangiato,
perché tu senta che vino è questo che la mia nave portava.
Per te l’avevo recato come un’offerta, se avendo pietà,
m’avessi lasciato partire; invece tu fai crudeltà intollerabili, pazzo!
Come in futuro potrà venir qualche altro
a trovarti degli uomini? Tu non agisci secondo giustizia>>.
Così dicevo; e lui prese e bevve; gli piacque terribilmente
bere la dolce bevanda; e ne chiedeva di nuovo:
<<Dammene ancora, sii buono, e poi dimmi il tuo nome,
subito adesso, perché ti faccia un dono ospitale e tu ti rallegri.
Anche ai Ciclopi la terra dono di biade
produce vino nei grappoli, e a loro li gonfia la pioggia di Zeus.
Ma questo è un fiume d’ambrosia e di nettare>>.
Così diceva: e di nuovo gli porsi vino lucente;
tre volte gliene porsi, tre volte bevve, da pazzo.
Ma quando al Ciclope intorno al cuore il vino fu sceso,
allora io gli parlai con parole di miele:
<<Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo,
lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come hai promesso.
Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano
madre e padre e tutti quanti i compagni>>.
Così dicevo; e subito mi rispondeva con cuore spietato:
<<Nessuno io mangerò per ultimo, dopo i compagni;
gli altri prima; questo sarà il dono ospitale>>.
Disse, e s’arrovesciò cadendo supino, e di colpo
giacque, piegando il grosso collo di lato: lo vinse
il sonno che tutto doma: e dalla gola vino gli usciva,
e pezzi di carne umana; vomitava ubriaco.
Allora il palo cacciai sotto la molta brace,
finché fu rovente; e con parole a tutti i compagni
facevo coraggio, perché nessuno, atterrito, si ritirasse.
Quando il palo d’ulivo nel fuoco già stava
per infiammarsi, benché fosse verde, splendeva terribilmente,
allora in fretta io lo toglievo dal fuoco, e intorno i compagni
mi stavano; certo un dio c’ispirò gran coraggio.
Essi, alzando il palo puntuto d’olivo,
nell’occhio lo spinsero: e io premendo da sopra
giravo, come un uomo col trapano un asse navale
trapana; altri sotto con la cinghia lo girano,
tenendola di qua e di là: il trapano corre costante;
così ficcato nell’occhio del mostro il tizzone infuocato,
lo giravamo; il sangue scorreva intorno all’ardente tizzone;
arse tutta la palpebra in giro e le ciglia, la vampa
della pupilla infuocata; nel fuoco le radici friggevano.
Come un fabbro una gran scure o un’ascia
nell’acqua fredda immerge, con sibilo acuto,
temprandola: e questa è appunto la forza del ferro;
così strideva l’occhio del mostro intorno al palo d’olivo.
Paurosamente gemette, n’urlò tutta intorno la roccia;
atterriti balzammo indietro: esso il tizzone
strappò dall’occhio, grondante di sangue,
e lo scagliò lontano da sé, agitando le braccia,
e i Ciclopi chiamava gridando, che in giro
vivevano nelle spelonche e sulle cime ventose.
E udendo il grido quelli correvano in folle, chi di qua,
chi di là; e stando intorno alla grotta chiedevano che cosa volesse:
<<Perché, Polifemo, con tanto strazio hai gridato
nella notte ambrosia, e ci hai fatto svegliare?
forse qualche mortale ti ruba, tuo malgrado, le pecore?
o t’ammazza qualcuno con la forza o d’inganno?>>
E a loro dall’antro rispose Polifemo gagliardo:
<<Nessuno, amici, m’uccide d’inganno e non con la forza>>.
E quelli in risposta parole fugaci dicevano:
<<Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo,
dal male che manda il gran Zeus non c’è scampo;
piuttosto prega il padre tuo, Poseidone sovrano>>.
Così dicevano andandosene: e il mio cuore rideva,
come l’aveva ingannato il nome e la buona trovata.
Il Ciclope piangendo, straziato da strazio feroce,
a tentoni levò dalla porta gran masso,
e stava lui stesso a seder sulla porta, a braccia distese,
se tra le pecore potesse afferrare qualcuno che uscisse:
così sperava che nel mio cuore fossi bamboccio.
Io, intanto, pensavo come cavarmela nel miglior modo,
se ai compagni e a me stesso qualche scampo
da morte potevo trovare; ogni sorte d’inganni e di piani tessevo,
perch’era in gioco la vita, grande sovrastava il malanno.
E questo nell’animo mi parve il mezzo migliore:
c’erano dei montoni ben grassi, dal vello foltissimo,
belli e grandi, e avevano lana colore di viola;
questi in silenzio legavo insieme coi vimini torti
su cui il Ciclope dormiva, il mostro assassino,
a tre a tre; e quello di mezzo portava un uomo,
e i due di fianco, avanzando, il compagno salvavano.
Così tre montoni ciascun uomo portavano; io, poi,
‒ c’era un ariete, fra tutta la greggia il più bello –
per le reni afferrandolo, steso sotto la pancia lanuta stetti;
e con le mani la lana meravigliosa torcendo stretta,
mi tenni avvinto con cuore paziente.
3Ulisse e Polifemo: parafrasi del Libro IX dell’Odissea
Non appena giunse l’alba, figlia della luce, convocai l’assemblea e parlai in mezzo a tutti: «Voialtri aspettatemi, cari compagni: io con la mia nave e il mio equipaggio andrà in esplorazione per capire chi siano queste genti, se sono violente, selvagge e senza giustizia o se sono amanti degli ospiti e ben disposti verso gli dei». Avendo detto ciò, salii sulla mia nave e ordinai ai miei compagni di fare lo stesso e di sciogliere la fune. Subito quelli salivano e si sedevano sui banchi, in fila, e battevano il mare denso di schiuma con i remi. Appena sbarcati sulla terra, vedemmo sulla parte estrema una grotta, sul mare, eccelsa, ombreggiata dai lauri: e qui c’erano molte greggi di pecore e di capre, con la loro stalla; intorno correva un recinto alto, fatto di blocchi di pietra e lunghi tronchi di pino, e querce dalle alte fronde. Qui doveva avere il suo rifugio un uomo, un mostro che portava al suo pascolo le greggi in solitudine senza mischiarsi agli altri, da solo, con animo malvagio. Era un mostro gigante; e non somigliava a un uomo di quelli che mangiano il pane, quanto piuttosto a un picco selvoso che si isola dagli altri. Allora ai fedeli compagni ordinavo di rimanere sulla nave e di fare la guardia. Io, invece, scelti fra loro i dodici più coraggiosi, andai, e avevo con me un otre di pelle di capra, pieno di vino nero. Un grande otre pieno di vino e cibi in una cesta – avevo infatti presagito che avremmo incontrato un uomo di straordinaria forza, selvaggio, ignaro di qualunque legge o regola civile. Arrivammo presto all’antro: lui non c’era dentro: era al pascolo con le sue grasse pecore. Entrati nella sua caverna, osservammo ogni cosa: i formaggi piegavano dal peso i graticci: c’erano steccati per agnelli e capretti, un recinto per ciascun ordine di nascita. Tutti i boccali traboccavano di siero, così come i secchi e i vasi nei quali mungeva. I miei compagni mi supplicarono di prendere e rubare quel che si poteva – latte e formaggi e animali – e di correre alle navi per andarcene. Io, tuttavia, non li volli ascoltare, anche se sarebbe stato molto meglio. Volevo, infatti, vederlo di persona, vedere se mi avrebbe fatto dei doni ospitali. I miei compagni avevano paura di vederselo comparire davanti. In quella grotta, acceso il fuoco, facemmo anche noi offerte, prendemmo e mangiammo formaggi e l’aspettammo dentro, seduti, finché arrivò con il suo gregge: portava anche un bel carico di legna secca, per la sua cena. Gettò la legna dentro la caverna e fece un grosso rimbombo: noi, spaventati, ci nascondemmo nel fondo dell’antro. Lui nell’ampia caverna spinse le pecore grasse, tutte quelle doveva mungere; ma i maschi li lasciò fuori, montoni, caproni, all’aperto nell’alto steccato. Poi, sollevandolo, sistemò sulla porta per chiuderla un masso enorme, pesante che, credo, neanche ventidue carri a quattro ruote lo avrebbero smosso. Seduto, quindi, mungeva le pecore e le capre che belavano, ognuna secondo un ordine e sotto ognuna mise i lattanti. Subito cominciò a cagliare il latte e, una volta che fu rappreso, lo mise nei canestri di vimini. Metà lo tenne nei boccali come bevanda per cena. Finite i suoi lavori, accese il fuoco e ci vide: «Stranieri, chi siete? Da dove navigate le rotte del mare? Forse andate errando sul mare per qualche commercio, senza una precisa meta, come i predoni, che vagano giocando la vita, portando danno agli altri». Così disse, e a noi quasi si fermo il cuore dalla paura di quella voce pesante e di quell’orrido mostro. Ma gli risposi: «Noi siamo Achei. Nel tornare da Troia siamo stati travolti da tutti i venti sul grande abisso del mare: eravamo diretti alla patria, ma abbiamo fatto un altro viaggio, abbiamo battuto altri sentieri: così Zeus decise. Ci vantiamo di essere stati guerrieri di Agamennone, figlio di Atreo, la cui fama è massima sotto il cielo dato che ha distrutto una tale città e ha annientato interi eserciti. E ora veniamo alle tue ginocchia supplici, a chiederti un dono ospitale, o anche altrimenti ci regalassi qualcosa; questa è la norma per gli ospiti. Rispetta, ottimo, gli dei; siamo tuoi supplici. E Zeus è il vendicatore degli stranieri e dei supplici, Zeus ospitale, che gli ospiti sacri accompagna».
Così dicevo; e subito rispose quello con cuore spietato: «Sei uno sciocco, o straniero, o devi venire davvero da molto lontano se pretendi di farmi temere e rispettare gli dèi. I Ciclopi non si curano degli dei o Zeus, perché sono più forti. Non certo per evitare l’ira di Zeus ti vorrò risparmiare, né te, né i compagni, se non sono io stesso a volerlo. Ma dimmi dove lasciasti la nave ben fabbricata, se laggiù in fondo all’isola o vicino, perché io possa saperlo». Così disse tentandomi, ma non mi sfuggì la sua vera intenzione, perché sono accorto. E rispondendogli dissi mentendo: «La nave me l’ha spezzata Poseidone enosίctono, mandandola contro gli scogli al limite del vostro paese, proprio sul promontorio: il vento ci spingeva dal largo. Io solo sfuggii con questi miei compagni all’abisso di morte». Così dicevo: lui non rispose nulla nel suo cuore spietato, ma con un balzo sui miei compagni gettò le sue mani e, afferrandone due, a terra li sbatteva come cuccioli e dalle loro teste scorreva fuori il cervello e bagnava la terra. Fattili a pezzi, si preparava la cena: li maciullava come un leone di montagna, divorando tutto, interiora, carni, ossa e midollo. Noi, implorando Zeus, tendevamo le braccia, vedendo cose orribili: ci sentivamo impotenti. Quando il Ciclope ebbe riempito la pancia mangiando carne umana e bevendo latte puro, si distese nell’altro, sdraiandosi in mezzo alle pecore. Io pensai nel mio grande e coraggioso cuore di avvicinarmi e piantargli la spada nel petto, proprio dove il fegato si congiunge al diaframma, cercando a tastoni: ma mi trattenne un altro pensiero. Infatti in quel modo saremmo morti ugualmente e in modo terribile non potendo spostare con le sole braccia l’enorme roccia che stava addossata all’uscita. Così, lamentandoci, aspettammo che sorgesse di nuovo la lucente Aurora. Non appena essa brillò con le sue lunghe rosee dita, Polifemo accese il fuoco di nuovo: munse le pecore belle, tutte per ordine, e cacciò sotto a tutte il cucciolo da allattare. Poi, quando rapidamente ebbe finito i suoi lavori, ancora, afferrando due uomini, si preparò il pasto. Dopo aver mangiato, spinse al pascolo le pingui pecore, spostando senza fatica l’enorme masso: ma subito ve lo rimise, come se rimettesse il coperchio alla faretra, e con un lungo fischio diresse il suo gregge verso il monte e io rimasi chiuso nell’antro a meditare vendetta, magari Atena mi avesse dato quel vanto. Comunque mi venne in mente il piano migliore: c’era un grande bastone di quel mostro, vicino a uno dei recinti, un tronco verde di olivo: doveva averlo tagliato per farlo seccare: a vederlo ci sembrava grande come l’albero di una nave da venti banchi, una nave larga da carico, che solca l’abisso infinito del mare. Era infatti lungo e grosso. Io mi avvicinai e ne tagliai della lunghezza di due braccia: lo diedi ai compagni e comandai di sgrossarlo. Lo resero liscio e poi mi misi io a fargli la punta: poi lo presi e lo feci indurire nella fiamma; lo nascosi bene, coprendolo sotto il letame sparso in abbondanza per la grotta. Poi volli che gli altri tirassero a sorte per scegliere chi avrebbe osato con me, sollevando quel palo, girarlo nell’occhio, quando il Ciclope si fosse addormentato. Furono estratti a sorte quelli che appunto avrei scelti: in quattro, io quinto dunque.
A sera il Ciclope tornò, pascendo le pecore dai bei velli, e subito nel vasto antro spinse le grasse pecore, tutte quante: non ne lasciava all’aperto nella corte profonda, o per qualche suo piano, o forse un dio così volle. Dunque, dopo che, sollevandolo, sistemò all’entrata il grande masso, seduto mungeva le pecore e le capre belanti, tutte per ordine, e cacciò sotto a tutte il loro cucciolo. Come rapidamente i suoi lavori concluse, ancora, afferrando due uomini, preparò la sua cena. Allora io al Ciclope parlai, avvicinandomi con in mano un boccale del mio nero vino: «Ciclope, to’, bevi un po’ di vino dopo che hai mangiato carne umana: voglio che tu assaggi questo vino che portava la mia nave. L’avevo portato per farti un’offerta, se avendo pietà, m’avessi lasciato partire; invece tu fai crudeltà intollerabili, scellerato! Come speri che qualcun altro degli uomini possa venire a trovarti? Tu non agisci secondo giustizia». Così dicevo; e lui prese e bevve; gli piacque terribilmente bere la dolce bevanda; e ne chiedeva di nuovo: «Dammene ancora, sii buono, e poi dimmi il tuo nome, subito adesso, così che io possa farti un gradito dono ospitale. Anche ai Ciclopi la terra produce vino nei grappoli, gonfiati dalla pioggia di Zeus. Ma questo è un fiume d’ambrosia e di nettare!». Così diceva: e di nuovo gli porsi vino lucente; tre volte gliene porsi, tre volte bevve, da pazzo. Ma quando al Ciclope salì l’ebbrezza, e fu stordito, allora io gli parlai con parole di miele: «Ciclope, domandi il mio nome glorioso? Ma certo, lo dirò; e tu dammi il dono ospitale come hai promesso. Nessuno ho nome: Nessuno mi chiamano madre e padre e tutti quanti i compagni». Così dicevo; e subito mi rispondeva con cuore spietato: «Nessuno io mangerò per ultimo, dopo i compagni; gli altri prima; questo sarà il dono ospitale!». Disse, e cadde quasi riverso, a pancia all’aria, e di colpo giacque, piegando il grosso collo di lato: lo vinse il sonno che tutto doma: e dalla gola gli usciva il vino, e pezzi: vomitava ubriaco. Allora misi il palo sotto la molta brace, finché fu rovente; e con parole cercavo di incoraggiare tutti i compagni perché nessuno, atterrito, si ritirasse. Quando il palo d’ulivo nel fuoco già stava per infiammarsi, benché fosse verde, splendendo terribilmente, allora in fretta lo tolsi dal fuoco, e intorno mi stavano i compagni: certo un dio c’ispirò gran coraggio. Essi, alzando il palo puntuto d’olivo, lo spinsero nell’occhio: e io premendo da sopra giravo, come fossi un carpentiere col trapano un asse navale: ci sono infatti altri sotto che con la cinghia lo girano, tenendola di qua e di là: in questo modo il trapano corre costante. Così ficcato nell’occhio del mostro il tizzone infuocato, lo giravamo; il sangue scorreva intorno all’ardente tizzone; arse tutta la palpebra in giro e le ciglia, la vampa della pupilla infuocata; nel fuoco le radici dell’occhio friggevano. Come un fabbro immerge una gran scure o un’ascia nell’acqua fredda, con sibilo acuto, per temprarla – e questa è appunto la forza del ferro – così intorno al palo d’olivo strideva l’occhio del mostro.
Paurosamente gemette, l’eco si propagò per tutta la caverna; atterriti balzammo indietro: il Ciclope strappò il tizzone dall’occhio grondante di sangue, e lo scagliò lontano da sé, agitando le braccia, e i Ciclopi chiamava gridando, che in giro vivevano nelle grotte e sulle cime battute dai venti. E udendo il grido quelli correvano in folle, chi di qua, chi di là; e stando intorno alla grotta chiedevano che cosa volesse: «Perché Polifemo, hai gridato con tanto strazio nella dolce notte, facendoci svegliare? Forse qualche mortale ti sta rubando le pecore? Qualcuno ti sta uccidendo con la forza o con l’inganno?» E a loro dalla caverna rispose Polifemo gagliardo: «Nessuno, amici, mi sta uccidendo con l’inganno e non con la forza». E quelli in risposta parole fugaci dicevano: «Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo, dal male che manda il gran Zeus non c’è scampo; piuttosto invoca tuo padre, Poseidone sovrano». Così dicevano andandosene: e il mio cuore rideva, come l’aveva ingannato il nome e la buona trovata. Il Ciclope piangendo, straziato da strazio feroce, a tentoni levò dalla porta gran masso, e stava lui stesso a seder sulla porta, a braccia distese, se tra le pecore potesse afferrare qualcuno che uscisse: così sperava che nel mio cuore fossi un pivello. Io, intanto, pensavo come cavarmela nel miglior modo, per salvare dalla morte me e i miei compagni; cercavo di pensare in fretta a qualcosa perché c’era in ballo la vita. E questo nell’animo mi parve il mezzo migliore: c’erano dei montoni ben grassi, dal vello foltissimo, belli e grandi, dalla lana colore di viola; li legavo a tre a tre insieme con i vimini sui quali il Ciclope dormiva, mostro assassino, e il montone in mezzo portava un uomo: i due di fianco, avanzando lo salvavano. Così tre montoni ciascun uomo portavano; io, poi, ‒ c’era un ariete, fra tutta la greggia il più bello – afferrandolo per i reni, me ne stetti steso sotto la pancia lanuta; e con le mani la lana meravigliosa torcendo stretta, mi tenni avvinto con cuore paziente.
4Libro IX dell’Odissea: analisi del brano su Ulisse e Polifemo
La terra dei Ciclopi non è molto distante dall’isola dei Lotofagi. È stata identificata con Aci Trezza e in generale con la provincia di Catania. L’ambientazione è ben descritta da Omero e appare come una terra ricca e abbondante, affascinante e incontaminata, ideale per fare una sosta. Qui Ulisse si imbatte in questi mostri leggendari, smisurati – cioè fuori misura, concetto importante nel mondo greco – con un enorme occhio, un disco (kuklos) un vero e proprio scherzo della natura.
Polifemo incarna la natura primitiva, meccanica, miope, e Ulisse è invece sia un guerriero che conosce la legge dell’onore ed è timoroso verso gli dei (soprattutto Atena) sia l’uomo artefice che con l’intelligenza doma la bestialità. È una vera guerra tra due mondi: civiltà (intelligenza) contro mostruosità (forza).
Nell’episodio Ulisse appare quanto mai ambivalente: ci siamo tutti domandati perché abbia ignorato i consigli dei suoi compagni che vogliono arraffare nella caverna di Polifemo tutto quanto possono e scappare. I suoi compagni sono più saggi di lui? Siamo davanti a una incoerenza o a un rovesciamento dei personaggi? La risposta è che da una parte la sua sete di conoscenza lo inchioda, dall’altra sente il suo dovere di guerriero che gli impedisce di comportarsi come un qualunque ladro.
Quindi: non era necessario fare visita a quel mostro, entrare nella sua spelonca in una situazione di evidente inferiorità. Non era necessario, ma disonorevole. Davanti a un mostro dei guerrieri provetti non fuggono: lo affrontano. L’unica problematica che non viene accuratamente ponderata – cosa strana – è attendere il mostro proprio dentro la caverna, in una situazione di evidente svantaggio. Tuttavia questa situazione sembra necessaria per rendere l’uscita dall’antro ancora più avvincente, eroica e significativa. Dunque Ulisse va fino in fondo, i compagni lo seguono perché sono stregati dal suo carisma. Li mette in pericolo: quattro di loro muoiono.
Ma Ulisse è l’eroe che guida le menti dei suoi compagni nell’esecuzione del piano ideale per l’evasione. In primo luogo occorre osservare il nemico. Polifemo è metodico, ordinato, ripetitivo. Questo dettaglio colpisce Ulisse anche più dell’enorme singolo occhio. Un altro dettaglio importante è, naturalmente, la sua immane grandezza – la dismisura, che traduce la mancanza di rispetto verso qualunque norma o misura, come quella verso gli ospiti a cui Ulisse si appella. Infatti Polifemo nega l’ospitalità: I Ciclopi, dice, sono più forti degli dei. Avuta la conferma dell’empietà, Ulisse non può dire di essere lì con la sua nave: Polifemo li farebbe prigionieri e poi uscirebbe per cercarla e distruggerla. Polifemo non appena vede il laccio della sua intelligenza essere così facilmente evitato, dà prova della sua forza per sottolineare che in fondo dell’intelligenza lui non ha bisogno. Errore. Finito il truce spettacolo – e sembra quasi una clessidra della prigionia che scandisce il tempo perché a due a due i compagni di Ulisse vengono uccisi – Polifemo si addormenta.
Ulisse doma l’istinto e usa la ragione: ci vuole un piano intelligente per vincere la forza che a loro manca per aprire l’uscita. Ecco allora il palo per accecarlo – perché è l’unico modo per scappare da lui in uno spazio chiuso – e poi il vino (preparato in precedenza) per togliere la forza al mostro, poi l’operazione. Sei compagni, intanto, sono morti. Due nel primo giorno (cena), quattro nel secondo giorno (colazione e cena). Il piano deve riuscire, ma bisogna prevedere le conseguenze. Capisce che, giunti gli altri ciclopi a dare manforte a Polifemo, lui e i suoi compagni sarebbero ugualmente spacciati: il piano deve essere perfetto. Lo stratagemma del nome è fondamentale: quasi non lo cogliamo subito, ma Ulisse è anche qui preveggente. Mente anche questa volta, ma l’inganno non viene colto anche grazie all’ubriachezza. Il suadente nome di Nessuno fa la sua comparsa. Nessuno: un uomo da niente, uno che non esiste; ma anche un uomo che, potremmo dire, è tutti gli uomini. Alla forza brutale, deve rispondere con sagacia estrema.
L’ambivalenza di Ulisse, sempre furbo e astuto, cede quando si proclama vincitore di questa sfida: urla a Polifemo di essere stato lui, Ulisse, ad accecarlo: vuole prendersi il merito di un piano ben riuscito in nome di Atena, l’intelligenza, ed è questa imprudenza (imprudenza di guerriero potremmo dire) che gli fa rivelare al suo nemico il nome e lo condanna a vagare sul mare sotto la furia vendicativa di Poseidone, padre di Polifemo.
Dunque la sua vanità, non diventa tracotanza, seppure ne ha l’aspetto e le conseguenze. La risposta, come detto, è sempre l’etica guerriera. Spieghiamo meglio: Ulisse è un protetto di Atena (anzi, un guerriero di Atena se vogliamo) e vince nel segno di Atena con uno stratagemma simile a quello del cavallo di Troia. La caverna è come la pancia del cavallo. L’inganno fa parte della guerra e il nemico si rivela come tale proprio per affermare la sua vittoria: sarebbe come fare un attentato e non rivendicarlo come gesto di guerra, perderebbe di valore ideale e non sarebbe, appunto, un gesto da guerriero.
Per questo Ulisse si svela: proclamare la propria vittoria è il gesto finale dello svelamento, che rende l’episodio un momento bellico. Tutto in questo episodio ha a che fare con la forza e l’inganno e quindi anche con gli opposti: la debolezza e lo svelamento (la soluzione dell’inganno). L’intelligenza stessa di Ulisse, espressa nelle sue parole e nei suoi atti, si era nascosta dietro il nome di Nessuno, così come il palo di ulivo era nascosto nel letame: dietro le apparenze innocue, ci sono le armi. Anche il vino, dono degli ospiti, ma dono – come abbiamo visto – pericoloso, dato in modo eticamente corretto ma per l’inganno, svela il suo scopo in un secondo momento. È questa continua ambivalenza, questo continuo coprire e disvelare, come se si passasse da una soglia a farci riflettere sull’ambivalenza di Ulisse-Nessuno e, per metonimia, dell’intelligenza stessa.
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Domande & Risposte
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Cosa dice Ulisse a Polifemo?
Ulisse inganna Polifemo dicendogli di chiamarsi "Nessuno"
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Dove si trovava Polifemo?
Nella Terra dei Ciclopi.
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Per cosa prova sentimenti Polifemo?
Per le proprie pecore.