Traduzione De oratore, Cicerone, Versione di Latino, Libro 03; 31-40
Traduzione in italiano del testo originale in Latino del Libro 03; paragrafi 31-40 dell'opera De oratore di Marco Tullio Cicerone
DE ORATORE: TRADUZIONE DEL LIBRO 03; PARAGRAFI 31-40
[XXXI] [122] nostro, se è vero che noi siamo oratori, e svolgiamo il ruolo di consiglieri e capi nelle controversie dei cittadini, nei processi criminali e nelle assemblee deliberative è nostro, dico, tutto questo patrimonio di saggezza e di dottrina, su cui, mentre noi eravamo impegnati, si sono gettati codesti uomini immersi nell’ozio, come se si fosse trattato di un oggetto abbandonato e senza padrone e anche deridendo l’oratore, come fa quel famoso Socrate nel Gorgia, e a dettare insegnamenti sull’arte del dire per mezzo di alcuni libretti, ai quali danno il titolo di Retorici se quei concetti sulla giustizia, sul dovere, sul modo di fondare e governare gli Stati, su ogni scienza che abbia per oggetto la vita morale e la natura, da essi esposti, non siano cli pertinenza deploratore. [123] Poiché questi concetti possiamo derivarli da altre fonti, riprendiamoli pure da coloro che ce li hanno tolti; mettiamoli però ai servizio di quella scienza politica con cui sono connessi e a cui si riferiscono e, come dianzi ho detto , non consumiamo l’intera esistenza nello studio di questi problemi; ma, dopo che avremo studiate le fonti (e queste potrà comprenderle pienamente solo chi le avrà capite a prima vista), noi potremo prendere da esse, tutte le volte che sarà necessario, solo ciò che l’occasione richiederà; [124] nessuno infatti ha un’intelligenza così acuta e un ingegno tanto vivace, da penetrare entro problemi così ardui, se prima non gli sono stati spiegati; né le cose avvolte da tale oscurità che un uomo di acuto ingegno non possa penetrarle a fondo, una volta che le abbia osservate. In un campo così importante e così vasto l’oratore può muoversi liberamente, pur rimanendo nel suo, dovunque egli vada: avrà a sua disposizione tutti i mezzi e gli ornamenti dell’arte del dire; [125] infatti l’abbondanza della materia produrrà l’abbondanza delle parole, e se gli argomenti dei quali si parla hanno una loro bellezza esteriore, le parole acquisteranno da essi un certo naturale splendore. Purché colui che parla o scrive abbia ricevuto fin da ragazzo quella educazione ed istruzione che si addicono ad un uomo libero, abbia un’ardente passione per gli studi, sia ben dotato da natura, si sia ben esercitato in discussioni astratte di carattere generale, abbia scelto come oggetto di studio e di imitazione scrittori ed oratori dallo stile forbito, non avrà certo bisogno di imparare da codesti maestri di retorica la maniera di costruire ed abbellire il periodo; così quando c’è dovizia di argomenti, la natura stessa, purché sia addestrata, trova facilmente alcun maestro, giungere discorso elaborato ed elegante . [XXXII] [126] A questo punto Catulo esclamò dèi immortali, quanta varietà, quanta forza, quanta ricchezza ai concetti ci hai presentato, o Crasso, nel tuo discorso, hai osato sollevare l’oratore da un campo ristrettissimo collocarlo nel regno dei suoi antenati.
Sappiamo infatti che quei famosi antichi maestri e inventori dell’arte del dire non ritenevano ad essi estraneo alcun genere di discussioni e trattavano volentieri qualunque genere di discorsi; [127] uno di questi, Ippia di Elide, essendo venuto ad Olimpia, in occasione di quella grande e famosa solennità dei giuochi quinquennali, si vantò alla presenza di quasi tutta la Grecia, che non cera nulla in nessun genere di conoscenze che egli non conoscesse: non solo conosceva quelle arti che costituiscono la cultura propria di un uomo libero e ben nato, come la geometria, la musica, la letteratura, la poesia, la scienza della natura, la filosofia morale e la scienza politica, ma aveva anche fatto con le sue mani l’anello che aveva al dito, il mantello che indossava e i calzari che portava. [128] Costui certo esagerava; ma anche da ciò è facile congetturare quanto pretendessero quei famosi oratori dalle arti più illustri, loro che non respingevano neppure le arti più umili. E che dire di Prodico di Ceo, di Trasimaco di Calcedonia, di Protagora di Abdera? Ciascuno di essi s’interessò moltissimo e con la parola e con gli scritti, per quanto fosse possibile a quei tempi, anche della scienza della natura. [129] Il famoso Gorgia di Leontini, come Platone ha voluto, fu soccombente dinanzi a un filosofo come oratore, il quale non fu mai vinto da Socrate (e quindi quel discorso che leggiamo in Platone è puramente immaginario), o se fu vinto, evidente che Socrate fu più facondo ed eloquente, cioè, per usare i tuoi stessi termini, un oratore più ricco e più abile- costui dunque, proprio in quel dialogo di Platone, si dichiara pronto a parlare nel modo più ampio su ogni argomento, qualunque possa essere il tema della discussione e dell’indagine; primo tra tutti osò chiedere in una pubblica assemblea, su quale argomento ciascuno volesse che egli parlasse; e i Greci gli tributarono tanto , che fu l’unico ad avere a Delfi una statua non dorata, ma addirittura doro. [130] Questi sommi maestri dell’arte del dire, che ho nominato, molti altri nella medesima epoca: da essi si può capire che le cose stanno, o Crasso, come tu dici, che il nome di oratore presso gli antichi Greci risplendeva per una maggiore dottrina e rinomanza. [131] Per questo io sono veramente incerto se debba essere attribuita maggior lode a te o maggiore biasimo ai Greci, dal momento che tu, nato in un paese di lingua e costumi diversi da quelli della Grecia, in una città tanto indaffarata occupato da impegni privati direi quasi di ogni genere, impegnato nel governo del mondo e nell’esercizio di un’altissima sei riuscito a formarti una cultura così vasta e profonda, associandola alla dottrina e all’attività pratica di colui che si distingue nello Stato per saggezza e abilità oratoria; mentre quelli, nati in un paese ricco di cultura, pieni di passione per questi studi, e per di più liberissimi da pegni, non solo non hanno accresciuto il patrimonio culturale della loro nazione, ma non sono stati neanche paci di conservare quello esistente, ereditato dai padri e a loro appartenente .
[XXXIII][132] E Crasso di rimando: Non solo in questa disciplina, o Catulo, ma in molte altre, grandezza della scienza ha sofferto per leccessiva specializzazione. Credi forse che al tempo di quel famoso Ipppcrate di Cos, alcuni medici curassero le malattie, altri le ferite, altri gli occhi? E che al tempo in cui Euclide Archimede s’interessavano geometria, Damone o Aristosseno di musica, Aristofane e Callimaco di letteratura proprio come facciamo queste discipline fossero mente spezzettate, che nessuno potesse abbracciarle nella loro interezza, e che tutti si prendessero un settore particolare cui attendere, chi uno chi un altro? [133] In verità ho sentito spesso dire da mio padre e da mio suocero, che anche tra noi coloro che aspiravano a primeggiare per gloria di dottrina, solevano abbracciare tutto il sapere, quello almeno che a quel tempo costituiva il patrimonio culturale di questa città. Essi si ricordavano di Sesto Elio; ma anche abbiamo visto Manio Manilio passeggiare qua e là per il foro: segno questo eloquentissimo che egli metteva la sua esperienza a disposizione di tutti i suoi concittadini; da costoro, sia che passeggiassero per il foro, sia che tenessero udienza in casa, una volta si andava per chiedere consiglio non solo su una questione di diritto, ma anche sul matrimonio di una figlia, sull’acquisto di un fondo, sulla coltivazione di un campo, insomma su ogni affare di carattere pubblico o privato. [134] Questa era la saggezza di quel vecchio e famoso P Crasso, di Tiberio Coruncanio, di Scipione l uomo sapientissimo, bisavolo di mio genero, che furono tutti pontefici massimi, così che si andava da costoro per consigliarsi su ogni affare sia sacro che profano; ed essi fornivano l’aiuto del loro consiglio in Senato, nelle assemblee popolari, nelle cause degli amici, in pace e in guerra. [135] Che cosa mancò a Marco Catone al di fuori di codesta raffinatissima erudizione forestiera, proveniente da oltremare? Forse perché aveva appreso il diritto civile, non perorava cause? O perché aveva la possibilità di parlare in pubblico, trascurava lo studio teorico del diritto? Egli svolse con grande impegno ambedue le attività e in ambedue si distinse. Forse che il prestigio acquistato con la difesa degli affari privati diminuì il suo interesse per la vita politica? Nessuno fu più energico di lui davanti al popolo, nessuno migliore di lui in Senato; fu anche senza alcun dubbio un ottimo generale; per concludere, non ci fu nulla che si potesse sapere e apprendere in questa città a quei tempi, che egli non abbia studiato e conosciuto e anche trattato nei suoi scritti. [136] Ora invece molti si presentano alle cariche pubbliche e all’attività politica del tutto impreparati, privi di esperienza e di cultura. Se poi qualcuno, uno tra i tanti, si distingue, ecco che si inorgoglisce, se possiede una sola dote: o il coraggio del soldato o qualche esperienza di vita militare (doti che oggi sono diventate una vera rarità) o la conoscenza del diritto (e neppure completa: infatti nessuno studia il diritto pontificio, che con quello è strettamente legato) o l’eloquenza, che fanno consistere negli urli e in un fiume di parole; essi ignorano il vincolo che stringe ed unisce le varie discipline che costituiscono la scienza e le virtù stesse.
[XXXIV] [137] Per tornare ai Greci, dei quali non possiamo fare a meno in un discorso del genere- infatti se gli esempi di virtù possiamo attingerli dalla nostra storia, gli esempi di dottrina dobbiamo attingerli dalla Grecia-si racconta che nella medesima età vissero sette che furono ritenuti e chiamati sapienti: tutti costoro, al di fuori di Talete di Mileto, ebbero la direzione degli affari politici della loro città. Chi fu più dotto, in quella stessa epoca, o chi ebbe un’eloquenza più nutrita di cultura, stando a quanto ci è stato tramandato, di Pisistrato? Si dice che egli per primo abbia disposto, così come ora li abbiamo, i libri di Omero, fin allora confusi e disordinati. Veramente egli non fu utile ai suoi concittadini, ma rifulse talmente nell’eloquenza da distinguersi per la sua profonda cultura letteraria. [138] E che dire di Pericle? Della sua forza oratoria sappiamo che, quando parlava per la salvezza della patria contro la volontà degli Ateniesi, in tono piuttosto aspro, perfino gli attacchi che diceva a uomini cari al popolo riuscivano graditi e piacevoli a tutti; gli antichi poeti comici che pure sparlarono di lui (il che allora era permesso in Atene), ci hanno tramandato che sulle sue labbra risiedeva la grazia, e che la sua eloquenza era tanto efficace che lasciava negli animi degli uditori come degli aculei. Costui non era stato alunno di un qualsiasi declamatore, che gli avesse insegnato a urlare a ritmo di clessidra, ma, come ci è stato tramandato, di quel famoso Anassagora di Clazomene, uomo eminente per la profonda dottrina: così, distinguendosi per la cultura, per la saggezza e l’eloquenza governò Atene per 40 anni, tanto negli affari politici quanto in guerra. [139] E che dire di Crizia? E di Alcibiade? Certo, non furono utili alla loro città, ma forse che non siano stati colti ed eloquenti, forse non si erano formati alla scuola di Socrate? Chi adornò il siracusano Dione di ogni dottrina? Non Platone? E fu proprio Platone, maestro non solo di eloquenza ma anche di coraggio e di virtù, a esortarlo, prepararlo e armarlo per la liberazione della patria. Platone dunque educò questo Dione con arti diverse da quelle che usò Isocrate per educare il famosissimo Timoteo, figlio del sommo generale Conone, anche lui valentissimo generale e uomo dottissimo? E il tebano Epaminonda, forse il più grande figlio di tutta la Grecia, fu educato con arti diverse da Liside, seguace di Pitagora? E Agesilao da Senofonte? E il tarentino Archita da Filolao? E lo stesso Pitagora educò con arti diverse tutta quella regione italica, che accolse l’antica civiltà ellenica fu chiamata Magna Grecia? [XXXV][140] Non credo; penso infatti che unico fosse l’insegnamento e che esso comprendesse tutte quelle nozioni che si ritenevano degne tanto dell’uomo che aspirasse a formarsi una vasta cultura, quanto di colui che volesse emergere nella vita politica: coloro che l’avessero ricevuto, diventavano valenti oratori, qualora, beninteso, avessero avuto buona disposizione a sapere esprimere con la parola il proprio pensiero e avessero coltivato, così favoriti dalla natura, l’arte del dire.
[141] Lo stesso Aristotele, vedendo la scuola di Isocrate illustrata da nobili ingegni (poiché Isocrate aveva abbandonato l’eloquenza giudiziaria e politica, per dedicarsi a un’eloquenza raffinata ma sterile), mutò improvvisamente pressoché tutto il metodo d insegnamento, modificando leggermente un verso del Filottete: mentre il poeta aveva detto: è turpe tacere e lasciar parlare i barbari, Aristotele disse: è turpe tacere e lasciar parlare Isocrate ; questo diede una forma elegante a tutto quel suo importante sistema filosofico e unì strettamente lo studio teorico dei fatti con l’esercizio dello stile. E ciò in verità non sfuggì a quel saggissimo re che fu Filippo, tanto che chiamò questo maestro per suo figlio Alessandro, affinché dalla stessa persona il giovane fosse ammaestrato ad agire e a parlare. [142] Ora, per mio conto, chiami pure, chi vuole, oratore quel filosofo che ci trasmette un largo sapere unito a forma elegante; opporrò che sia chiamato filosofo quell’oratore che, come ho detto, congiunga la dottrina l’eloquenza; ma sia però chiaro questo: che non sono da lodarsi né il balbettio di colui che conosce l’argomento, esporlo con la parola, né l’ignoranza di colui che di parole, ma non conosce l’argomento; certo, se dovessi scegliere tra i due, preferirei un uomo colto e cattivo parlatore a un chiacchierone privo di cultura;[143] se poi volessimo ricercare che cosa veramente eccelle tra tutti, dovremmo dare la palma all’oratore; se ammettiamo che l’oratore è a un tempo anche filosofo, è tolto ogni motivo di discordia; se poi si vorranno separare le due figure, in tanto il filosofo sarà inferiore, in quanto nel perfetto oratore troviamo tutta la cultura filosofica, mentre nella scienza del filosofo troviamo necessariamente l’eloquenza: questa poi, benché sia disprezzata dai filosofi, tuttavia appare il coronamento della loro scienza . Avendo così parlato, Crasso tacque per un poco, e così fecero gli altri [XXXVI][144] Allora Cotta disse: posso rimproverarti, o Crasso, per avere, a quanto sembra, trattato un argomento diverso da quello che ti eri assunto: infatti tu ci hai dato più di quanto ti avevamo assegnato e imposto; tu avevi un compito ben definito: parlare del modo di abbellire il discorso e avevi già iniziato la trattazione di questo argomento e avevi affermato che sono quattro gli elementi che costituiscono il discorso elegante, poi avendo svolto, nostro avviso in maniera completa, secondo te alla svelta e in forma succinta, i primi due punti, te altri due, e cioè l’eleganza e la convenienza del linguaggio: [145] avevi appena iniziato lo svolgimento di questi argomenti, che improvvisamente la corrente impetuosa, per dir così, del tuo ingegno ti ha spinto lontano da terra e ti ha portato in alto mare, quasi fuori dalla vista di tutti; tu avendo abbracciato tutta la scienza, a dire il vero, non ce l’hai illustrata (infatti non era cosa da potersi fare in un momento); che cosa tu abbia ottenuto con gli altri, non so; quanto a me , mi hai fatto decidere irrevocabilmente per l’Accademia.
A proposito di essa, mi piacerebbe davvero che le cose stessero proprio come tu hai affermato, che cioè non sia necessario affaticarsi tutta la vita, che basti solo guardare le cose, per comprenderle sùbito: comunque, anche se il problema è più complesso o la mia intelligenza è debole, sono fermamente deciso marmi, a non desistere prima di avere appreso il duplice metodo di quei filosofi, consistente nel discutere pro e contro ogni argomento. [146] Intervenne Cesare che disse: Una cosa, o Crasso, mi ha più colpito nel tuo discorso, cioè l’avere tu affermato che solo chi ha compreso a prima vista argomento, può penetrano a fondo; per me dunque sarà difficile provare e o comprenderò sùbito le cose che tu porti al cielo con la tua parola, o, se non sarà possibile, non starò a perdere il mio tempo, potendo accontentarmi di queste nostre cognizioni. [147] A questo punto disse Sulpicio: Per quanto mi riguarda, o Crasso, non sento bisogno né del vostro Aristotele, né di Carneade, né di qualsiasi altro filosofo. Ti lascio libero di pensare che io non speri di poter apprendere tali nozioni o che ed è la verità le disprezzi; in realtà a me basta questa comune conoscenza dei fatti forensi e generali, per raggiungere quel tipo di eloquenza che rappresenta il mio ideale: quei fatti che non conosco e sono certo molti cerco di conoscerli quando me lo impone la causa che debbo perorare. Perciò, se non sei stanco e se la nostra richiesta non ti riesce gravosa, riprendi la discussione sull’abbellimento del discorso, ho voluto sentire; da te, non per perdere la speranza di divenire un grande oratore, ma per poter accrescere la cultura. [XXXVII][148] E Crasso di rimando: Mi chiedi o Sulpicio, che tutti conoscono e che neanche tu ignori: chi infatti su questo argomento non ha dato lezioni, ha fissato regole, non ha perfino lasciato trattati? Ma voglio accontentarti ed esporti in breve almeno quelle norme che penso tuttavia che tu farai bene a rivolgerti agli iniziatori e inventori di queste sottigliezze. [149] Dunque, ogni discorso è costituito di parole; di queste dobbiamo esaminare la loro natura, innanzi tutto separatamente, in secondo luogo in unione tra loro. Infatti c’è una certa eleganza di linguaggio che è data dalle parole singole, e un’altra che è data dalla congiunzione delle parole. Noi facciamo uso o di parole proprie, che sono come gli appellativi precisi delle cose, nati quasi insieme alle cose stesse, o di prole usate in senso traslato, che vengono, per dir così, collocate in un luogo che non è il loro, o di parole che noi stessi inventiamo e plasmiamo. [150] In materia di parole proprie, il merito dell’oratore consiste nel fuggire termini volgari e disusati e adoperare termini scelti e nobili, nei quali sembra esserci una certa finezza e sonorità. Ma per quanto riguarda le parole proprie è necessaria una scelta, in cui non deve mancare il giudizio, per dir così, delle orecchie: qui vale molto anche l’abitudine al buon linguaggio.
[151] Pertanto quella comune osservazione, che suole essere mossa dai profani agli oratori: Questi parla bene oppure: Quegli parla male, non è fatta sulla base di una teoria, ma per via di una certa facoltà naturale: in questo campo evitare l’errore non costituisce un grande merito, benché sia sempre una cosa importante; però bisogna riconoscere che la capacità di usare termini esatti è, oserei dire, la base e il fondamento del discorso. [152] Ma quale sia l’edificio innalzato dall’oratore, su che cosa abbia esercitato la sua arte: è questo, a mio avviso, il punto da chiarire. [XXXVIII] Quando si tratta di parole semplici, l’oratore può abbellire e ornare il discorso in tre modi: con parole inusitate, con parole create da lui stesso, con parole usate in senso traslato. [153] Le parole inusitate sono generalmente quelle antiche e ormai da lungo tempo abbandonate nell’uso del linguaggio comune per la loro vetustà: queste sono tollerate più nella poesia che nella prosa, per quanto talvolta l’uso di qualche termine poetico conferisca decoro anche a un discorso in prosa. Infatti io non eviterei una frase come questa, già usata da Celo, Qua tempestate Poenus in Italiam venit ; né l’uso di proles o di suboles o di effari o di nuncuftare o le espressioni non rebar, opinabar, che sei solito usare tu, o Catulo, e molte altre, che pure, usate a proposito, sogliono conferire al discorso un carattere di solennità o di vetustà. [154] Parole nuove sono quelle che vengono create e coniate da colui che parla, unendo insieme termini come in questi versi: Tum pavor sapientiam omnem mi exanimato expectorat. Num non vis huius me versutiloquas malitias... Vedete infatti che i termini versutiloquas ed expectorat sono parole create mediante lunione e non nate direttamente; ma spesso però si creano parole nuove anche senza l’unione, come quando diciamo: ille senius desertus, cli genitales, bacarum ubertate incurvescere. [155] Il terzo modo, molto usato, consiste nell’adoperare un termine in senso traslato, che è nato dalla necessità, sotto la spinta del bisogno e della povertà, poi si è diffuso largamente per via del piacere e del godimento che sono insiti in esso. Infatti, come il vestito fu inventato dapprima per difendere dai freddo, e poi si cominciò ad adoperano anche come ornamento e decoro del corpo, così l’uso dei traslati fu provocato dal bisogno e si diffuse a causa del godimento. Infatti anche i contadini sogliono dire: la gemmazione delle viti, il lussureggiare delle messi, le liete biade. Quando si esprime con un termine traslato un concetto che non si può esprimere con un termine proprio, la somiglianza dell’idea che noi esprimiamo con un termine che non è quello proprio, chiarisce l’idea che noi vogliamo esprimere. [156] Questi traslati dunque sono come dei prestiti, per mezzo dei quali prendiamo da un altro luogo quello che ci manca: un po’ più arditi sono quelli che non indicano un bisogno, ma procurano decoro al discorso; c’è forse bisogno che io esponga a voi le loro specie e la maniera d’inventarli? [XXXIX] [157] L’uso dei traslati è da approvare quando rendono più evidente il concetto, come in questi versi: il mare diviene irto, il buio raddoppia, l’oscurità della notte e dei nembi nasconde ogni cosa, splende la fiamma tra le nubi, il cielo trema per i tuoni, scrosci di grandine mista ad abbondante pioggia si abbattono improvvisamente, soffiano da ogni parte venti di ogni specie, turbini violenti si scatenano, il mare ribolle per la tempesta: il poeta ha espresso quasi tutti i concetti per mezzo di traslati, perché fossero più evidenti; [158] altre volte lo scopo è di esprimere con maggiore efficacia e nella sua complessità un fatto realmente accaduto o un’idea, come fa quel poeta che, usando due termini traslati, indica con la stessa somiglianza colui che nasconde a bella posta il suo pensiero, perché non si possa capire quello che viene fatto: poiché egli si avvolge nelle sue parole, si nasconde con inganno.
Talvolta per mezzo del traslato si ottiene anche la concisione, come nella frase: se il dardo fugge dalla mano lazione di un dardo che scappa via inavvertitamente non poteva essere espressa, con parole proprie, più concisamente che con questa semplice espressione usata in senso traslato. [159] A questo proposito spesso mi sono chiesto con meraviglia per quale ragione mai gli uomini si compiacciano più di termini estranei, usati in senso traslato, che di termini propri e appartenenti al concetto. [XL] Infatti se l’oggetto non ha un nome e un termine suo proprio, come nel caso discosta per la nave, obbligazione per quegli atti pubblici che si compiono per mezzo di una bilancia, divorzio per il ripudio della moglie, la necessità costringe a prendere da un altro luogo ciò che non si ha; tuttavia, anche quando c’è grandissima abbondanza di termini propri, agli uomini piacciono molto di più i termini traslati, se sono usati a proposito. [160] Io penso che ciò accade, o perché è indizio di vivido ingegno lasciare ciò che si ha a portata di mano e usare cose che vengono da lontano; o perché colui che ascolta corre altrove col pensiero, senza però uscire di strada (il che procura grande piacere); o perché con una sola parola si esprimono un concetto e la sua immagine; o perché ogni traslato, quando è usato a proposito, colpisce i sensi, in modo particolare la vista, che tra tutti i sensi è il più acuto. [161] Infatti il profumo della gentilezza, la morbidezza delle buone maniere, il mormorio del mare, la dolcezza del discorso sono espressioni derivate dagli altri sensi; quelli che derivano dalla vista sono molto più efficaci, perché mettono, per così dire, davanti all’animo cose che non possiamo distinguere e vedere. Non c’è nessun oggetto nella natura, il cui termine, che è poi il suo nome, non possa essere da noi adoperato per esprimere altre idee. Un termine che contenga una similitudine, derivato da un oggetto dal quale si possa derivare una similitudine (e ciò è possibile per tutti gli oggetti) rende brillante il discorso. [162] In questo caso ciò che bisogna soprattutto evitare è la dissomiglianza, come quando diciamo: I grandi archi del cielo; come si dice Ennio avesse portato sulla scena un globo terrestre: ma in esso non può trovarsi la perfetta immagine dell’arco. Vivi, o Ulisse, finché puoi: afferra con gli occhi per l’ultima volta la luce sfolgorante! Non disse: Cerca né Cogli termini che esprimerebbero la calma di un uomo che spera di vivere ancora a lungo ma afferra: termine che si adatta benissimo alla precedente espressione finché puoi