Traduzione De oratore, Cicerone, Versione di Latino, Libro 01; 31-40
Traduzione in italiano del testo originale in latino del Libro 01; paragrafi 31-40 dell'opera De oratore di Marco Tullio Cicerone
DE ORATORE: TRADUZIONE DEL LIBRO 01; PARAGRAFI 31-40
[XXXI][137] E allora Crasso: Io sono convinto, o Sulpicio, che quando mi avrai sentito, tu non resterai tanto ammirato per le cose che io avrò dette, quanto persuaso che non valeva proprio la pena aver desiderato di ascoltarle ma non dirò nulla di segreto, nulla che sia degno della vostra attesa, nulla che non abbiate già sentito o che risulti nuovo per qualcuno di voi. Innanzi tutto non negherà di avere appreso, come si addice ad ogni uomo libero e ben educato, tutti codesti precetti triti e comuni a tutte le scuole: [138] che, cioè, il primo dovere dell’oratore è parlare in modo adatto a persuadere; che ogni discorso verte o su un problema generale, senza indicazione di persone né di circostanze, o su un problema legato a determinate persone e circostanze; [139] in ambedue i casi, qualunque sia il punto controverso, si suole indagare se il fatto sia realmente avvenuto, o, se è avvenuto, di che specie sia, o come debba essere chiamato, o, come vogliono alcuni, se sembri compiuto giustamente; [140] so bene che possono sorgere dissensi anche sull’interpretazione di un documento, in cui ci sia un’ambiguità o una contraddizione o un contrasto tra lo spirito e la lettera: per tutti questi casi vi sono speciali norme adatte a ciascuno di essi. [141] Delle cause che non trattano una questione astratta, alcune appartengono al genere giudiziario, altre al genere deliberativo; vi è poi un terzo genere che ha per oggetto la lode o il biasimo degli uomini; vi sono inoltre certi argomenti di carattere generale, di cui ci serviamo nelle orazioni giudiziarie, nelle quali si cerca l’equità; altri, di cui ci serviamo nelle orazioni deliberative, che sono dirette al vantaggio di coloro a cui diamo un consiglio, e altri, di cui ci serviamo nelle orazioni celebrative, ove tutto è diretto alla dignità delle persone elogiate; [142] io ho saputo che la forza e l’essenza dell’eloquenza poggia su questi cinque requisiti; innanzi tutto trovare quello che bisogna dire, poi distribuire e collocare i concetti trovati a seconda non solo del loro giusto ordine, ma anche della loro importanza reale e del criterio personale dell’oratore, poi rivestirli con gli ornamenti dello stile, poi chiuderli bene nella propria memoria, infine pronunziarli con dignità e grazia. [143] Ho saputo anche che, prima di affrontare l’argomento del discorso, è necessario conciliarsi l’animo degli uditori esporre il fatto, poi stabilire l’oggetto della controversia, poi avvalorare la nostra tesi, poi respingere le obiezioni dell’avversario e infine, nella perorazione, ampliare e rafforzare quelle argomentazioni che sono favorevoli a noi e schiacciare quelle altre che sono favorevoli ai nostri avversari. [XXXII] [144] Io ho ascoltato anche tutti gli insegnamenti che vengono dati riguardo allo stile: a proposito del quale si raccomanda innanzi tutto che esso sia puro e vera a mente latino, poi che sia chiaro e perspicuo, e ancora che sia elegante, e infine che sia corrispondente all’importanza dell’argomento e fornito di un certo decoro; di questi singoli pregi io ho appreso tutte le norme.
[145] Anzi mi sono reso conto che perfino le doti più schiettamente naturali sono regolate dall’arte: infatti tanto sul modo di porgere che sulla memoria ho appreso in un rapido corso alcuni insegnamenti semplici, ma accompagnati da lunghe esercitazioni. Tutta la scienza di codesti maestri si aggira pressa poco su questi argomenti, la quale scienza se io dicessi che essa non serve a nulla, mentirei: infatti fornisce determinate nozioni che sono in certo modo utili all’oratore, perché gli ricordano dove debba tendere con ciascun argomento e come debba fare per allontanarsi il meno possibile dalla mèta che si è prefissa. [146] Però io penso che tutti questi precetti non abbiano una forza tale, da far raggiungere l’eccellenza nell’arte del dire a quegli oratori che li abbiano seguiti: al contrario credo che certi maestri abbiano notato e codificato quei metodi che venivano seguiti spontaneamente da alcuni uomini eloquenti; così possiamo dire che non è stata l’eloquenza a nascere dalla teoria, ma la teoria dall’eloquenza; come ho già detto, io sono ben lontano dal condannare questa teoria: senza essere assolutamente necessaria per parlar bene, essa è tuttavia degna di un uomo libero. [147] Bisogna che voi facciate anche esercizi pratici; sebbene riconosco che voi, siete già da tempo nel corso, possiate farne a meno; però non possono farne a meno coloro che sono agli inizi della professione, e quindi possono prepararsi, direi quasi, con finte scaramucce, a quelle prove che dovranno affrontare nel foro come in un campo di battaglia. [148] Proprio questi esercizi, disse Sulpicio, noi vorremmo conoscere; certo, desidereremmo che tu ci esponessi anche questi precetti, ai quali hai accennato di sfuggita, benché altre volte ne abbiamo sentito parlare; ma ad essi penseremo tra poco: adesso ti preghiamo che tu ci dica cosa pensi di questi esercizi. [XXXIII] [149] E Crasso rispose: Io veramente approvo il vostro metodo dì proporre una causa simile a quelle che si discutono nel foro, e di parlare intorno ad essa nel modo più vicino alla verità; però la maggior parte degli oratori con questo esercizio esercitano solo la voce (e anche ciò senza intelligenza) e le proprie forze fisiche; inoltre favoriscono la sveltezza della lingua e si compiacciono della ricchezza delle parole: in ciò essi vengono ingannati dal detto, che gli uomini parlando imparano a parlare;[150] ma è vero anche quell’altro detto, che gli uomini parlando male imparano molto facilmente a parlar male. Perciò in queste stesse esercitazioni, quantunque sia utile parlare spesso anche all’improvviso, tuttavia è più utile prendere un po’ di tempo per riflettere e poi parlare con una più accurata preparazione. Voglio dirvi schiettamente il mio pensiero: la cosa più importante è quella a cui noi diamo il minimo peso, cioè l’esercizio continuo dello scrivere, che i più evitano, perché è molto faticoso. Lo stiletto è il migliore e più efficace artefice e maestro dell’arte del dire; e non a torto: infatti se la preparazione e la riflessione superano di gran lunga il discorso improvvisato, l’esercizio continuo e diligente dello scrivere supera la preparazione e la riflessione stessa.
[151] Quando noi indaghiamo e riflettiamo, con tutta l’acutezza dell’ingegno, tutti gli argomenti, sia dell’arte retorica che dell’ingegno naturale e del senno pratico, inerenti beninteso al problema su cui scriviamo, si svelano e si presentano a noi; tutti i concetti e le parole che più si addicono a ciascun genere oratorio sono costretti a venire e a mostrarsi sotto la punta dello stiletto; si aggiunga che, nell’esercizio dello scrivere, la stessa collocazione e la giusta disposizione delle parole hanno il loro compimento, non in un ritmo poetico, ma in una certa misura e cadenza oratoria. [152] Sono questi gli elementi che procurano ai grandi oratori applausi e viva ammirazione: cosa che nessuno otterrà, se non avrà scritto per lungo tempo e intensamente, anche se si sarà esordito col massimo impegno in codesti discorsi improvvisati; inoltre colui che si presenta a parlare abituato a scrivere i propri discorsi, ha con sé quest’altro vantaggio, che, anche se parla all’improvviso, il suo discorso sembra simile a un discorso scritto; e per di più, se talvolta parlando tiene qualche appunto scritto, quando si allontana da esso, la parte rimanente del discorso proseguirà eguale alla precedente;[153] come una nave lanciata a forte velocità, qualora i rematori fermano i remi, mantiene il suo movimento e la sua corsa, benché siano cessati l’impeto e la spinta dei remi, così in un discorso continuato, se vengono meno gli appunti scritti, la parte che rimane prosegue col suo ritmo normale, spinta da una forza simile a quella degli appunti scritti. [XXXIV] [154] Negli esercizi oratori, che da ragazzo facevo giornalmente, avevo preso l’abitudine di seguire soprattutto quell’esercizio, che io sapevo praticato da quel nostro famoso avversario C Carbone: leggevo, cioè, un certo numero di versi, i più densi di pensiero che riuscivo a trovare, oppure una parte di un discorso di ampiezza tale da poterla abbracciare con la mia memoria, e poi ripetevo con altre parole, scelte con la massima cura, il contenuto di quei versi e di quel discorso che avevo letto; ma poi mi accorsi che in questo esercizio cera questo difetto, che le parole che erano più proprie, più eleganti e più felici per esprimere ciascun concetto, le avevano già adoperate o Ennio, se mi esercitavo sui versi di questo poeta, o Gracco, se per caso io mi ero posto innanzi come modello un discorso di costui: così, se usavo le medesime espressioni, non ricavavo nessun giovamento, se ricorrevo ad espressioni diverse, ne traevo anche danno, perché mi abituavo a servirmi di un linguaggio privo di precisione. [155] Poi mi piacque un altro esercizio, che mi diedi a praticare da giovane: esso consisteva nel tradurre le orazioni dei più grandi oratori greci affinché, dopo aver letto queste orazioni, io le volgevo in lingua latina quei concetti che avevo letto in lingua greca; così ottenevo un doppio risultato, perché da una parte usavo ottime parole, già in uso nella nostra lingua, dall’altra, nell’atto di imitare, coniavo certe espressioni che erano nuove per noi, ma nel tempo stesso proprie.
[156] Passiamo ora al modo di regolare ed esercitare la voce, il respiro, l’intero corpo e la stessa lingua: qui non si tratta tanto di norme teoriche, quanto di addestramento: in tutto questo bisogna curare con diligenza a ciò: chi vogliamo imitare e a chi vogliamo somigliare. Dobbiamo osservare attentamente non solo gli oratori, ma anche gli attori, affinché, per qualche cattiva abitudine non cadiamo in qualche errore o difetto. [157] Bisogna anche esercitare la memoria, imparando parola per parola il maggior numero possibile di scritti nostri e altrui; e in tale esercizio non mi dispiace affatto che voi usiate, se ne avete l’abitudine, anche codesto metodo che viene insegnato nelle scuole, che cerca di legare la memoria a immagini e luoghi determinati. Bisogna poi portare la parola fuori da codeste esercitazioni domestiche e chiuse nel mezzo della folla, nella polvere, negli schiamazzi della gente, nella palestra attiva e combattuta del foro; bisogna affrontare i volti degli uomini, mettere alla prova le forze dell’ingegno, portare alla luce della verità quella preparazione fatta entro un luogo chiuso. [158] Bisogna leggere le opere dei poeti, studiare i libri di storia, fare una scelta e riflettere sui maestri e gli scrittori di tutte le arti liberali, e, a scopo di esercizio, lodarli, commentarli, correggerli, criticarli; bisogna discutere su ogni tesi, sia a favore che contro, e trar fuori, in ogni questione, ciò che possa sembrare degno di approvazione; [159] Bisogna studiare a fondo il diritto civile, conoscere le leggi, la scienza dell’antichità, le tradizioni senatorie, la costituzione dello Stato, i diritti degli alleati, le alleanze, i trattati, gli interessi dello Stato; e inoltre bisogna cogliere da ogni genere di piacevolezze delle amabili arguzie, con cui tu possa spruzzare, come si fa col sale, ogni discorso. Così vi ho esposto tutto ciò che sapevo: se voi aveste interrogato un qualunque padre di famiglia, tratto fuori da qualsiasi crocchio, egli forse vi avrebbe dato le medesime risposte. [XXXV][160] Quando Crasso ebbe finito di parlare, ci fu silenzio, ma quantunque fosse chiaro che egli aveva risposto esaurientemente a tutte le domande che i presenti gli avevano fatto, tuttavia tutti avevano l’impressione che la conclusione era stata molto più affrettata di quanto ognuno avrebbe voluto. Allora Scevola disse: Che c’è, o Cotta? perché tacete? Non avete niente altro da chiedere a Crasso? [161] E Cotta rispose: Proprio a questo, per Ercole, sto pensando: fu tanta la foga delle sue parole e il suo discorso volò via così veloce, che io ho potuto notare il suo impeto e il suo slancio, ma ho visto appena le orme della corsa come se fossi entrato in una casa ricca e ben fornita, ove i tappeti fossero arrotolati, chiusi il vasellame d’argento e i quadri e le statue, ove insomma tutte queste numerose e magnifiche suppellettili fossero ammonticchiate e nascoste, così dianzi nel discorso di Crasso, io ho solo intravisto la ricchezza e lo splendore del suo ingegno, come attraverso degli astucci e dei veli, e benché desiderassi ammirarli, a stento ho avuto la possibilità di vederli di sfuggita; non posso quindi né affermare di ignorare completamente ciò che egli possiede, né di conoscerlo appieno e di averlo visto.
[162] Perché dunque, riprese Scevola, non fai proprio quello che faresti, se fossi entrato in una casa o in una villa piena di belle suppellettili? Se esse, come dici, fossero chiuse, tu, spinto dalla bramosia di vederle, non esiteresti di pregare il padrone che le facesse esporre, specialmente se si trattasse di un tuo amico; nello stesso modo, chiedi ora a Crasso di mettere fuori, collocando ogni oggetto al suo giusto posto, quella sua dovizia di splendide suppellettili, che egli ha ammonticchiato in un unico luogo, e a cui abbiamo dato una rapida occhiata, passando, come attraverso a una grata. [163] E Cotta di rimando: In verità è questo un favore che io chiedo a te, o Scevol; siccome tanto io quanto questo Sulpicio qui presente non abbiamo il coraggio di chiedere a un uomo, il più venerando tra tutti, che ha sempre disprezzato un tale genere di discussioni, cose che a lui forse sembreranno bagattelle da scolaretti, facci, o Scevola, questo piacere: fa in modo che Grasso allarghi e c’illustri quei concetti che nel suo precedente discorso ha stretto e serrato in piccolo spazio. [164] In verità , disse Mucio prima io volevo più per voi che per me: e il desiderio di sentire una tale esposizione da parte di Crasso era certo inferiore al piacere che provo quando lo sento parlare nei tribunali; ora però, o Grasso, ti prego anche a nome mio: dal momento che abbiamo del tempo libero, in misura tale quale da molti anni non ci era capitato, non ti dispiaccia di portare a termine il lavoro che hai iniziato: mi accorgo infatti che lo schema dell’intera discussione è più bello e interessante di quanto non credessi, e lo apprezzo moltissimo [XXXVI] [165] In verità disse Crasso il mio stupore non ha limiti, quando vedo che anche tu, o Scevola, sei desideroso di conoscere queste nozioni, che io non quella conoscenza che hanno i maestri di retorica; e poi, se anche le conoscessi perfettamente, esse non sono degne della tua ben nota saggezza e della tua età. Dici davvero? riprese Scevola anche ammesso che alla nostra età non metta conto, come tu affermi, di ascoltare codeste nozioni trite e comuni, credi forse che noi possiamo trascurare quei concetti, che, come tu stesso hai detto, debbono essere conosciuti da un oratore, e che riguardano la natura degli uomini, la morale, i metodi che servono ad eccitare e a calmare gli animi degli uomini, la storia, l’antichità, il governo dello Stato e infine il nostro stesso diritto civile? Io sapevo che la tua vasta cultura possedeva tutta questa dottrina e tanta ricchezza di nozioni; però non avevo mai visto nel bagaglio culturale di un oratore una così larga messe di conoscenze. [166] Potresti dunque, rispose Grasso, per trascurare altri innumerevoli e importanti casi e per tornare al tuo diritto civile, stimare oratori quegli uomini che coi loro discorsi fecero perdere parecchie ore a P Scevola, che ascoltava divertito, ma nello stesso tempo disgustato, perché aveva fretta di correre al Campo di Marte? Da una parte Ipseo con voce tonante e con un fiume di parole si sforzava di ottenere dal pretore M Crasso, che colui che egli difendeva perdesse la causa; dall’altra Cn Ottavio, un ex-console, con un discorso non meno lungo, cercava di opporsi a che l’avversario perdesse la causa e il suo cliente fosse liberato dall’infamante condanna di una cattiva tutela e da ogni fastidio, a causa della stoltezza dell’avversario.
[167] Publio mi raccontò il fatto, disse Mucio, me ne ricordo bene: io veramente riterrei costoro indegni non solo di essere chiamati oratori, ma anche di frequentare il foro. E Crasso disse: eppure a quegli avvocati non mancava la facondia, né l’arte del dire o la facilità di parola, ma la conoscenza del dirìtto civile: infatti uno, intentando un processo, chiedeva più di quanto concedeva la legge delle XII Tavole (e se l’avesse ottenuto avrebbe perso la causa), l’altro riteneva ingiusto che si pretendesse da lui più di quanto era oggetto del processo (e non capiva che l’avversario avrebbe perso la causa, se tale fosse stato il risultato del processo). [XXXVII][168] E che? In questi ultimi giorni, mentre sedevo nel tribunale del pretore urbano Q Pompeo, mio amico, non mi è toccato di sentire un avvocato, che passa per i più facondi, che si batteva affinché al suo cliente, citato per il pagamento di un debito, fosse concessa l’antica e solita eccezione della somma che spettava fino a quel giorno? Egli non capiva che questa eccezione era stata escogitata in vantaggio del creditore, affinché, se un cattivo pagatore avesse provato davanti al giudice che il pagamento veniva richiesto prima della scadenza, il creditore non fosse impedito nel suo diritto dal fatto che la cosa era già passata in giudicato. [169] Che cosa dunque si può fare o dire di più vergognoso del fatto che colui, che si è assunto il còmpito di difendere gli amici nei dibattimenti e nei processi, soccorrere chi è in pericolo, aiutare gli sventurati, sollevare gli oppressi, fallisca nelle cose più semplici e più facili, in modo da sembrare agli uni degno di compassione, agli altri di riso? [170] In verità io stimo il mio parente P Crasso, per molte ragioni uomo colto e di buon gusto; ritengo però che debba essere lodato ed esaltato soprattutto per questo: quando parlava col fratello P Scevola, gli soleva ripetere che non avrebbe potuto avere successo nel diritto civile, se non fosse divenuto abile oratore (il che, a dire il vero, suo figlio , che è stato mio collega nel consolato, ha pienamente conseguito), aggiungendo che egli stesso aveva iniziato la trattazione delle cause degli amici solo dopo aver appreso il diritto civile. [171] E che dire poi di quel famoso Catone? Non raggiunse il culmine dell’eloquenza, quel culmine che permettevano quei tempi e quella generazione, e non fu nello stesso tempo il più esperto di tutti nel diritto civile? Da un pezzo parlo con una certa titubanza su questo argomento, perché qui con noi c’è un uomo che ha raggiunto la perfezione nell’arte del dire, un oratore che io ammiro più di ogni altro; e costui purtroppo ha sempre disprezzato il diritto civile. [172] Però dal momento che avete voluto conoscere il mio pensiero e i miei convincimenti, non vi nasconderò nulla e vi esporrò nel modo che mi sarà possibile ciò che penso su ciascuna questione.
[XXXVIII] La forza d’ingegno di Antonio che è veramente incredibile, quasi unica e divina, sembra che possa facilmente sostenersi e difendersi cogli altri sussidi offerti dalla dottrina, anche se è priva di questa scienza dcl diritto civile; facciamo quindi un’eccezione per lui; in quanto agli altri però, io non esiterei a condannarli come colpevoli innanzi tutto di pigrizia e in secondo luogo d’impudenza; [173] infatti correre di qua e di là per il foro, non staccarsi mai dal tribunale e dai seggi dei pretori, sedere come giudice privato in cause di grande importanza, in cui spesso si discute non su un fatto, ma su problemi di equità e giustizia, assidersi pomposamente nei tribunali centumvirali, dove si trattano processi di usucapioni, tutela, gentilità, agnizioni, alluvioni , circolluvioni, obbligazioni schiavi , pareti, stillicidi, testamenti nulli o validi e altre innumerevoli questioni, ignorando completamente che cosa sia proprietà nostra e proprietà altrui, su quale fondamento, infine, uno sia cittadino o forestiero, schiavo o libero, è indizio di una solenne sfacciataggine. [174] Fa proprio ridere la presunzione cli colui che confessa di non sapere guidare una piccola imbarcazione, ma di conoscere l’arte di guidare una quinquereme o una nave ancora più grande. Tu stipuli un contratto di poco conto, in un piccolo crocchio, e ti fai mettere nel sacco dall’avversario, oppure firmi dei documenti del tuo cliente, ove stanno scritte clausole che danneggiano il cliente stesso: ed io dovrei ammettere che ti debba essere affidata una causa di una certa importanza? Sarebbe più facile, per uno che ha lasciato affondare nel porto una navicella di due scalini, sedere ai governo della nave degli Argonauti nel Ponto Eusino. [175] E che? Se non solo le cause di poco conto, ma spesso anche le cause di grande importanza sono basate sul diritto civile, con quale coraggio un avvocato si presenterà a discutere quelle cause senza alcuna conoscenza di tale diritto? Quale causa si può pensare più importante di quella di quel noto soldato? Dal campo era arrivata a casa la falsa notizia della sua morte; il padre prestando fede alla notizia, mutò il testamento e nominò erede un altro, a suo piacere; dopo che questi morì, tornò a casa il soldato, la questione fu portata davanti al tribunale dei centumviri vedendosi il soldato diseredato in base al testamento, intentò un procedimento legale per entrare in possesso dell’eredità paterna. Certo quella causa era interamente basata sul diritto civile, se cioè un figlio poteva essere diseredato dei beni paterni, quando il padre non l’aveva espressamente nominato nel testamento né come erede né come diseredato. [XXXIX] [176] E che? Su quella causa tra Marcelli e Claudii patrizi, che fu discussa davanti al collegio dei centumviri, in cui i Marceffi reclamavano l’eredità del figlio di un liberto per diritto di stirpe, e i Claudii patrizi per diritto di gente, forse che in essa gli avvocati non dovettero basare le loro arringhe interamente sull’interpretazione del diritto di stirpe e di gente? [177] E che? Che di quell’altra causa che, come sappiamo, fu pure discussa davanti ai tribunale dei centumviri, quando un forestiero giunse in esilio, a Roma al quale gli era stato concesso il diritto di esilio, se avesse trovato uno che avesse esercitato per lui le funzioni direi quasi di patrono; muore senza fare testamento: nella causa che ne seguì non dovette l’avvocato discutere e illustrare, durante il dibattito, il diritto di applicazione, un diritto davvero oscuro e sconosciuto? [178] E che? Quando io recentemente mi trovai a difendere la causa di C Sergio Orata contro questo nostro Antonio, in un giudizio privato, tutto il nostro discorso di difesa non fu imperniato sul diritto? Avendo infatti M Mario Gratidiano venduto una casa ad Orata e avendo taciuto che su una parte di quella casa gravava una servitù, io sostenevo il principio che, qualora su un oggetto venduto fosse gravata una servitù, il venditore che fosse stato al corrente della cosa e non l’avesse dichiarato, sarebbe stato responsabile.
[179] A questo proposito il nostro amico M Buculeio, un uomo, a mio giudizio, tutt’altro che sciocco, che crede di essere molto dotto e non disdegna lo studio del diritto, recentemente ha commesso un errore in una questione pressa poco identica: infatti vendendo una casa a L Fufio, nel contratto di vendita ne garantì la vista così come era allora; quando in una certa zona della città, che poteva appena essere vista da quella casa, si iniziò la costruzione di un fabbricato, Fufio citò sùbito in giudizio Buculeio, perché riteneva che la vista veniva alterata, qualunque fosse la parte di cielo che veniva coperta, e benché si trattasse di una costruzione lontana. [180] E che altro? E di quella famosissima causa di Manio Curio e di Marco Coponio, che è stata recentemente discussa davanti al collegio dei centumviri, davanti a quanta gente si svolse il dibattimento, quale interesse esso suscitò! Q Scevola, mio coetaneo e collega, il più dotto tra tutti nella conoscenza del diritto civile, d’ingegno e accorgimento acutissimi, uomo di un’eloquenza elegantissima e precisa e, come soglio spesso dire, il più eloquente tra tutti i conoscitori di diritto e il più dotto conoscitore di diritto tra tutti gli oratori, sostenendo il diritto testamentario, che interpretava alla lettera, affermava che un uomo nominato erede al posto di un figlio postumo nato e poi morto prima di uscire di tutela, non ha diritto a tale eredità, se il figlio postumo non sia nato e quindi non sia morto ;io invece sostenevo che la volontà del testatore era stata questa, che qualora non avesse avuto un figlio che fosse vissuto fino a uscire di tutela, i suoi beni andassero a Manio Curio, forse che entrambi in quella causa ci stancammo di addurre pareri espressi da altri giureconsulti, di ricordare casi analoghi, di ricorrere alla forma solenne dei testamenti; in altre parole di rimestare tutto il diritto civile? [XL][181] Potrei addurre infiniti esempi di cause importantissime, ma preferisco rinunziarvi: spesso può capitare che cause, che investono la nostra vita di cittadini, siano interamente basate su questioni di diritto. Il capo del collegio dei Feciali aveva consegnato ai Numantini, per ordine del Senato, C Mancino, un galantuomo di nobile stirpe ed ex-console, per avere costui conchiuso coi Numantini un patto odioso e siccome costoro lo respinsero, egli tornò in patria ed ebbe il coraggio di partecipare all’adunanza del Senato e allora il tribuno della plebe P Rutilio, figlio di Marco, lo fece espellere, negandogli la prerogativa di cittadino romano: egli infatti affermava che, per tradizione, colui che era stato venduto dal padre o dal popolo o consegnato dal capo dei Feciali, perdeva la propria prerogativa di cittadino, [182] quale processo, quale dibattimento noi potremmo incontrare in tutta la nostra vita civile più importante di quello in cui si discute del grado, dei diritti di cittadinanza, della libertà, dell’esistenza civile di un ex-console, specialmente quando questo processo non si basa su un delitto, che l’imputato può anche negare di avere commesso, ma su una questione di diritto civile? Ecco un altro esempio simile, ma riguardante una persona di grado sociale inferiore, se un tale appartenente a una città federata vive come schiavo a Roma, ottiene la libertà e torna in patria: si è discusso presso i nostri antenati se costui, tornando in patria, può essere reintegrato nei suoi primitivi diritti di cittadino e perdere la cittadinanza romana.
[183] E che? In base al diritto civile noi siamo soliti discutere perfino intorno alla libertà, che è la decisione più importante tra tutte: infatti quando un tale è iscritto nelle liste degli uomini liberi per volontà del suo padrone, ci domandiamo se egli è libero sùbito, oppure dopo che è stato compiuto il solenne sacrificio che conclude il censimento. E che dire? Quel fatto accaduto al tempo dei nostri padri, quando un padre di famiglia era venuto a Roma dalla Spagna, dove aveva lasciato la moglie incinta; a Roma si era unito a un’altra donna, senza inviare alla prima moglie formale dichiarazione di divorzio; muore senza fare testamento; nasce un bambino da ciascuna delle due donne, forse vi sembra una questione di poco rilievo quella che ne nacque, poiché si discusse sui diritti civili di due persone, cioè dcl bimbo nato dalla seconda donna e di sua madre, che, se si stabilisse che il divorzio dalla precedente moglie avviene sulla base di determinate formule giuridiche, e non per via di un nuovo matrimonio, sarebbe da considerare una concubina. [184] Non vi sembra che raggiunga il culmine della sfrontatezza quell’uomo che, senza conoscere tali o simili questioni di diritto del proprio paese, si aggiri di qua e di là per il foro, con un lungo codazzo di ammiratori, tronfio ed eretto, con la faccia tosta e petulante, lanciando occhiate a destra e a sinistra, e offrendo ostentatamente soccorso ai clienti, aiuto agli amici e la luce del suo ingegno e della sua saggezza direi quasi a tutti i concittadini