Traduzione Le Confessioni, Sant'Agostino, Versione di Latino, Libro 10; 01-19
Traduzione in italiano del testo originale in latino del Libro 10; paragrafi 01-19 dell'opera Le Confessioni di Sant'Agostino
LE CONFESSIONI: TRADUZIONE DEL LIBRO 10; PARAGRAFI 01-19
[1.1]. Io conoscerò te che mi conosci, io ti conoscerò come tu mi conosci. Tu, potenza dell'anima, entra in lei, portala alla tua altezza, perché senza macchia né ruga ti si offra a esser posseduta. Questa è la mia speranza e perciò parlo, è di questa speranza che gioisco, ogni volta che la mia gioia è vera. E quanto alle altre cose in questa vita, più si piange per loro e meno sono degne di rimpianto, e tanto più ne sono degne quanto meno si piange per loro. Ecco, tu ami la verità, perché chi fa la verità viene alla luce. Io la farò nel mio cuore davanti a te in questa confessione: e anche su queste pagine però, davanti a molti testimoni. [2.2]. Del resto che segreti avrei per te, Signore, che coi tuoi occhi denudi l'abisso della coscienza umana, anche se non volessi confessarmi a te? Nasconderei te a me, non viceversa. Ora poi che il mio pianto testimonia il fastidio che provo per me stesso, sei tu la luce e il termine del desiderio, del piacere, dell'amore, fino a farmi arrossire di me stesso, a fuggire da me per abbracciare te, a non voler piacere né a me né a te se non per quello che ho da te. Sono tutto davanti a te, Signore, comunque io sia. E con che frutto io mi confessi a te, l'ho detto. Non con parole che hanno corpo e suono, ma con parole dell'anima e grida del pensiero, che il tuo orecchio conosce. Se son malvagio confessarmi a te altro non è che dispiacermi; se devoto, altro non è che rendertene merito, perché tu, Signore, benedici il giusto, ma prima, quando ancora è empio, lo giustifichi. Perciò la mia confessione al tuo cospetto, Dio mio, si fa in silenzio e non si fa in silenzio. Tace la voce, grida il sentimento. E io niente di vero dico agli uomini che tu non abbia saputo già prima, e tu da me niente vieni a sapere che non m'abbia tu stesso detto prima. [3.3]. Ma cosa ho in comune io con la gente, per farle ascoltare le mie confessioni, come se quelli potessero guarire tutte le mie malinconie? Razza curiosa della vita altrui, tarda a correggere la propria. Ma perché vogliono sapere da me chi sono io, se non voglion sapere da te chi sono loro? E come fanno a sapere se dico il vero quando mi sentono parlare di me stesso, quando non c'è uomo che sappia quel che passa in un uomo, fuorché lo spirito dell'uomo che è in lui? Ma se ascoltassero te parlare di se stessi, non potrebbero dire: "Dio mente". Perché cos'è ascoltare da te parole su se stessi, se non conoscere se stessi? E chi poi si conosce e dice "È falso", se non mente egli stesso? Ma poiché tutto crede l'amore, almeno fra le persone che stringe in un unico vincolo, anch'io, Signore, ti faccio queste confessioni per giungere all'orecchio di uomini ai quali non posso far toccare con mano la loro verità: mi crederanno quelli cui l'amore apre le orecchie.
[3. 4] Ma tu, mio medico interiore, fammi vedere con chiarezza il frutto di queste confessioni. Quelle dei miei mali passati, che hai condonato stendendovi un velo, perché trovassi in te la beatitudine una volta che tu m'avessi rinnovata l'anima con la tua fede e il mistero, quelle dunque a leggerle o ascoltarle risvegliano il cuore dal letargo della disperazione, perché non dica: "No, non ce la faccio". E perché in amorosa veglia attenda la bontà del tuo perdono e la carezza della tua grazia, che rende forte ogni uomo malcerto, e capace di giungere a coscienza, per mezzo suo, dell'instabilità. E a chi sta già nel bene fa piacere sentir parlare dei mali passati di persone che ormai ne sono libere: non perché sono mali fa piacere, ma perché furono, e non ci sono più. Ma io su queste pagine confesso davanti a te, anche agli uomini, chi sono ora, non più chi ero. Con quale frutto allora, mio Signore? Ogni giorno si confessa a te la mia coscienza, che s'affida alla speranza del tuo benigno perdono più che alla sua innocenza; dimmi: con quale frutto? L'altro, quello del mio passato, l'ho visto e ne ho già detto; ma ecco, chi sono io nello stesso momento nel quale scrivo queste confessioni, molti certo vorrebbero saperlo, che mi hanno conosciuto e non mi hanno conosciuto, che hanno sentito dire qualcosa da me o anche solo di me, ma non hanno l'orecchio appoggiato al mio cuore, dove io sono quello che sono; vogliono dunque sentire da me, sentirmi confessare quello che io sono intimamente; quello che sono là dove non possono arrivare con gli occhi o con le orecchie, e neppure col pensiero. Sono disposti a credere, ma potranno conoscere? L'amore che li fa ben disposti infatti glielo dice, che non mento in questa confessione di me stesso, e ancora è questo amore in loro a credermi [4.5] Ma quale sarà il frutto di questo desiderio? Che si rallegrino con me nell'apprendere il dono che mi fai di darmi accesso a te, e preghino per me all'udire quanto mi ritarda il mio peso? A persone del genere io mostrerò me stesso. Non è un piccolo frutto, mio Signore e Dio, se molti ti ringraziano per noi e molti per noi ti pregano; possa la loro mente fraterna amare in me quello che tu insegni ad amare, piangere in me quello che insegni a piangere; questo farà la mente di un fratello, non quella di un estraneo, o di figli di un altro, che dalla bocca sputano vanità, e che stringono in mano l'ingiustizia. No, solo quella di un fratello, che nella sua approvazione sia felice per me, e nella disapprovazione per me si rattristi; uno che, mi approvi o mi disapprovi, mi ama tuttavia. A chi è fatto così io mostrerò me stesso: il mio bene gli allargherà il respiro, il mio male lo farà sospirare.
Ciò che è bene per me sei tu che l'hai voluto, tu che me l'hai donato; ciò che è male sono peccati miei e condanne tue. Sentiranno il respiro allargarsi nel bene e per il male sospireranno, e l'inno e il pianto saliranno insieme fino a te, su da questi turiboli che sono i cuori fraterni. Ma tu, Signore, se gradisci il profumo del tuo tempio, abbi pietà di me secondo la tua misericordia immensa, in grazia del tuo nome. Tu che non abbandoni mai ciò che cominci, porta alla sua pienezza ciò che in me è incompiuto. [4. 6] Ecco il frutto che verrà dalle mie confessioni non di quello che ero, ma di quello che sono, se lo farò non solo davanti a te, con euforia segreta e con tremore, con segreto sconforto e con speranza, ma anche alle orecchie di quelli fra i figli degli uomini che credono, che condividono le mie gioie e la mia mortalità, dei miei concittadini e come me stranieri itineranti, di quelli venuti prima di me e di quelli che verranno dopo, e dei miei compagni di strada. Sono questi i tuoi servi, miei fratelli, i figli tuoi che tu hai voluto darmi per padroni, che tu mi hai comandato di servire, se voglio vivere con te e di te. E questa tua parola non sarebbe bastata, se ti fossi limitato a insegnarla parlando, senza mostrarmi la via con l'azione. E anch'io lo faccio con atti e con parole, lo faccio sotto le tue ali, e il rischio è immenso: se non che l'anima si ripiega sotto le tue ali e la mia instabilità ti è nota. Io sono un fanciullino ancora, ma mio padre è vivo e ho un protettore tutto per me: è lui stesso, lui che mi ha generato, a proteggermi. Tu stesso sei ogni mio bene, tu onnipotente che sei con me anche prima che io sia con te. E allora alle persone come quelle che mi comandi di servire io mostrerò non più quello che ero, ma quello che son già e che sono ancora; ma neppur io mi giudico. E così possa essere ascoltato. [5.7] Perché sei tu, Signore, a giudicarmi. Già: è vero che nessun uomo conosce ciò che riguarda un uomo se non lo spirito di quell'uomo, che è in lui; ma c'è qualcosa in un uomo che perfino lo spirito che è in lui non conosce. Ma tu, Signore, sai tutto di lui, perché sei tu che l'hai fatto; io poi per quanto al tuo cospetto mi disprezzi e mi senta terra e cenere, so qualcosa di te che di me ignoro. E certo, ora vediamo attraverso uno specchio e in enigma, non ancora faccia a faccia; ed è per questo che finché vado errando lontano da te ho presente me stesso più che te: eppure so di te che sei assolutamente inviolabile; quanto a me invece ignoro a quali tentazioni io sia in grado di resistere, e a quali non lo sia.
E speranza ce n'è, perché sei di parola tu, e non permetti che siamo tentati oltre le nostre forze, ma con la tentazione crei anche lo scampo, perché possiamo resistere. Confesserò quello che so di me, confesserò anche quello che non so, perché anche ciò che so di me lo so per tua illuminazione, e ciò che ignoro lo ignorerò fino a quando il mio buio sarà come disteso mezzogiorno alla luce del tuo volto. L'itinerario della mente in Dio [6.8] Ciò di cui in coscienza io non dubito, Signore, è che amo te. La tua parola mi ha colpito in cuore, e io ti ho amato. Ma anche il cielo e la terra e tutto quello che contengono mi dicono di amarti, e non cessano di dirlo a ogni uomo, perché non ci sia scusa per nessuno. Anche se più profonda sarà la tua pietà verso chi ne godrà, più sollecito il tuo perdono per chi vorrai perdonare: altrimenti cielo e terra cantano le tue lodi ai sordi. Ma cosa amo, amando te? Non la grazia di un corpo, non il fascino del mondo, non la candida luce amica di questi occhi, non la carezza melodiosa dei canti, non il profumo dei fiori o di balsami e aromi, non la manna e il miele degli abbracci e dei desideri carnali. Non è questo che amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce, una sorta di voce e di profumo e di cibo e una sorta di abbraccio, quando amo il mio Dio: luce, voce, profumo, cibo e abbraccio dell'uomo interiore, dove ogni cosa splende e risuona e profuma per l'anima, e da lei sola si fa assaporare e stringere. Dove c'è luce non diffusa nello spazio e musica non rapita dal tempo e profumo che il vento non disperde e sapore che la nausea non scema - e un abbraccio che la sazietà non scioglie; questo è quello che amo, quando amo il mio Dio. [6.9]. E che significa questo? L'ho chiesto alla terra e mi ha detto: "Non sono io": e tutte le cose che essa contiene hanno fatto la stessa confessione. L'ho chiesto al mare e ai suoi abissi e ai rettili dall'anima viva e mi hanno risposto: "Non siamo noi il tuo Dio - cerca sopra di noi". L'ho chiesto al sussurro dei venti e l'intero mondo dell'aria con i suoi abitanti mi ha risposto: "Sbaglia Anassimene: non sono Dio". L'ho chiesto al cielo, al sole, alla luna e alle stelle: "Neppure noi siamo il Dio che tu cerchi". E ho detto a tutte le cose del mondo circostante le porte della mia carne: "Parlatemi del Dio che voi non siete, parlatemi di lui". E a gran voce hanno gridato: "È lui che ci ha fatte". Le interrogavo con la mia tensione; e la loro risposta era l'idea in cui ciascuna si offriva al mio sguardo.
E poi mi sono rivolto a me stesso e mi sono chiesto: "Tu chi sei?" - "Un uomo". Ecco qui: corpo e anima, l'uno esterno l'altra interiore. Quale fra queste due cose è quella con cui avrei dovuto cercare il mio Dio, che già avevo cercato col corpo dalla terra al cielo, fin dove arrivavano i messaggeri dei miei occhi? L'interiore è migliore. A questo infatti, al suo superiore giudizio, tutti i messaggeri del corpo riferivano le risposte del cielo e della terra e di tutte le cose che vi sono contenute: "Non siamo Dio", "È lui che ci ha fatte." L'uomo interiore viene a conoscenza di questo servendosi dell'uomo esteriore: io, l'io interiore, io la mente lo so mediante il mio corpo sensibile. Ho chiesto del mio Dio alla massa dell'universo, e mi ha risposto: "Non sono io, ma è lui che mi ha fatto". [6.10]. Non appare a chiunque abbia conservato la pienezza delle sue facoltà sensoriali, questa bellezza delle idee? Perché non a tutti parla allo stesso modo? Gli animali, piccoli e grandi, la vedono, ma non la sanno interrogare. Non c'è in loro ragione che presieda nel ruolo di giudice ai messaggi dei sensi. Gli uomini invece hanno facoltà di interrogare, per vedere e capire le invisibili cose divine attraverso quelle create, ma per amore se ne lasciano soggiogare, e dei succubi non possono fare i giudici. E tutte queste cose d'altra parte non rispondono che alle domande di chi sa giudicare: e la loro voce - cioè la loro bellezza - non muta a seconda che uno si limiti a vederla, oppure la interroghi con lo sguardo, in modo da apparire diversa a ciascuno dei due, ma pur avendo per entrambi lo stesso aspetto, per uno è muta dove all'altro parla: anzi per la verità parla a tutti, ma a intenderla sono soltanto quelli che accolgono la voce dall'esterno per confrontarla nell'intimo con la verità. Perché la verità mi dice: "Non è la terra e il cielo il tuo Dio, non è alcuno dei corpi". Lo dice la loro natura. Tutti lo vedono: è massa, dove una parte è minore del tutto. Tu sei già meglio - dico a te, anima - perché sei tu che fai fiorire il corpo, prestandogli la vita che nessun corpo presta a un altro corpo. Ma il tuo Dio è per te la vita della tua stessa vita. [7.11] Che cosa amo dunque amando il mio Dio? Chi è questo che si leva in cima all'anima, al di sopra di lei? Proprio attraverso quest'anima salirò a lui; passerò oltre la potenza che mi tiene avvinto al corpo e fa che io ne riempia di vita la compagine. Non è in questa potenza che trovo il mio Dio: se no ce lo troverebbero anche il cavallo e il mulo, che non hanno ragione, ma hanno questa stessa potenza a far vitali anche i loro corpi. C'è un'altra potenza, la quale mi fa capace di infondere non solo vitalità, ma sensibilità a questa carne che Dio m'ha fabbricato, comandando all'occhio di non udire e all'orecchio di non vedere, ma all'uno di farmi vedere e all'altro di farmi udire, e assegnando a ciascuno dei sensi le sue proprie caratteristiche in base alla sua sede e alla sua funzione.
Diverse azioni che io, l'unica mente, compio per loro mezzo. Oltrepasserò anche questa forza, che pure condivido col cavallo e col mulo: anche a loro il corpo procura sensazioni. Meditazione sulla memoria [8.12]. Dunque oltrepasserò anche questa mia potenza naturale, ascendendo per gradi a quello che mi ha fatto: ed eccomi giunto ai campi e ai vasti palazzi della memoria, dove si accumulano tesori di innumerevoli immagini, per ogni sorta di oggetti della percezione. Lì è custodito tutto ciò che ci avviene di pensare, amplificando o riducendo o comunque variando i dati dei sensi, e quant'altro vi sia stato riposto in consegna, purché l'oblio non l'abbia ancora inghiottito o sepolto. E lì mi basta chiedere, quando mi ci trovo, che mi si presenti qualunque cosa io desideri: alcune arrivano subito, altre si fanno cercare più a lungo, come se occorresse stanarle da più segreti ricettacoli, altre ancora irrompono in massa, e mentre non le si cerca affatto saltano quasi fuori a dire "Siamo noi per caso?" E io con la mano del cuore le caccio via dalla sua vista, dal ricordo, finché lo sguardo non si snebbi e non appaia proprio la cosa nascosta che cercavo. Altre cose si offrono docilmente e di seguito, senza interruzioni, nell'ordine in cui erano state richieste, così che le precedenti fanno posto alle successive per tornare ai loro depositi, pronte a uscirne di nuovo a mio piacere. Tutto questo avviene quando recito a memoria. [8.13] Lì si conservano, distinte per genere, tutte le cose che vi sono entrate - ciascuna dall'ingresso suo proprio: la luce e tutti i colori e le forme dei corpi dagli occhi, dalle orecchie ogni sorta di suoni, tutti gli odori dalle narici e tutti i sapori dalla bocca, e attraverso la sensibilità di tutto il corpo il duro e il molle, il caldo e il freddo, il liscio quanto il ruvido, e peso e leggerezza - insomma tutte le qualità dei corpi, esterne o interne che siano. E il grande antro della memoria tutto questo accoglie in certe sue pieghe segrete e ineffabili, perché si possa all'occorrenza richiamarlo e disporne: e ciascuna cosa che vi si ripone ha il suo ingresso riservato. Certo, non sono le cose stesse a entrarvi: sono le immagini delle cose percepite che stanno lì, pronte a offrirsi al pensiero che le richiama alla mente. E chi può dire quale sia il loro segreto di fabbricazione? Palese è solo quali sono i sensi che le hanno catturate e consegnate in custodia. Io posso anche starmene in silenzio, al buio: ma se voglio rimetto a fuoco i colori nella memoria e distinguo il bianco dal nero e da qualunque altro colore: e non accade che i suoni si intromettano disturbandomi nella considerazione di ciò che ho appreso dalla vista. Eppure anch'essi si trovano lì: ma sono come latenti, in disparte. Tanto che se mi aggrada di richiamare anche loro, subito si presentano: e io senza muover la lingua, a gola muta, canto finché ne ho voglia: e a loro volta le immagini di colore, pur essendo ancora lì, non vengono a interferire e a disturbarmi nella mia rassegna di quest'altro tesoro confluito dalle orecchie.
E così via, per tutte le altre cose immesse dagli altri sensi e lì ammassate: le richiamo alla memoria a mio piacimento, e senza annusarlo distinguo il profumo dei gigli da quello delle viole, e mi basta il ricordo per continuare a preferire il miele al decotto di mosto e il liscio al ruvido, senza nulla gustare né palpare al momento [8.14]. E tutte queste operazioni io le eseguo al mio interno, nella corte grandiosa della mia memoria. Lì cielo e terra e mare restano a mia disposizione, con tutto ciò di cui sono riuscito ad avvertire l'esistenza - tranne quello che ho dimenticato. Là incontro anche me stesso e mi vedo rivivere nelle mie azioni, nel tempo e nel luogo e nello stato d'animo in cui le ho compiute. Là c'è tutto quello che ricordo d'aver vissuto o creduto. Da questa ricca provvista, cioè, mi vengono le immagini non solo di cose incontrate nell'esperienza, ma anche di cose semplicemente credute sulla base di queste: immagini via via sempre nuove che io vado tessendo a quelle passate, così che ne emerga anche la trama del futuro: azioni eventi e speranze. E tutto questo è come se mi fosse presente, durante la mia meditazione. "Farò questo e quello" dico fra me nel vastissimo grembo della mia mente, folto di immagini di tante e così grandi cose, e questo e quello si compie. "Oh se accadesse questo o quello!" "Dio ci scampi da questo o da quello!": così dico fra me e nel dirlo trovo già pronte a uscire dal tesoro della memoria le immagini di tutte le cose che dico: e se queste venissero a mancare, non potrei dire cosa alcuna. [8.15] Grande è questa potenza della memoria, troppo, Dio mio: una cripta profonda e sconfinata. Chi può toccarne il fondo! Ed è una potenza della mia mente, fa parte della mia natura: eppure io stesso non comprendo tutto quello che sono. La mente è dunque troppo angusta per contenere se stessa! E dov'è allora ciò che non comprende di sé? Dev'essere in lei stessa, non fuori di lei; e allora in che senso non lo comprende? Una gran meraviglia mi nasce da questo pensiero, e resto stupefatto. E vanno ad ammirare le montagne altissime e le onde paurose del mare e il bacino dei grandi fiumi e l'orizzonte dell'oceano sconfinato e il girotondo delle stelle: e trascurano se stessi, gli uomini, e non si meravigliano che io parli di tutte queste cose senza vederle con gli occhi. Eppure non potrei parlarne affatto se non avessi entro di me spazi così grandiosi da spalancarmi davanti, nella memoria, le montagne e i fiumi e le onde e le stelle che vidi, e l'oceano di cui sentii parlare: come li avessi fuori di me, nel giro dello sguardo. Pure, il mio sguardo non le ha inghiottite quando con i miei occhi le ho vedute, e non sono le cose stesse che ritrovo in me, bensì le loro immagini, e di ciascuna io conosco l'origine e il senso che ne ha prodotto l'impressione.
Memoria intellettuale [9.16] Ma non è solo questo che si porta in grembo, questa capacità smisurata della mia memoria; qui c'è anche tutto ciò che ho appreso delle discipline liberali e che ancora non s'è perduto: è come relegato in un più interno luogo che non ha luogo: e in questo caso ne porto non le immagini, ma le cose stesse; cos'è la letteratura? E la dialettica? Quanti tipi di questioni ci sono? Son tutte cose che ho nella memoria, per quel tanto che ne so; non mi sono limitato a trattenerne le immagini lasciando fuori le cose stesse: ad esempio una voce, che risuona all'orecchio e poi passa, ma imprime una traccia buona a richiamarla e quasi a farla ancora risuonare quando ormai tace; o un odore, che svanisce nel vento e mentre passa colpisce l'olfatto, e così trasmette alla memoria un'immagine di sé, revocabile a proprio piacimento; oppure un cibo, che ormai nel ventre non ha più sapore, eppure quasi lo si riassapora nella memoria, o una cosa sensibile al tatto, che anche una volta separata dal nostro corpo tocchiamo nell'immaginazione, ricordandola. Non sono le cose stesse allora a introdursi nella memoria, ma solo le loro immagini: ed è una meraviglia la rapidità con cui queste vengono afferrate, e la sorta di cellette in cui vengono riposte, e come nel ricordo si fanno presenti. [10.17] Invece, quando sento dire che tre sono i generi di questioni, e riguardano l'esistenza, l'essenza e il valore di una cosa, è certamente vero che io ritengo le immagini dei suoni di cui queste parole sono composte, e so che questi sono passati diffondendosi per l'aria e che non ci sono più. Ma le cose stesse che da quei suoni sono significate mai le ho sfiorate con un senso del corpo, né mai le ho viste fuori dalla mente, e nella memoria ho custodito non le loro immagini, ma loro stesse: ora dicano da dove sono entrate in me, se possono. E io passo in rassegna tutte le porte della mia carne e non ne trovo una per cui siano passate. Dicono gli occhi: "Se hanno colore, siamo stati noi ad annunciarle"; e le orecchie: "Se emettevano suoni, le abbiamo segnalate noi"; e le narici: "Se avevano odore, è attraverso di noi che sono passate"; e anche il gusto dice: "Se non hanno sapore, non chiedere a me". E il tatto: "Se non c'era del grosso da toccare io che ne so, se non tocco non sento". E allora da dove mi sono venute alla memoria quelle nozioni, e per dove son passate? Non lo so. So che io non le ho apprese affidandomi al cuore di un altro, ma nel mio le ho riconosciute e ho assentito alla loro verità per poi affidarle a lui come a un deposito, da cui potessi a mio piacere riportarle alla luce. Dunque erano lì anche prima che io le apprendessi, lì e non nella memoria.
Ma allora dove e come le riconobbi appena udite, dicendo "Sì, è vero", se non erano già nella memoria - benché così remote e relegate in cavità tanto più inaccessibili, che forse se nessuno mi avesse insegnato a scavare per estrarle, io non avrei saputo pensarci da solo [11.18] Abbiamo dunque fatto una scoperta, che riguarda le cose di cui non otteniamo immagini attraverso i sensi, ma che vediamo distintamente e direttamente in noi stessi, esattamente come sono. Apprendere queste cose altro non è che raccoglierne col pensiero i frammenti sparsi disordinatamente nella memoria, e in certo modo prendersene cura, prestando loro attenzione: in modo da poterle poi avere come a portata di mano nella memoria stessa, docili all'intenzione consueta, invece di lasciarle soltanto latenti, disperse e trascurate; e quante cose di questo genere porta in sé la mia memoria, già ritrovate e come ho detto quasi messe a portata di mano, cose che abbiamo appreso e conosciamo, come si usa dire; eppure se smetto di richiamarle alla mente anche per brevi periodi, affondano di nuovo e paiono svanire in recessi remotissimi, tanto che occorre di nuovo es-cogitarle, cioè cavarle fuori col pensiero - da lì, dalla loro regione d'origine, ché altra non ne hanno - come se fosse la prima volta: e di nuovo raccoglierle, per poterle conoscere. Raccoglierle cioè come se fossero disperse - da cui l'origine del verbo cogitare. Cogito infatti sta a cogo (raccolgo) come agito ad ago, factito (pratico, faccio abitualmente) a facio. Ma di questo verbo la mente si è riservata la proprietà esclusiva, così che nel significato proprio cogitare vuol dire raccogliere, cioè cogere, nella mente soltanto, e non altrove. [12.19] In questo stesso senso la memoria contiene le relazioni e le leggi innumerevoli dei numeri e delle misure, che non sono in alcun modo derivate da impressioni sensoriali, visto che non hanno colore suono odore, non si gustano e non si palpano; ho udito il suono delle parole con cui si designano queste relazioni e leggi, quando se ne disserta, ma altro sono le parole, altro le cose. Quelle suonano in greco e in latino diverse, queste non sono né greche né latine né di qualunque altra razza di idiomi. Ho visto artefici operare con strutture di fili sottilissime, simili a tele di ragno: ma le dimensioni di cui parlo sono altra cosa, non sono immagini di quelle di cui mi informa l'occhio della carne. Le conosce chiunque in se stesso le ha riconosciute senza affatto pensare a qualche corpo. Ho anche percepito, e con tutti i sensi del corpo, gli insiemi che contiamo: ma altra cosa sono quelli con cui contiamo, i numeri stessi, e non sono immagini dei primi e proprio per questo hanno vera consistenza. Rida pure delle mie parole chi non li vede: a me farà pena il suo riso. [13.20] Di tutto questo ho memoria, e ho memoria anche di come l'ho appreso.
E così pure di molte falsissime obiezioni che ho udito avanzare in proposito, ho memoria: son false, certo, ma non è falso che me ne ricordi. E ricordo anche di aver distinto la verità di quelle asserzioni dalla falsità di queste che le contraddicevano; e vedo che una cosa è il discernimento attuale di queste questioni, altra cosa è il ricordo del discernimento che ne avevo ogni volta che ci pensavo. Dunque ricordo anche di averle capite parecchie volte: non solo, ma affido ancora in custodia alla memoria ciò che distinguo e capisco ora, per poi ricordarmi di averlo ora capito. Dunque ricordo anche di essermi ricordato; e parimenti in seguito, se riuscirò a richiamare alla mente di aver potuto ora ricordare questo, è in virtù della memoria che ci riuscirò. Memoria affettiva [14.21] Anche le mie emozioni contiene, questa stessa memoria: non come son vissute dalla mente quando ne è presa, ma in un modo assai diverso, caratteristico della memoria. Così io senza gioia mi ricordo di aver gioito e senza tristezza rievoco la mia passata tristezza e senza paura richiamo alla mente le paure che talvolta ho avuto e serbo ancora memoria dei desideri antichi, senza più averne. Anzi al contrario, talvolta mi rallegra il ricordo della mia tristezza, e quello della gioia passata mi rattrista; questo non deve sorprendere se si tratta del corpo, perché il corpo è una cosa e un'altra la mente. Ma che dire nel caso di cui parliamo ora, se la mente altro non è che la memoria stessa? E infatti assegnando il compito di mandare a memoria qualcosa noi diciamo: "Cerca di tenerlo a mente", e quando dimentichiamo: "Non l'ho tenuto a mente" o "M'è uscito di mente", chiamando mente la memoria stessa: se così è, che significa questo? Perché nel lieto ricordo della mia passata tristezza la mente ha piacere e la memoria contiene tristezza, eppure la mente è lieta di questo piacere che ha, mentre la memoria non si lascia rattristare dalla tristezza che contiene? Che la memoria non appartenga alla mente? È una tesi insostenibile. No, la memoria è in un certo senso il ventre della mente, e cibo dolce o amaro la gioia e la tristezza: una volta affidate alla memoria possono esservi custodite, ma come cose passate nel ventre non possono più aver sapore. Credere che i due processi siano proprio simili sarebbe ridicolo: ma non sono neppure completamente diversi. [14.22] Ma ecco, ricorro alla memoria anche quando dico che quattro sono le turbe della mente: desiderio, gioia, paura, tristezza; e per quanto io possa discuterne, analizzando ciascuna secondo le specie del suo genere d'appartenenza e dandone le definizioni, è lì che trovo le cose da dire e di lì le traggo; e tuttavia non mi sento affatto sconvolto o turbato, quando le richiamo alla mente per passarle in rassegna: È pur lì che si trovavano prima d'esser rievocate e riprese in considerazione da parte mia: di lì appunto per questo il ricordo ha potuto cavarle.
E forse allora ricordare è come ruminare, far tornare su dalla memoria cose del genere come cibo dal ventre. Ma allora perché il dolce sapore della gioia o quello amaro della tristezza non lo si sente in bocca al pensiero quando le si rievoca per discuterne? È per questo che l'analogia è solo parziale, è qui la differenza? Già, chi ne parlerebbe volentieri, se ogni volta che uno nomina la tristezza o la paura dovesse per forza rattristarsi o rabbrividire? E tuttavia non ne parleremmo, se non trovassimo registrati nella nostra memoria non solo i suoni dei loro nomi, cioè le immagini che ne sono state impresse dai sensi, ma anche le nozioni delle cose stesse. E queste non vi sono certamente entrate per le porte della carne, ma le sono state affidate dalla mente stessa che le ha apprese attraverso le passioni vissute, o vi si sono conservate anche involontariamente. [15.23]. Ma se è mediante immagini o no che si conservano, non è facile dirlo. Certo, di una pietra o del sole mi basta dire il nome per suscitarne le immagini nella memoria, anche quando le cose stesse non mi sono sensibilmente presenti. Nomino il dolore fisico in sua assenza, mentre non lo provo: ma se non avessi presente alla memoria una sua immagine non saprei di che cosa parlo, e nel disquisirne non sarei neppure in grado di distinguerlo dal piacere. Nomino la salute fisica, mentre sono fisicamente sano; la cosa stessa mi è presente: ma se non ne avessi anche un'immagine nella memoria non ricorderei affatto il significato di quel nome, di quella sequenza di suoni, e così i malati sentendo nominare la salute non capirebbero di che cosa si parla, se pur nella mancanza fisica della cosa stessa non avessero il potere di conservarne viva e inalterata l'immagine nella memoria. Pronuncio i nomi dei numeri che usiamo per contare: ed essi stessi, non le loro immagini, mi si presentano alla memoria. Nomino l'immagine del sole, ed eccola presente: non l'immagine di questa immagine, ma essa stessa ho evocato, è proprio questa che si offre prontamente al mio richiamo. Nomino la memoria e riconosco ciò che nomino, e dove lo riconosco, se non nella memoria stessa? E anche lei sarebbe presente a sé solo in immagine? O non piuttosto in se stessa? Memoria e oblio [16.24] Sì, ma anche quando nomino l'oblio riconosco la cosa di cui parlo: e come farei se non me ne ricordassi? Non semplicemente della parola, voglio dire, del suo suono: ma della cosa che essa significa. Dimenticata questa, anche il valore del suono io non varrei a riconoscerlo. Dunque quando ho memoria della memoria, questa è presente a sé in se stessa; ma quando ho memoria del'oblio entrambi sono presenti, memoria e oblio: la memoria, con cui ricordo, e l'oblio, che ricordo. Ma che cos'è l'oblio se non assenza di memoria? In che senso dunque è presente - tanto da poterlo ricordare - se lui presente è assente la memoria? Eppure se serbiamo memoria di ciò che ricordiamo, e se d'altra parte senza il ricordo dell'oblio non potremmo neppure, quando ne sentiamo il nome, riconoscerne il significato, allora anche dell'oblio si serba memoria.
E così ci è presente e non la dimentichiamo, questa assenza per cui dimentichiamo. Ma questo cosa vuol dire? A quanto sembra, che quando ricordiamo l'oblio, non è la cosa stessa che si trova nella memoria, ma una sua immagine: perché la presenza essenziale dell'oblio ce lo farebbe dimenticare, e non già ricordare. Ma infine, chi saprà affrontare questa indagine? E capire come stanno le cose veramente? [16.25] Che fatica mio Signore è questa di scavare in me stesso: mi son fatto a me stesso terra di pena e di sudore. E non sono le plaghe del cielo, gli spazi interstellari o le bilance su cui si libra la terra che stiamo studiando o calcolando: sono io che ricordo, io la mente. Non fa meraviglia che sia lontano da me tutto ciò che io non sono: ma che cosa mi è più vicino di me stesso? E tuttavia la potenza della mia memoria non si lascia comprendere da me, che pure senza di lei non potrei nemmeno chiamarmi "me stesso". Perché che cosa dovrei dire, quando sono certo di avere memoria dell'oblio? Che ciò che ricordo non l'ho nella memoria? O che l'oblio inerisce alla memoria proprio perché io non dimentichi? Entrambe le proposizioni sono perfettamente assurde. Ma ce n'è una terza, vediamola. La mia memoria potrebbe conservare l'immagine dell'oblio, non l'oblio stesso, quando lo ricordo. Ma come posso sostenerlo, anche questo? Quando si imprime nella memoria l'immagine di una cosa, quale che sia, è sempre necessaria la presenza della cosa stessa, perché se ne imprima l'immagine. Così ad esempio mi ricordo di Cartagine, di tutti i luoghi in cui sono stato, dei volti che ho veduto, e dei dati di tutti gli altri sensi e anche della salute e del dolore: mi si offrirono in carne ed ossa queste cose, e la memoria ne catturò le immagini, per consentirmi di averle presenti e di penetrarle e riesaminarle con lo sguardo interiore quando le avessi rievocate, ormai assenti. Se dunque l'oblio si conserva nella memoria attraverso una sua immagine e non in se stesso, bisogna che sia stato realmente presente per lasciare questa immagine. Ma se fosse stato presente come avrebbe potuto iscrivere nella memoria la sua immagine, lui che con la sua sola presenza cancella tutto ciò che vi trova già segnato? Eppure ne sono certo: in un modo o nell'altro, per incomprensibile e inesplicabile che sia, io perfino dell'oblio serbo memoria, di questa rovina dei ricordi. [17.26] Grande è questa potenza della memoria: c'è qualcosa che fa paura, mio Dio, in questa sua profonda, infinita complessità. E tutto questo è la mente, sono io stesso. Dio mio, che cosa sono io, dimmi qual è la mia natura. Un'esistenza varia e polimorfa, smisurata e veemente. Eccoli, i campi e gli antri e le caverne innumerevoli della mia memoria, stipati di ogni sorta di cose, innumerevoli: e queste son lì, presenti solo in immagine - tutti i corpi, ad esempio - o in se stesse, come le capacità professionali, o sotto qualche specie di nozione o notazione, come gli stati d'animo - perché anche quando non sono vissuti, son pure tenuti a mente, se è nella mente tutto ciò che è nella memoria.
E io passo in rassegna tutte queste cose, a volo, penetrando qua e là per quanto posso, ma non finiscono mai di scorrere: tanta è la potenza della memoria, tanta la vita implicita nell'uomo, per cui vivere è morire. Che cosa devo fare allora - mia vita vera, tu dimmi, mio Dio. Passerò oltre: anche oltre questa mia potenza che si chiama memoria, io la trascenderò per protendermi verso di te, dolce lume. Che cosa dici, ora? Sì, in questa ascesa verso di te che dimori più in alto io salirò per la mia stessa mente, trascenderò anche questa mia potenza che si chiama memoria, nel desiderio di incontrarti, qualunque sia la via di questo incontro, e di aderire a te, quale che sia questa adesione. In fondo anche le bestie e gli uccelli hanno memoria, altrimenti non ritroverebbero i loro nidi e le molte altre cose consuete: e non vi sono consuetudini che si possano acquistare senza memoria. Trascenderò dunque anche la memoria, per incontrare lui che mi ha distinto dai quadrupedi e mi ha fatto più sapiente degli alati. Trascenderò anche la memoria per trovarti - ma dove, vero bene, dolcissimo riposo, dove? Se non è nel raggio della memoria che ti trovo, vuol dire che ero immemore di te. E come posso trovarti, se di te non ho memoria? [18.27] Una donna aveva perduto una dracma e la cercò con la lucerna: ma non l'avrebbe trovata se non ne avesse serbato memoria. Perché come avrebbe fatto a sapere che era quella, trovandola, se non l'aveva già in mente? Molte cose perdute mi ricordo di aver cercato e trovato. Così so anche che se durante la ricerca mi si chiedeva: "È questo per caso? È quello?", io rispondevo di no finché non mi veniva presentata proprio la cosa che stavo cercando. E se non l'avessi tenuta a mente io non l'avrei trovata neppure se me l'avessero messa sotto gli occhi, perché non l'avrei comunque riconosciuta. E accade sempre così, quando cerchiamo e ritroviamo una cosa perduta. Se ad esempio perdiamo di vista una cosa qualunque, un oggetto visibile, ma senza che ci esca di mente, la sua immagine ci si conserva dentro, e noi cerchiamo finché non ci sia restituita alla vista. Appena la si trova la si riconosce dall'immagine che se ne aveva dentro. E non si ha l'uso di chiamare "ritrovata" una cosa che pareva perduta se non la si riconosce, né si può riconoscere una cosa se non se ne ha memoria: la cosa che per gli occhi non esisteva più, era in salvo nella memoria. [19.28] E quando è la memoria stessa a smarrire qualcosa, come accade quando cerchiamo di ricordare qualcosa che avevamo dimenticato, dove cerchiamo in effetti se non nella memoria stessa? E se questa ci presenta una cosa per un'altra la respingiamo, finché non appaia quella che cercavamo. E quando appare diciamo "Eccola, è questa": cosa che non diremmo se non la riconoscessimo, e non la riconosceremmo se non ne avessimo serbato memoria.
Dunque è vero, ce ne eravamo dimenticati. Ma non del tutto: come se la parte che non ci era uscita di mente cercasse l'altra, e la memoria, sapendo che un tempo l'una si tirava dietro l'altra, e quasi sentendosi azzoppata nel moncone di questa abitudine, sollecitasse la restituzione della parte mancante. Così se abbiamo sotto gli occhi o in mente una persona che ci è nota e cerchiamo di ricordarci il suo nome, non riusciremo ad associarvene un altro, per quanti ce ne possano venire in mente: e li respingiamo uno per uno, finché non si presenta quello con cui eravamo abituati a pensare a quella persona, e in quel nome la sua consueta immagine si acquieta, quasi finalmente combaciandovi. E da dove torna a presentarsi quel nome se non dalla memoria stessa? È perché viene da lì che lo riconosciamo, anche quando sono altri a suggerircelo. Non ci crediamo infatti come a cosa nuova, ma ammettiamo che è proprio quello che ci vien detto, ora che ce ne ricordiamo. Se ci fosse stato completamente cancellato dalla mente, non lo riconosceremmo neppure dietro suggerimento. E in realtà non è ancora del tutto dimenticata, una cosa che ricordiamo di aver dimenticato. Una cosa che ci manca non si può neppure cercarla, se l'abbiamo dimenticata del tutto.