Traduzione Le Confessioni, Sant'Agostino, Versione di Latino, Libro 12; 17-32

Traduzione in italiano del testo originale in latino del Libro 12; paragrafi 17-32 dell'opera Le Confessioni di Sant'Agostino

Traduzione Le Confessioni, Sant'Agostino, Versione di Latino, Libro 12; 17-32
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LE CONFESSIONI: TRADUZIONE DEL LIBRO 12; PARAGRAFI 17-32

[17.24]. Dicono infatti: "Per vero che ciò sia, non erano quelle le due cose che Mosè, illuminato dallo Spirito Santo, intendeva con le parole 'In principio Dio creò il cielo e la terra'. Con la parola 'cielo' non si riferiva a quella creatura spirituale o intellettuale che contempla ininterrottamente il volto di Dio, né con la parola 'terra' alla materia informe". A che cosa, dunque? "A quello che diciamo noi", rispondono, "a questo pensava quell'uomo famoso, e questo ha voluto esprimere con quelle parole". E cioè? "Con le parole 'cielo e terra' volle riferirsi a tutto questo mondo visibile, dapprima nella sua totalità e concisamente, per poi analizzare nelle singole parti, attraverso l'enumerazione dei giorni, tutte le cose come allo Spirito Santo piacque elencarle. Tali erano infatti gli uomini di cui si componeva quel popolo rozzo e materiale, a cui si rivolgeva, da fargli credere che non si potessero proporre loro altre opere di Dio che le visibili". Però la terra invisibile e informe e l'abisso sovrastato di tenebra, da cui in seguito nel corso di quei giorni appaiono formate e ordinate tutte queste opere visibili che ciascuno conosce, essi ammettono pure che non sia assurdo intenderli come la materia informe che è in questione. [17.25]. Ora, altri potrebbero sostenere che a quella stessa assenza di forma e confusione proprie della materia si fosse accennato prima con le parole "il cielo e la terra", perché è a partire dalla materia appunto che fu costituito e portato a compimento questo mondo visibile con tutti i generi di cose in esso ben distinguibili, questo mondo cui spesso ci riferiamo con le parole "il cielo e la terra". Altri ancora potrebbero affermare che "cielo e terra" fu chiamata, non a sproposito, la natura invisibile e visibile delle cose, e che perciò in queste due parole era compresa l'intera creazione che Dio operò nella sapienza, vale a dire nel principio. Però, siccome tutte le cose furono fatte non della stessa sostanza divina, ma dal nulla, perché non sono identiche a Dio e tutte hanno in sé una certa tendenza al mutamento, sia che si facciano permanenti, come la corte di Dio, sia che si mutino come l'anima e il corpo dell'uomo, con quelle parole si volle indicare una materia comune alle cose visibili e invisibili, ancora informe ma certamente formabile, da cui sarebbero usciti il cielo e la terra, vale a dire entrambe le sorte di creature già formate, invisibili e visibili. Con quelle parole, appunto: "terra invisibile e informe e tenebre al di sopra dell'abisso", e con questa distinzione, che per "terra invisibile e informe" si dovrebbe intendere la materia corporea anteriore alla determinazione di qualità e forma, per "tenebre al di sopra dell'abisso" la materia spirituale anteriormente al contenimento della sua illimitata irruenza - per così dire - e all'illuminazione da parte della sapienza. [17.26] Qualcuno potrebbe anche sostenere, se volesse, che nella frase "In principio Dio creò il cielo e la terra" con le parole "il cielo e la terra" non ci si riferisce a entità visibili o invisibili già dotate di forma e compiutezza, ma all'abbozzo ancora informe della realtà e alla materia ancora virtuale della sua creazione e formazione.

E che in questa già esistevano, confusi e non ancora distinti per forma e qualità, quelli che ora, ripartiti nei rispettivi ordini di realtà, chiamiamo il cielo e la terra, ossia le creature spirituali e quelle corporee. La libertà dell'esegesi [18.27]. Viste e considerate tutte queste opinioni, non voglio far dispute di parole, a nulla utili, se non alla perdizione degli ascoltatori. La legge invece è buona perché serve a edificare, se la si usa legittimamente, e ha per fine la carità che nasce dalla purezza di cuore, da una coscienza buona e da una fede non immaginaria; e lo sa bene il nostro maestro, che sospese ai suoi due soli precetti tutta la legge e i profeti. Se io ne faccio ardente professione, Dio mio, lume segreto dei miei occhi, che male c'è se di queste parole si possono dare interpretazioni diverse, leggendovi cose che sono comunque vere? Che male c'è, dico, se io avrò in mente cose diverse da quelle che un altro pensa avesse in mente lo scrittore? Ma tutti noi che lo leggiamo ci sforziamo di ricercare e comprendere quello che l'autore voleva: e se lo crediamo veritiero, non oseremo attribuirgli nulla che sappiamo o riteniamo falso. Quando dunque ciascuno si sforza di intendere le Sacre Scritture secondo l'intenzione dello scrittore, che cosa c'è di male se intende ciò che tu, luce di tutte le intelligenze capaci di verità, mostri essere il vero, anche se non è ciò che intendeva l'autore in questione, quando, pur essendo diverso, è sempre il vero che quest'ultimo ha inteso? [19.28]. Certo, è vero che tu, Signore, hai fatto il cielo e la terra. Ed è vero che il principio è la tua Sapienza, in cui hai fatto tutte le cose. È vero anche che questo mondo visibile abbraccia nella sintesi delle sue grandi parti, il cielo e la terra, tutti i generi di cose da te formati e stabiliti. Ed è vero che ogni cosa mutevole ci suggerisce l'idea di un che di informe, che proprio per questo può assumere una forma, o mutarsi e trasformarsi. È vero che non è soggetto alle peripezie del tempo ciò che aderisce talmente a una forma immutabile, da non mutarsi mai, benché soggetto al mutamento. È vero che un'assenza di forma tale da approssimarsi al nulla non può avere vicende temporali. È vero che ciò da cui una cosa deriva può, secondo certi modi di esprimersi, ricevere addirittura il nome della cosa che ne deriva: motivo per cui fu possibile chiamare cielo e terra la massa informe, quale che fosse, da cui sono derivati il cielo e la terra. È vero che di tutte le cose formate nulla si avvicina all'informe più della terra e dell'abisso. È vero che tu hai fatto non solo ogni cosa creata e dotata di forma, ma anche tutto ciò che può essere creato e dotato di forma, tu da cui tutte le cose provengono.

È vero che tutto ciò che è formato dall'informe è informe prima di essere formato. Varietà di interpretazioni possibili [20.29]. Da tutte queste verità, di cui non dubitano quelli che ebbero da te il dono di vederle con l'occhio interiore, irremovibili nel credere che il tuo servo Mosè abbia parlato in spirito di verità, ciascuno si sceglie la propria: una cosa è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece il mondo delle creature intelligibili e sensibili, o spirituali e corporee; altra cosa è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece tutta la gran massa di questo mondo materiale con tutti i ben noti e visibili generi di cose che vi sono contenute; altra cosa ancora è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece la materia amorfa della creazione tanto spirituale che corporea; altro ancora è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nel Verbo a sé coeterno Dio fece la materia amorfa della creazione corporea, in cui erano ancora confusi il cielo e la terra, che ora percepiamo nella gran massa di questo mondo come elementi distinti e dotati di forma; altro infine è intendere "In principio Dio creò il cielo e la terra" nel senso che nell'esordio stesso dell'opera della creazione Dio fece la materia amorfa contenente ancora indifferenziati il cielo e la terra, che poi da quella si sono formati fino ad apparire ben distinti e visibili con tutte le cose che appartengono loro. [21.30] E così pure per quanto concerne l'intelligenza delle parole successive: di tutte quelle verità ciascuno sceglie la propria. Altro è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che quella massa corporea creata da Dio era la materia ancora informe dei corpi, senza ordine, senza luce; altro è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che il tutto che poi si chiamò cielo e terra era ancora informe e tenebrosa materia, da cui sarebbero derivati il cielo fisico e la terra fisica con tutto ciò che contengono di noto ai sensi del corpo; altro ancora è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che il tutto che poi si chiamò cielo e terra era ancora informe e tenebrosa materia, da cui sarebbe derivato il cielo intelligibile - che altrove è detto cielo del cielo - e la terra, cioè tutte le cose di natura corporea, intendendo con questa parola anche il cielo fisico: insomma, da cui sarebbero derivate tutte le creature visibili e invisibili. Altra cosa ancora è affermare che con le parole "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" la Scrittura non si riferisce a ciò che ha chiamato cielo e terra, ma a una assenza di forma che preesisteva: alla quale appunto - ci si dice - ha dato il nome di terra invisibile e informe e tenebroso abisso: e da cui, come è scritto nel passo precedente, Dio trasse il cielo e la terra, cioè le creature spirituali e quelle materiali; altro infine è intendere "La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso" nel senso che quell'assenza di forma era già in qualche modo la materia da cui, come la Scrittura afferma subito prima, Dio fece il cielo e la terra, vale a dire tutta la massa dell'universo fisico, divisa nelle sue due massime regioni, la superiore e l'inferiore, con tutte le creature familiari e ben note che esse contengono.

[22.31] A queste due ultime opinioni si potrebbe tentare di obiettare: "Se non ammettete che col nome di cielo e terra ci si riferisca a questa materia amorfa, esisteva dunque qualcosa di non creato da Dio, da cui egli trasse il cielo e la terra; e in effetti la Scrittura non racconta di una creazione di questa materia da parte di Dio, a meno di intendere come modi di designarla le parole 'il cielo e la terra', o forse soltanto 'la terra', là dove si dice: 'In principio Dio creò il cielo e la terra'; così che il seguito, 'La terra era invisibile e informe, e le tenebre erano al di sopra dell'abisso', anche ammesso che sia proprio la materia amorfa a essere così chiamata, non possiamo intenderlo che riferito a quella che fu Dio a creare, secondo il passo che precede: 'creò il cielo e la terra'"; udite queste obiezioni, gli assertori dell'una o dell'altra delle due opinioni che abbiamo citato per ultime risponderanno: "Noi non neghiamo che anche questa materia amorfa sia stata fatta da Dio, da Dio dal quale derivano tutte le cose molto buone: perché, come dichiariamo bene maggiore ciò che è stato creato e dotato di forma, così concediamo che quanto è passibile di esser creato e dotato di forma sia ancora un bene, benché minore; e d'altra parte la Scrittura non fa parola della creazione di questa materia amorfa da parte di Dio, come non fa parola di molti altri enti che senza dubbio sono opera di Dio: ad esempio i Cherubini e i Serafini, e quelli esplicitamente distinti dall'Apostolo: Troni, Dominazioni, Principati, Potestà. Ma se nel passo che dice 'creò il cielo e la terra' sono comprese tutte le cose, che cosa diremo delle acque, sulle quali aleggiava lo spirito di Dio? Se infatti si intendono comprese nel nome di terra, come si può applicare quel nome anche alla materia amorfa, mentre le acque le vediamo, e sono anzi così belle a vedersi? Ma se è questa l'accezione corretta, perché da quella stessa massa amorfa sta scritto che fu fatto il firmamento e che fu chiamato cielo e non sta scritto che furono fatte le acque? Perché non sono certo ancora informi e sottratte alla vista, le acque che sono uno spettacolo così grazioso, a vederle fluire. Oppure, se questa bellezza l'assunsero allora, quando Dio disse: 'Si raccolgano le acque che sono al di sotto del firmamento', ammesso che questo confluire sia acquisire forma, che cosa si risponderà a proposito delle acque che sono al di sopra del firmamento? Perché da un lato allo stato amorfo non avrebbero meritato una sede tanto onorevole, e dall'altro non si trova cenno all'atto di parola con cui furono dotate di forma. Perciò, se la Genesi non fa parola di qualche opera di Dio che però né una sana fede né una ferma intelligenza dubitano sia tale - e nessuna teoria seria oserà sostenere che le acque in questione sono a Dio coeterne, solo perché le vediamo menzionate nel libro della Genesi ma non troviamo il punto della loro creazione - perché non intendere, alla scuola della verità, che anche quella materia amorfa chiamata in questo passo della Scrittura 'terra invisibile e informe e tenebroso abisso', Dio la fece dal nulla e perciò non gli è coeterna? Anche se il racconto in questione omette il riferimento al punto in cui fu creata.

" Principi metodologici. La "libertà del lettore" [23.32]. Bene: dopo aver ascoltato queste interpretazioni e averle esaminate per quanto mi consente l'incostanza - io la confesso a te che la conosci, mio Dio - vedo che due specie di dissenso possono insorgere quando il messaggio di un portavoce veridico viene trasmesso per mezzo di segni: l'una sulla verità dei fatti, l'altra sull'intenzione di chi lo trasmette. Altro è chiedersi che cosa sia vero riguardo alla creazione, altro che cosa con queste parole abbia voluto far intendere al lettore o all'ascoltatore Mosè, questo nobile servitore della tua fede. Quanto alla prima specie di dissenso, io prendo le distanze da tutti quelli che pretendono di conoscere ciò che in effetti è falso. E prendo le distanze anche, quanto alla seconda, da tutti quelli la cui pretesa è che Mosè abbia detto il falso. Invece vorrei unirmi in te a quelli che della tua verità si nutrono in tutta la larghezza dell'amore, e in te mio Signore goderne con loro; vorrei che avessimo comune accesso alle parole del tuo libro e vi cercassimo la tua intenzione attraverso quella del tuo servo, per la cui penna tu ce le hai donate. [24.33] Ma questa intenzione chi di noi, fra le tante verità che in questa o quella interpretazione si presentano a chi cerca, l'ha proprio scoperta, tanto da poter asserire che questo sia stato il pensiero di Mosè e questo egli abbia voluto far intendere in quel racconto, con la stessa sicurezza con cui afferma che questo è vero, qualunque cosa egli avesse in mente? Ma se io stesso, Dio mio, io servo tuo che ti offro in voto in questo scritto il sacrificio di una confessione e ti prego che la tua misericordia mi conceda di mantenere il mio voto, io affermo che tu hai creato ogni cosa, visibile e invisibile, nella tua Parola immutabile: ma affermo forse con la stessa sicurezza che Mosè non avesse altro in mente quando scrisse: "In principio Dio creò il cielo e la terra"? No, perché nella sua mente non vedo, quanto lo vedo certo nella tua verità, che proprio questo pensasse, quando così scriveva. Perché può ben darsi che dicendo "in principio" pensasse all'inizio della creazione; può darsi che per "il cielo e la terra" in quel passo non volesse intendere la realtà spirituale o materiale già formata e compiuta, ma l'una e l'altra ancora allo stato di abbozzo, ancora informi. Vedo che entrambe le cose avrebbero potuto essere dette con verità, qualunque delle due sia stata detta; ma quale appunto egli avesse in mente mentre usava quelle parole, non lo vedo così bene. Anche se, qualunque di queste due interpretazioni o di altre da me neppure menzionate un uomo così grande abbia avuto davanti agli occhi quando proferì quelle parole, vide certamente il vero e lo espresse in modo adeguato: su questo non ho nessun dubbio. [25.34]. E nessuno venga più a tormentarmi con parole come: "Non questo che dici tu aveva in mente Mosè, ma quello che dico io".

Ancora se uno mi chiedesse: "Come fai a sapere che Mosè aveva in mente proprio quello che tu gli fai dire?" - dovrei mantenermi calmo e tollerante e risponderei forse quello che ho risposto sopra, magari più diffusamente, se fosse un po' testardo. Ma se uno asserisce: "Non questo che dici tu aveva in mente, ma quello che dico io", senza peraltro contestare la verità di entrambe le cose che noi diciamo - o vita dei poveri, Dio mio in seno a cui non c'è contraddizione, piovimi in cuore un poco di mitezza, che io trovi la pazienza di sopportarla, gente del genere. Non me lo vengono a dire perché sono indovini e quel che dicono l'han visto in cuore al tuo servo, ma perché sono pieni di superbia, e ignorano il pensiero di Mosè ma amano il loro proprio, e non perché sia vero ma perché è il loro proprio. Altrimenti amerebbero in pari misura un'altro pensiero vero, come amo io quello che loro dicono quando dicono il vero: non perché è loro, ma perché è vero: e non è loro già solo perché è vero. Se poi lo amano proprio perché è vero, esso è già tanto loro quanto mio, poiché appartiene in comune a tutti gli amanti della verità. Ma quanto alla loro pretesa che Mosè avesse in mente non quello che dico io, ma quello che dicono loro, non ne voglio sapere e non mi piace; e se anche così fosse, questa presunzione non è effetto di scienza ma di insolenza, non nasce da un'intuizione ma dall'albagia. Tremendi, Signore, sono i tuoi giudizi: proprio perché la tua verità non è mia né di questo o di quello, ma di tutti noi che tu pubblicamente chiami a parteciparne in comune, con l'avvertimento terribile di non pretenderne il possesso privato, per non esserne privati. Perché chiunque rivendica la proprietà esclusiva di ciò che tu offri al godimento di ognuno e pretende suo quello che è di tutti, è ricacciato dal bene comune al suo proprio, cioè dalla verità alla menzogna. Chi infatti dice menzogne, dice del suo. [25.35] Fa' attenzione, tu, il migliore dei giudici, Dio o la verità stessa, fa' attenzione alla risposta che dò a questo avversario, fa' attenzione: parlo davanti a te e davanti ai miei fratelli che fanno un uso legittimo della legge secondo il suo fine, l'amore. Presta attenzione e vedi se ti piace come io gli parlo. Con queste parole fraterne e serene io mi rivolgo a lui: se entrambi vediamo che è vero ciò che dici tu ed entrambi vediamo che è vero ciò che dico io, domando: dov'è che lo vediamo? Certo né io in te né tu in me, ma entrambi nella stessa verità immutabile che sta al di sopra delle nostre menti. Se dunque non c'è alcuna controversia fra noi a proposito della luce stessa del signore Dio nostro, perché ci mettiamo a disputare sul pensiero del nostro prossimo, che pure non possiamo vedere come si vede la verità immutabile? In fondo se Mosè in persona ci apparisse per dirci "Questo avevo in mente", neanche allora lo vedremmo, ma ci limiteremmo a credere.

E allora non gonfiamoci d'orgoglio in favore dell'uno e contro l'altro. Amiamo il signore nostro Dio con tutto il cuore, con tutta l'anima, con tutta la mente, e il prossimo nostro come noi stessi. Se non credessimo che Mosè, qualunque sia stato il suo pensiero in quei libri, sia stato mosso da questi due precetti d'amore, faremmo bugiardo il Signore, attribuendo al nostro compagno di servizio intendimenti diversi da quello che egli ha insegnato. E allora vedi quanto sia stupido, in tanta abbondanza di proposizioni verissime che si possono desumere da quelle parole, osare temerarie asserzioni su quella che Mosè in particolare avrebbe avuto in mente, e con perniciose controversie offendere quell'amore che indusse colui che stiamo cercando di interpretare a dire tutto quello che disse. Molteplicità dei livelli di interpretazione [26.36]. E io però Dio mio, vetta della mia umiltà e pace della mia fatica, che ascolti le mie confessioni e rimetti i miei peccati, non posso credere - dato che mi prescrivi di amare il prossimo mio come me stesso - che Mosè, il più fedele dei tuoi servitori, abbia ricevuto un dono minore di quello che io augurerei a me stesso e desidererei avere da te se fossi nato ai suoi tempi e tu mi avessi messo al suo posto. E se fossi stato io a servire con il cuore e la lingua, e a divenire mezzo di trasmissione di quelle parole scritte che tanto tempo dopo dovevano fare del bene a tutte le genti e soverchiare su tutta la terra, dall'alto di un'autorità così somma, la voce di ogni insegnamento falso e superbo. Oh, allora - se io fossi stato Mosè - perché infine veniamo tutti dalla stessa massa - e cos'è l'uomo se non ti ricordi di lui? - se fossi stato ciò che lui era e tu mi avessi incaricato di scrivere il libro della Genesi, avrei voluto ricevere da te una proprietà di parola e una sapienza di stile tali che neppure la gente non ancora in grado di intendere in che modo Dio crea rifiutasse l'opera come cosa superiore alle sue forze, e quelli che invece sono già in grado di intendere ritrovassero nelle concise parole del tuo servitore ogni proposizione vera, non una esclusa, in cui il loro pensiero si fosse imbattuto; e se altri ne avesse nella luce della verità vedute ancora, neppure queste mancassero, ma fossero anch'esse leggibili nelle stesse parole. [27.37]. Come l'acqua sorgiva in luogo angusto è più abbondante, e defluendo in molti rivoli bagna più largo spazio di ciascuno dei rivoli di quell'unica sorgente, che scorrono per molti luoghi diversi, così il racconto di quel tuo amministratore, cui avrebbero attinto numerosi scrittori, fa scaturire da poche parole fiumi di limpida verità: in modo che ciascuno ne tragga tutto il vero di cui è capace in materia - ciascuno il suo - e lo faccia scorrere in discorsi dai lenti meandri.

Già: perché alcuni leggendo o ascoltando queste parole si rappresentano Dio come un uomo o come una forza dalla mole immensa, che di punto in bianco si sia arbitrariamente decisa a creare, fuori di sé e come distanti nello spazio, il cielo e la terra, due grandi corpi, sopra e sotto, contenitori di tutte le cose. E quando sentono le parole: "Dio disse: sia questo, e questo fu", pensano a parole con un principio e una fine, che risuonano per un certo tempo e passano, passate le quali improvvisamente era là ciò cui fu comandato di esistere: e a questo modo si fanno ogni sorta di immagini in base alle consuetudini della carne. Sono creature infantili, quasi animalesche ancora: in loro è con questo modo di esprimersi, il più semplice, quasi latte materno a sostegno della loro immaturità, che si costruisce per la loro salute la fede. E così tengano per certo che Dio è autore di tutti i generi di cose meravigliosamente varie che il loro occhio vede tutt'intorno. Se uno di costoro poi, come in spregio all'umile stile di discorso si lancia, superbo nella sua sprovvedutezza, fuori dalla culla che lo nutriva, oh infelice! cadrà, e tu abbi pietà Signore Dio, che il pulcino implume non sia calpestato da quelli che passano per la via, e manda il tuo angelo che lo riponga nel nido, perché viva finché sappia volare. [28.38] Ma ce ne sono altri che in quelle parole trovano non un nido ma un folto frutteto, e vi vedono nascosti i frutti e svolazzano garruli e lieti a cercarli con gli occhi e a carpirli. Vedono infatti, quando leggono o ascoltano queste tue parole, Dio eterno, che la tua immutabile permanenza è al di sopra di tutti i tempi passati e futuri, e tuttavia non c'è creatura temporale di cui tu non sia l'autore; che la tua volontà, essendo identica al tuo essere, non s'è affatto mutata, ovvero che senza dar luogo a intenti che non c'erano prima tu hai fatto essere tutte le cose; e non traendo da te stesso, a tua somiglianza, la forma di tutte le cose, ma dal nulla la dissomiglianza amorfa. Che tuttavia è capace di ricever forma, risalendo all'uno che tu sei, per assimilazione, nella misura prestabilita a ciascun essere nel suo genere. E che tutte le cose sono molto buone, sia che rimangano intorno a te, sia che per gradi allontanandosi nel tempo e nello spazio siano causa o soggetto di un'armoniosa varietà d'effetti. Tutto questo vedono, e ne godono nella luce della tua verità, per quel poco che possono quaggiù. Ancora sui sensi di "In principio" [28.39] E fra questi, c'è chi in quel passo, "In principio Dio creò..." intende per principio la Sapienza, poiché anch'essa ci parla. Altri, pensando a queste medesime parole, interpretano il principio come l'inizio della creazione e leggono "in principio creò" come creò dapprima; e fra quelli che interpretano in principio nel senso della Sapienza in cui hai fatto il cielo e la terra, uno crede che "cielo" e "terra" siano i nomi dati alla materia da cui furono tratti cielo e terra, un altro che si riferiscano a due generi di entità ben formate e distinte, un altro ancora che "cielo" designi un genere di entità dotate di forma e spirituali, "terra" invece uno amorfo di materia corporea.

Ma neppure quelli che con "cielo" e "terra" intendono una materia ancora amorfa, da cui sarebbero stati formati il cielo e la terra, l'intendono a un modo: chi vi vede l'origine delle creature sensibili e intelligibili, chi soltanto quella di questa massa sensibile e corporea che contiene nel suo vasto seno tutti gli esseri manifesti e perspicui ai nostri sensi. Come non l'intendono a un modo quelli che in quel passo credono vengano chiamati "cielo" e "terra" le creature già distinte e ordinate, ma chi intende quelle visibili e invisibili, chi soltanto il mondo visibile, di cui indoviniamo il cielo luminoso e la buia terra - con tutto ciò che vi è. [29.40] Ma chi interpreta "In principio creò" non altrimenti che se dicesse "creò dapprima", non può ragionevolmente intendere cielo e terra se non come materia del cielo e della terra, vale a dire dell'universo tutto: intelligibile e corporeo; perché se volesse vedervi un universo già formato, sarebbe giusto chiedergli: se Dio ha fatto prima questo, che cosa ha fatto poi? Dopo l'universo, non troverà nient'altro, e suo malgrado si sentirà chiedere: "E allora in che senso ha fatto prima quello, se poi non ha fatto nulla?" Se invece pone prima la materia amorfa, e poi quella formata, non incorre nell'assurdo, purché sia in grado di distinguere fra priorità di ciò che è eterno e priorità nel tempo, secondo la preferenza e secondo la genesi; così nella sua eternità Dio è prima di ogni cosa; secondo il tempo, il fiore viene prima del frutto; secondo la preferenza, il frutto viene prima del fiore; geneticamente, il suono precede la melodia. Di questi quattro sensi il primo e l'ultimo menzionato sono i più difficili da capire, i due intermedi i più facili. È rara e troppo ardua, mio Signore, l'intuizione della tua eternità che crea senza mutare esseri mutevoli, e per questo appunto è prima di essi. Per non parlare poi della capacità di afferrare senza gran fatica una relazione così sottile come quella di priorità del suono rispetto alla melodia, che consiste nell'essere la melodia un suono dotato di forma: e qualcosa senza forma può ben esserci, mentre ciò che non esiste non può ricevere una forma. Allo stesso modo la materia precede ciò che ne deriva: non dunque nel senso che sia lei a operare la trasformazione, perché piuttosto la subisce, e neppure nel senso di essere temporalmente anteriore. Così non ci accade di emettere in un primo tempo suoni senza una forma o melodia e di organizzarli o modellarli in forma di canto solo in un secondo tempo - come legno da cui si fabbrica uno scrigno o argento da cui si foggia un vaso. Materiali del genere precedono certamente anche nel tempo le forme delle cose che ne vengono fatte. Ma nel canto non è così. Quando infatti si canta è il suono della melodia che si ode, e non un suono dapprima informe che solo in seguito riceve forma in una melodia.

I suoni, qualunque siano, appena risuonati passano: e non lasciano nulla che tu possa recuperare per poi ricavarne una composizione a regola d'arte. Reciprocamente, è risuonando che una melodia si svolge: e questo suo suono è la sua materia. È appunto ricevendo una forma che diventa una melodia. E quindi, come dicevo, la materia sonora viene prima della forma melodica: non perché possa produrla come effetto - dato che il suono non è artefice della melodia, ma è consegnato dal corpo all'anima del cantore, perché ne faccia una melodia -; neppure viene prima in senso temporale, perché è emesso contemporaneamente alla melodia; e neppure secondo la preferenza, perché il suono non vale più della melodia, se questa non è soltanto suono, ma suono dalla bella forma. Ma viene prima geneticamente, perché non è la melodia a ricever forma per diventare suono, ma il suono per diventare melodia. Da questo esempio intenda chi può come la materia delle cose sia stata creata prima, e chiamata "cielo" e "terra," perché da essa hanno origine il cielo e la terra: non creata prima in senso temporale, perché è la forma delle cose che rivela il tempo, mentre la materia era informe ed è ormai nel tempo che se ne ha notizia. Eppure una narrazione che l'abbia a soggetto non può fare a meno di trattare questa priorità come se fosse di ordine temporale: perché quanto a valore tiene l'ultimo posto, essendo senza dubbio migliori le cose dotate di forma che le informi, e in altro senso ha prima di sé l'eternità del creatore, senza cui non poteva esser dal nulla l'origine di qualche cosa. Accordo di tutte le verità e fecondità dell'esegesi [30.41]. In questa varietà di proposizioni vere sia la verità stessa a portare la concordia, e il nostro Dio abbia pietà di noi, perché ci serviamo legittimamente della legge, secondo il fine delle prescrizioni che è il puro amore. E perciò se qualcuno mi domanda quale di questi fosse il vero pensiero di quel tuo servo famoso, Mosè - non lo so e lo confesso: non è argomento per le mie confessioni. So però che si tratta di proposizioni vere - fatta eccezione per quelle concepite nella carne, di cui ho già parlato abbastanza, o così m'è parso. Ma a tutti gli altri, a tutti noi - neonati della speranza, piccoli ma non atterriti da queste parole del tuo libro, che sono insieme sublimi e semplici, scarne ed eloquenti - e a tutti quelli che riconosco per interpreti del vero chiuso in quelle parole, io dico: amiamoci, ed egualmente amiamo te, Dio nostro, fonte di verità, se di verità e non di vanità abbiamo sete. E a quel tuo servitore, quel bravo economo della tua scrittura, pieno del tuo spirito, rendiamo onore con la persuasione che scrivendo come la tua rivelazione gli dettava abbia mirato al massimo e di luce e di frutto, al vero e all'utile.

[31.42]. Così quando uno dice: "Aveva in mente quello che penso io", e un altro ribatte "No, quello che penso io", io rispondo, credo, con maggior senso del divino: e perché non tutt'e due le cose, se entrambe sono vere? E se un altro in queste parole ne vede una terza, una quarta o qualunque altra ancora, perché non si dovrebbe credere che le abbia tutte vedute lui che fu lo strumento di cui il Dio uno si servì per adattare gli scritti sacri ai pensieri di molti, destinati a vedervi cose diverse, e vere? Io, non ho paura a dirlo dal profondo del cuore, se scrivessi qualcosa di adatto a raggiungere il vertice dell'autorevolezza, vorrei senza dubbio scrivere in modo che qualunque verità uno possa mai afferrare in questa materia, echeggi nelle mie parole: piuttosto che formulare più chiaramente una sola proposizione vera, a esclusione di tutte le altre - posto naturalmente che la loro falsità non mi balzi dolorosamente agli occhi. Mio Dio, e allora non sarò tanto sconsiderato da mettere in dubbio che tu l'abbia meritatamente concesso a quel grande uomo. Sì, in queste parole egli dovette intuire e concepire, mentre le scriveva, tutta la porzione di verità che noi siamo riusciti a scoprirvi e tutta quella che noi non abbiamo - o non abbiamo ancora - potuto, ma che si può scoprirvi. [32.43]. Infine, Signore che sei Dio e non carne e sangue, se l'uomo non vide tutto, poteva sfuggire al tuo spirito buono, che mi condurrà in una terra giusta, qualcosa di ciò che tu avresti rivelato ai futuri lettori attraverso quelle parole, quand'anche il tuo portavoce avesse in mente uno solo fra i molti sensi veri? E se è così, sia dunque quello che egli aveva in mente il più eccelso di tutti: ma a noi, Signore, ti piaccia di mostrare quello o un altro pure vero, e sia la tua rivelazione la stessa concessa a quell'uomo tuo, o sia diversa per ogni diversa occorrenza delle stesse parole, dacci tu da mangiare, e non ci illuda l'errore. Ecco, mio Dio e Signore: quanto ho scritto su poche parole, quante ne ho scritte! Di questo passo come potranno bastarci le forze e il tempo per tutti i tuoi libri? Lasciami dunque abbreviare in quelle parole le mie confessioni, e sceglierne un senso che tu mi hai ispirato - vero, certo e buono, per quanti se ne possano presentare là dove molti sono ugualmente possibili. E la mia confessione ti sarà fedele al punto che se dirò quello che il tuo ministro aveva in mente, tanto meglio, perché è questo che io devo tentare; ma se non ci riuscirò, dirò comunque quello che la tua verità mediante le parole di lui ha voluto dire a me, come a lui disse quello che proprio a lui voleva dire.

Un consiglio in più