Traduzione De oratore, Cicerone, Versione di Latino, Libro 02; 01-10

Traduzione in italiano del testo originale in latino del Libro 02; paragrafi 01-10 dell'opera De oratore di Marco Tullio Cicerone

Traduzione De oratore, Cicerone, Versione di Latino, Libro 02; 01-10
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DE ORATORE: TRADUZIONE DEL LIBRO 02; PARAGRAFI 01-10

[I][1]Tra noi ragazzi, o fratello Quinto, c’era l’opinione generale, se ben ricordi, che L Crasso possedesse solo quelle nozioni, che aveva potuto acquistare durante la sua educazione giovanile; che M Antonio invece fosse del tutto sfornito di ogni cultura; e vi erano molti che nonostante pensassero che le cose non stavano così, tuttavia, per potere più facilmente distogliere da uno studio metodico noi che eravamo infiammati dal desiderio di apprendere, diffondevano volentieri sul conto di quegli oratori le voci che ho riportato, affinchè sembrasse che, se uomini forniti di modesta cultura avevano raggiunto una capacità eccezionale e una splendida arte oratoria, ogni nostra fatica appariva inutile e la cura che nostro padre, tanto saggio e assennato, poneva nel farci istruire non era degna di lode. [2] Per quanto ragazzi, noi solevamo respingere queste argomentazioni, sulle testimonianze di nostro padre, del nostro congiunto Aculeone e del nostro zio paterno L Cicerone, poichè, oltre a nostro padre, anche Aculeone, marito della nostra zia materna, che fu caro a Crasso più di ogni altro, e il nostro zio paterno che, andato in Cilicia con Antonio era ritornato insieme a lui, ci parlavano spesso della passione per lo studio e della profonda cultura di Crasso; d’altra parte quando seguivamo, insieme ai nostri cugini, figli di Aculeone, quegli studi che erano cari a Crasso, e venivamo ammaestrati da quei maestri, che erano anche suoi amici, notavamo spesso, frequentando la sua casa, alcuni fatti che, benché ragazzi, potevamo comprendere benissimo, e cioè che egli parlava il greco così bene da dare l’impressione che non conoscesse altra lingua, e poneva ai nostri maestri tali domande, da far pensare che sapesse tutto e tutto conoscesse. [3] Passando ad Antonio, benché avessimo spesso sentito dire dal nostro zio paterno, uomo di fine cultura, in che modo egli avesse partecipato alle discussioni con uomini dottissimi, sia in Atene che a Rodi, tuttavia io stesso da ragazzo gli avevo rivolto parecchie domande, per quanto lo permettesse la timidezza di quella mia verde età. Non sarà certo nuovo per te quello che scrivo; fin da allora mi hai sentito dire che mi era sembrato, attraverso molti e svariati discorsi, che quell’uomo non fosse ignaro di nessun argomento, che avesse attinenza, a quegli studi, sui quali io potevo dare un giudizio. [4] Ma tanto l’uno che l’altro avevano questo carattere: Crasso non voleva tanto che si pensasse che egli ignorava, quanto che disprezzava quelle nozioni, e che preferiva in ogni questione il senno della nostra gente alla scienza dei Greci; Antonio poi riteneva che, con un popolo come il nostro, sarebbe riuscita più gradita la sua eloquenza, se la gente lo avesse ritenuto privo di ogni cultura; e così erano convinti che sarebbero riusciti più autorevoli, l’uno dando l’impressione di disprezzare, l’altro di ignorare del tutto la cultura greca.

[5] Non m’interessa per il momento esaminare quale sia stato il loro modo di pensare; ciò che m’interessa adesso, in quest’opera che sto scrivendo, è mostrare che nessuno ha mai potuto distinguersi e primeggiare nell’eloquenza, ignorando le norme dell’arte del dire e privo di una larga cultura generale. [II] Mentre tutte le altre arti sono indipendenti una dall’altra, l’arte di parlar bene cioè l’arte di parlare con cognizione di causa, con competenza e con eleganza non ha un suo campo ben determinato, entro i cui confini se ne possa stare ben difesa: deve parlar bene su tutti gli argomenti, che possono cadere nelle discussioni degli uomini, oppure deve rinunziare al nome di oratore. [6] Per queste ragioni io ammetto che tanto nella nostra città, quanto nella stessa Grecia, che ha sempre tenuto in grande onore questi studi, vi siano stati molti uomini di grande ingegno ed eccellenti nell’arte del dire, sforniti di una cultura vasta e profonda; nego però che possa esistere un’eloquenza simile a quella di Crasso e di Antonio e una facondia pari a quella che essi ebbero, senza la conoscenza di tutte quelle discipline, che servono a far raggiungere una tale abilità. [7] Per questa ragione mi sono indotto molto volentieri a tramandare il discorso che una volta quegli uomini tennero tra di loro su questi argomenti, affinché svanisse l’opinione così diffusa che uno di essi abbia posseduto una modesta cultura e l’altro ne sia stato del tutto privo; o affinchè custodissi col mio scritto i pensieri, che quei sommi oratori hanno espresso divinamente, a mio parere, sull’eloquenza, se in qualche modo fossi riuscito a comprenderne il pieno significato; o per strappare, per quanto dipendeva da me, all’oblio degli uomini il glorioso ricordo di quei grandi, che ormai sta per spegnersi. [8] Infatti se ci fosse stata la possibilità di conoscerli attraverso i loro scritti, io forse avrei ritenuto di non dovermi sottoporre a un tale lavoro; ma siccome dell’uno ci sono pervenuti pochissimi scritti e per giunta composti nel periodo della giovinezza, e dell’altro nessuno, ho pensato che era mio dovere immortalare, se avessi potuto, uomini di così alto ingegno, la cui memoria è ancora viva presso di noi. [9] E la mia speranza di riuscire nell’impresa è tanto più viva, in quanto non mi intrattengo sull’eloquenza di Servio Galba o di C Carbone , su cui potrei inventare ciò che voglio, senza che qualcuno possa confutarne coi suoi ricordi, ma espongo cose che debbono essere note a coloro che ascoltarono spesso quegli uomini di cui parlo; che dunque io raccomando due illustri personaggi a uomini che non conobbero né l’uno né l’altro, prendendo come testimone la memoria di coloro che li conobbero entrambi e che sono ancora vivi e presenti tra noi.

[III][10] Io non intendo ora, o carissimo e ottimo fratello, insistere nel volerti istruire per mezzo di uno di quei trattati di retorica che tu detesti; che cosa infatti ci può essere di più fine ed elegante del tuo modo di parlare? Ma sia che tu abbia scartato la carriera dell’oratore per un tuo intimo convincimento, come sei solito dire, o per una certa riservatezza ed encomiabile timidezza, come dice di sé il padre dell’eloquenza, Isocrate , o perché hai ritenuto che bastasse un solo oratore non soltanto in una famiglia ma, starei per dire, in un’intera città, come io soglio dire scherzando, non credo che vorrai collocare questa mia opera nel novero di quelle che meritano di essere derise per la scarsa cultura letteraria di coloro che in esse discutono di eloquenza; [11] mi pare infatti di non avere tralasciato in questa conversazione di Crasso e Antonio nulla di tutto ciò che per generale giudizio possono aver conosciuto ed appreso quegli nomini forniti di sommo ingegno, di vivissima passione, profonda dottrina e lunghissima pratica forense, cosicché potrai facilmente giudicare, tu che hai voluto studiare l’eloquenza, per la parte teorica da te stesso , e per la parte pratica per mezzo di me. Ma per potere assolvere più rapidamente il non lieve còmpito che mi sono assunto, io tronco la mia esortazione e vengo alla dotta conversazione che ebbero quei personaggi, che ho già presentato. [12] Dunque, il giorno seguente a quello in cui si tenne quella discussione verso l’ora seconda, quando Crasso era ancora a letto, e accanto a lui sedeva Sulpicio, e Antonio passeggiava insieme a Cotta sotto il portico, giunsero colà improvvisamente Q Catulo il Vecchio col fratello C Giulio; appena udì ciò, Crasso saltò giù dal letto impensierito, e tutti furono presi da stupore, perché temevano che li portasse là un motivo più grave di quello che in realtà li portava. [13] Dopo che si furono salutati molto cordialmente, come richiedeva la loro amicizia? Crasso disse: Ebbene, che c’è di nuovo? Nulla davvero, rispose Catulo sai bene che questi sono giorni di festa; chiamaci pure ineducati, o, se vuoi, importuni, t’informo però che ieri sera Cesare, essendo venuto dalla sua villa Tuscolana nella mia, mi disse di avere incontrato Scevola, che veniva da qui, e di avere appreso da lui una cosa veramente straordinaria: che tu, che avevi già negato a me, malgrado i miei numerosi e insistenti tentativi, una conversazione sull’eloquenza, avevi tenuto una lunga discussione su questo tema con Antonio, svolgendo l’argomento come in una lezione, alla maniera dei Greci: [14] così mio fratello riuscì, con le sue preghiere, a farmi venire qui insieme a lui, io che ero molto desideroso di udirti, ma temevo che la nostra venuta vi arrecasse fastidio; egli diceva di avere saputo da Scevola che una buona parte della discussione era stata rinviata ad oggi.

Se tu consideri questa nostra venuta un indiscrezione, danne la colpa a Cesare: se la consideri una prova di amicizia, attribuisci l’idea di essa ad ambedue; per conto nostro siamo lieti di essere venuti, certo se non giungiamo inopportuni. [IV] [15] Veramente, rispose Crasso, io mi sarei rallegrato nel vedere qui accanto a me uomini carissimi e amicissimi, qualunque fosse stato il motivo che vi avesse condotto; ma tuttavia, a dire il vero, avrei preferito che il motivo fosse stato qualunque altro piuttosto che quello che dici. Io, infatti, per dire quello che penso, ieri sono stato scontentissimo di me; la cosa è avvenuta più per una mia eccessiva benevolenza che per qualche mia colpa, perché, mentre accontentavo questi giovani, mi sono dimenticato di essere un vecchio: e così ho fatto ciò che non avevo fatto mai, neppure da giovane: ho tenuto, cioè, una discussione su questioni di carattere puramente dottrinale. Però la fortuna mi ha assistito: infatti io ho assolto la mia parte, ed ora voi venite per ascoltare Antonio. [16] Allora Cesare disse: Confesso che ascolterei molto volentieri una tua lunga e ininterrotta discussione, come quella che hai già tenuto; però, se ciò non mi è permesso, mi so accontentare di questa tua familiare conversazione; perciò io farò tutti i miei sforzi perché non sembri che il mio amico Sulpicio o Cotta abbiano su te un’influenza superiore alla mia, e ti prego di concedere a me e a Catulo un po’ della tua benevolenza; se poi ciò non sarà possibile, non ti voglio arrecare fastidio, né permetterò che tu mi giudichi impertinente, proprio quando tu stesso temi un tale rimprovero. [17] E Crasso di rimando: in verità, o Cesare, tra tutte le voci della lingua latina, la voce inefttus è quella che, a mio avviso, ha il significato più largo; quando noi definiamo qualcuno ineptus, gli diamo questo attributo così almeno credo perché non lo riteniamo atto a qualche cosa; e ciò ha nella nostra lingua un gran numero di significati; infatti quando uno non si rende conto di ciò che la circostanza richiede, o parla più del necessario, o si dà troppe arie, o non tiene il giusto conto della dignità o della utilità di coloro coi quali ha rapporti, o non rispetta le regole della convenienza, o dottoreggia troppo, diciamo che è un inetto. [18] Di questo difetto incontriamo esempi innumerevoli presso i Greci, popolo dottissimo; ma siccome essi non comprendono la gravità di un tale difetto, non gli hanno dato neanche un nome; infatti, per quanto tu cerchi, non troverai mai un termine greco che esprima il concetto del nostro inetus. Ma tra tutti gli esempi di sconvenienza, che sono davvero innumerevoli, non so se ve ne sia uno che superi in gravità l’abitudine di quella gente a discutere con estrema sottigliezza in qualsiasi luogo, tra persone di qualunque specie, su questioni difficilissime o niente affatto necessarie.

Quello che ho fatto io ieri: ma l’ho fatto a malincuore e contro voglia, costretto da questi giovani. [V] [19] Allora Catulo disse: In verità quegli antichi Greci, che furono illustri ed influenti nei loro Stati, come tu lo sei nel nostro e come tutti noi desideriamo essere, erano ben diversi da questi Greci, che vogliono insinuarsi a tutti i costi nelle nostre orecchie, nè rifuggivano affatto, nei momenti di riposo, dalle conversazioni e dalle discussioni di questo genere. [20] Tu consideri e a ragione inetti gli uomini che non hanno l’esatta comprensione del momento, del luogo e degli uomini coi quali trattano, ebbene non ti sembra idoneo a una conversazione questo luogo, ove lo stesso portico in cui ora passeggiamo e la palestra e tutti i sedili sparsi qua e là richiamano alla mente i ginnasi e le discussioni dei Greci? O non ti sembra adatto il momento in riposo così completo, quale raramente ci è concesso, e che ci è giunto dopo che lo abbiamo tanto desiderato? O non credi adatti a un tale genere di conversazione uomini come noi, profondamente convinti che la vita non vale nulla, qualora sia priva di tali studi? [21]Su tutto questo rispose Crasso, il mio giudizio è diverso dal tuo, poiché prima di tutto io penso, o Catulo, che La palestra e i sedili e i portici siano stati inventati dagli stessi Greci per gli esercizi fisici e lo svago e non per le dotte discussioni: infatti i ginnasi esistevano molti secoli prima che i filosofi cominciassero a riempirli delle loro chiacchiere, e anche adesso che tutti i ginnasi rigurgitano di filosofi, i loro ascoltatori preferiscono udire il fischio di un disco che la voce di un filosofo: tanto è vero che appena si sente nell’aria il lancio (li un disco, tutti piantano il filosofo nel mezzo del suo discorso, mentre sta discutendo su problemi seri e importantissimi, e vanno a ungersi; evidentemente essi antepongono un divertimento di modestissima entità a discorsi della più seria utilità, come quelli affermano. [22] Hai detto anche che noi ci troviamo adesso in un periodo di riposo; vero, però ti faccio osservare che il frutto del riposo non è la tensione dell’animo, ma il rilassamento [VI] Spesso ho sentito dire da mio suocero che suo suocero Lelio era solito villeggiare quasi sempre insieme a Scipione: essi ritornavano bambini chi lo crederebbe quando fuggivano da Roma alla campagna come se fuggissero dalla prigione. Di uomini siffatti io non oserei dire cose simili: però Scevola suole raccontare che essi amavano raccogliere conchiglie e chiocciole marine nei pressi di Gaeta e di Laurento e abbandonarsi ad ogni svago e divertimento. [23] Le cose stanno proprio così, che noi vediamo che gli uccelli costruiscono con cura i loro nidi in vista della prole e per il loro stesso conforto poi, dopo che hanno lavorato, si librano in volo qua e là, ovunque vogliono, liberi da impegni, per riposarsi dalla loro fatica, così l’animo nostro stanco dalle fatiche del foro e da tutte le attività connesse con la vita cittadina, è smanioso e bramoso di evadere, libero da ogni pensiero e fatica.

[24] Pertanto quello che dissi a Scevola nel processo di Curio era la sincera espressione del mio pensiero: gli dissi infatti, se nessun testamento, o Scevola, può dirsi scritto conformemente alle regole, tranne quelli scritti da te, verremo tutti da te con le tavolette cerate e tu solo scriverai i testamenti di tutti. Ebbene? Quando potrai dedicarti agli affari pubblici? Quando agli affari degli amici? Quando ai tuoi? E infine quando avrai un attimo di riposo? E aggiunsi: Io non considero libero quell’uomo che non possa qualche volta starsene inoperoso. Io rimango, o Catulo dello stesso avviso; e ora che sono qui, mi piace questo non far niente e questo sentirmi del tutto libero da pensieri. [25] In quanto alla tua terza osservazione, che cioè voi siete fatti in modo da stimare poco attraente una vita priva di questi studi, una tale considerazione non solo non m’invoglia a una discussione, ma me ne allontana. C Lucilio, spirito colto e molto arguto, soleva dire che era suo desiderio che i suoi versi non fossero letti né da uomini ignorantissimi né da uomini dottissimi, perché gli uni non avrebbero capito nulla, gli altri forse più di lui stesso; per questo scrisse Non voglio che mi legga Persio (era difficile trovar un uomo più dotto tra tutti i Romani); voglio invece che mi legga Lelio Decimo (costui era un uomo dabbene e non privo di cultura, ma una nullità se paragonato a Persio);allo stesso modo, se io dovessi discutere su questi nostri studi, non vorrei farlo davanti a uomini incolti, ma molto meno davanti a voi, perché preferisco non essere compreso piuttosto che essere criticato. [VII] [26] Allora Cesare disse: Mi pare, o Catulo, di avere raggiunto lo scopo della mia venuta: infatti questo stesso rifiuto di discutere ha fornito lo spunto a una discussione, a una discussione piacevolissima per me. Ma perché tratteniamo Antonio, a cui, a quanto sento, spetta ora di parlare sull’eloquenza, che è già un pezzo che Cotta e Sulpicio attendono? [27] Io però- disse Crasso-non permetterò ad Antonio di parlare e anch’io terrò chiusa la bocca, se prima non avrò ottenuto da voi Che cosa? interruppe Catulo. Che voi oggi restiate qui disse Crasso. E siccome Catulo, che aveva promesso di andare a pranzo dal fratello, si mostrava titubante, Ebbene disse Cesare rispondo io per entrambi: facciamo così; a questa condizione, anche se tu non aprissi bocca, mi tratterresti lo stesso. [28] Allora Catulo disse sorridendo: ogni mio dubbio è svanito, poichè non ho lasciato nessun ordine a casa per il pranzo; si aggiunga che costui, presso il quale io dovevo pranzare, ha accettato subito l’invito, senza chiedere il mio parere. Allora tutti rivolsero gli occhi verso Antonio, che così cominciò: Udite, dunque, udite, un uomo che ha frequentato le scuole retoriche ed ha appreso la cultura greca da maestri greci e parlo con molta sicurezza poichè vedo tra i miei ascoltatori Catulo, a cui non solo noi Romani nell’uso del latino, ma anche i Greci, nell’uso del greco concedono la palma della finezza e dell’eleganza.

[29] Ma poiché tutta questa attività, qualunque essa sia, o studio teorico o esercizio pratico, non vale nulla se non ha con sé anche una buona dose di sfacciataggine, io vi comunicherò tutte le mie idee sull’eloquenza in generale: idee che non ho appreso da nessuno. [30] Qui tutti sorrisero, mi sembra che tale attività derivi-disse- da grande abilità, ben poco dalla teoria astratta; la teoria è basata su ciò che si sa; ora, l’attività dell’oratore è fondata sull’opinione e non sulla scienza; infatti noi parliamo davanti a uomini che ignorano i fatti e discutiamo di cose che noi stessi ignoriamo; perciò sugli stessi problemi i nostri uditori esprimono un pensiero e un giudizio diverso di volta in volta, e noi spesso sosteniamo il contrario di ciò che abbiamo sostenuto, non solo come quando Crasso parli contro di me ed io contro Crasso (e in questi casi inevitabilmente uno dei due sostiene il falso), ma anche quando ciascuno di noi due sostenga sullo stesso problema ora una tesi ora un’altra, mentre la verità non può essere che una sola. Dunque, vi parlerò, se voi pensate che ne valga la pena, come si può parlare di una cosa che poggia sulla menzogna, che spesso resta lontana dalla scienza e che va dietro alle opinioni e spesso anche agli errori degli uomini. [VIII] [31] Ma certo che ne vale la pena -disse Catulo-tanto più che, come a me sembra, tu mostri di non fare alcuno sfoggio di dottrina; hai incominciato con un tono umile piuttosto dalla verità, come tu affermi, che da una dignità incerta e indefinita. [32] Vi ho detto -riprese Antonio- che in materia di eloquenza non possiamo dare grande importanza alla teoria; riconosco però che si possono dare certi precetti molto adatti per soggiogare gli animi degli uomini e per dominare le loro volontà. Se qualcuno vorrà affermare che la conoscenza di questi precetti costituisce un’arte molto importante, io non mi opporrò; quando la maggior parte degli avvocati difendono le loro cause nel foro senza preparazione e senza metodo o assolvono il loro compito con maggiore abilità a causa del continuo esercizio o dell’abitudine, non c’è dubbio, che se uno volesse trovare le ragioni per le quali uno parla meglio di un altro, le troverebbe certamente: perciò chi estendesse questo principio a tutto il genere, questi troverebbe qualche cosa che, se non è possibile chiamare arte, le sta tuttavia molto vicino. [33] E Volesse il cielo che come mi pare di notare i pregi di un bel discorso o nei processi, così fossi ora capace di spiegare a voi in che modo essi si ottengono! Ma di questa mia capacità, ne riparleremo; per il momento voglio dirvi schiettamente il mio pensiero: se anche l’eloquenza non è un’arte, tuttavia non c’è cosa più splendida di un perfetto oratore; infatti per non parlare dell’utilità dell’eloquenza, che rivela la sua potenza in ogni Stato pacifico e libero, dobbiamo riconoscere che la stessa abilità oratoria racchiude in sé tanta soavità, che nulla di più soave può essere percepito dalle orecchie o dagli animi degli uomini.

[34] Quale canto puoi trovare più dolce di un armonioso discorso? Quale carme più tornito di un periodo ben congegnato? Quale attore è più piacevole, nell’imitare un caso reale, di quanto lo sia un oratore nel difenderlo? Che cosa c’è di più spiritoso di una fitta serie di arguti pensieri? Che cosa c’è di più ammirevole di un argomento esposto con uno splendido linguaggio? Che cosa cli più completo di un discorso ricolmo dei più svariati concetti? In verità non c’è argomento degno di essere trattato con eleganza e solennità, che non rientri nella competenza dell’oratore. [IX] [35] còmpito dell’oratore esprimere un parere in forma dignitosa, quando bisogna dare consigli su questioni importantissime; così pure incoraggiare il popolo avvilito e calmare il popolo eccitato è compito dell’oratore far condannare i malvagi e trarre in salvo gli innocenti. Chi saprebbe esortare con più ardore alla virtù, distogliere con più calore dal vizio, biasimare con maggiore asprezza i malvagi, lodare con maggior eleganza i buoni, fiaccare con maggior forza, mediante l’accusa, i prepotenti? Chi saprebbe consolare con maggior dolcezza, gli afflitti? [36] Chi se non l’oratore raccomanda all’immortalità la storia, testimone delle generazioni, luce di verità, conservatrice delle memorie, maestra di vita, méssaggera di antichità? Se vi è qualche altra arte che sia capace d’insegnare la scienza di creare o di scegliere le parole; o se vi è qualcuno diverso dall’oratore, di cui si possa dire che sa dare una bella forma al discorso, che sa variano e colorirlo con determinate figure, per dir così, di parole e di pensiero; o se vi è qualche arte diversa dall’eloquenza che sappia insegnare la via di trovare gli argomenti o i concetti o la disposizione o l’ordine, noi siamo pronti a confessare che l’eloquenza vuole arrogarsi una facoltà che non le appartiene, oppure che tale facoltà è comune ad altre arti:[37] ma se quest’arte sola possiede il vero metodo che insegna a parlare, non per questo lo perde se altri uomini, esperti in altre arti, hanno tenuto dei bei discorsi; come l’oratore è capace di parlare benissimo, come diceva ieri Crasso, intorno ad argomenti che appartengono ad altre discipline, purché le conosca perfettamente, così gli uomini che professano le altre arti svolgeranno i propri argomenti con maggiore eleganza, se conoscono in qualche misura l’arte del dire. [38] Se un agricoltore scrive o parla eloquentemente di agricoltura, un medico di medicina (cosa che capita molto spesso), un pittore di pittura, non bisogna credere per questo che l’eloquenza sia propria di quelle arti; e in questa poichè la forza delle umane abitudini è grande, molti uomini di qualsiasi categoria e professione, anche privi di cultura, riescono ad affermarsi nell’arte del dire; ma quali che siano le caratteristiche proprie di ciascun’arte , anche se si può giudicare da ciò, osservandolo tu stesso, ciò che ciascun’arte insegna, tuttavia nulla è più certo di questo, che tutte le altre arti possono assolvere il proprio còmpito senza l’eloquenza, mentre l’oratore senza di essa non può mantenere neanche il proprio nome; come tutti gli altri uomini, se sono facondi, prendono qualche cosa dall’oratore, questi, invece, se non si sarà preparato coi suoi mezzi, non potrà acquistare l’arte del dire da altri.

[X][39] Allora Catulo disse: Il tuo discorso non dovrebbe essere interrotto, per nessuna ragione: tuttavia abbi pazienza e perdonami; non posso fare a meno di gridarti Bravo come fa quel tale personaggio del Trinummo: tanto sei stato preciso nel descrivere l’importanza dell’eloquenza e largo nell’elogiarla; conviene che il più indicato a tessere l’elogio dell’eloquenza sia proprio un valente oratore: per fare infatti un tale elogio egli deve far uso di quell’attività stessa che elogia. Ma suvvia, continua; concordo pienamente con te nell’ammettere che appartiene interamente a voi l’arte di parlare con facondia: se riesce a fare ciò il cultore di un altra disciplina, diciamo pure che fa uso di una facoltà a lui estranea e che non gli appartiene affatto. [40] E Crasso aggiunse: la notte, o Antonio, ti ha ingentilito e fidato la tua umanità; infatti nel discorso di ieri tu ci avevi dipinto l’oratore come un uomo addetto a un solo mestiere, una specie di barcaiuolo o di facchino: per dirla con Cecilio, privo di cultura e rozzo. E Antonio di rimando: ieri infatti mi ero messo in testa di confutarti, nella speranza di strapparti questi affievi; oggi però ci ascoltano Catulo e Cesare: credo quindi mio dovere non tanto combattere con te quanto esporre francamente il mio pensiero. [41] Siccome l’uomo del quale stiamo parlando deve essere da noi collocato nel foro e davanti agli occhi dei cittadini, vediamo quali sono i compiti, quali le funzioni che vogliamo affidargli; nella discussione di ieri, alla quale voi, o Catulo e Cesare, non eravate presenti, Crasso ha fatto una rapida suddivisione di questa disciplina, seguendo i criteri che vediamo comunemente esposti dai Greci, e non ci ha esposto affatto il suo pensiero, ma il pensiero di quei retori: dunque, ci ha detto che ci sono due classi principali di questioni, oggetto dell’eloquenza: le questioni indefinite e le questioni definite. [42] Mi è sembrato che egli chiamasse indefinite le questioni nelle quali si discute in astratto, come quando diciamo: deve essere desiderata l’eloquenza? Devono essere desiderati gli onori? Definite invece le questioni nelle quali si discute riguardo a determinati personaggi e intorno a un argomento preciso e concreto, come avviene nel foto e nelle cause e nelle controversie dei cittadini. [43] Direi che queste due classi riguardano o i processi o le deliberazioni della vita politica; vi è poi una terza classe di questioni, a cui ha accennato Crasso, e che è stata aggiunta, a quanto mi dicono, alle altre due da Aristotele, proprio da colui che ha studiato più di ogni altro questa materia: essa può essere utile, ma non è affatto necessaria Cosa vuoi dire? disse Catulo. Alludi forse ai discorsi celebrativi

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