Traduzione De optimo genere oratorum, Cicerone, Versione di Latino, Parte 11-15

Traduzione in italiano del testo originale in Latino, parte 11-15, dell'opera De optimo genere oratorum di Marco Tullio Cicerone

Traduzione De optimo genere oratorum, Cicerone, Versione di Latino, Parte 11-15
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DE OPTIMO GENERE ORATORUM: TRADUZIONE DELLA PARTE 11-15

[11] Perciò dal momento che si è diffuso il discorso di taluni, che loro solamente parlano in parte alla maniera degli Attici, che nessuno di noi in parte lo fa, trascuriamo gli altri; infatti per costoro risponde in modo sufficiente il fatto stesso di non essere chiamati ad una causa o, se chiamati, d’essere derisi; se vengono derisi, questo sarebbe proprio degli Attici. Ma quelli che non vogliono essere detti da noi di gusto attico, essi stessi ammettono di non essere oratori, se hanno orecchio fine ed un giudizio competente, così come vengono chiamati a giudicare un dipinto anche se ignari del dipingere e del giudicare con competenza; [12] Se poi pongono la competenza in una schizzinosità d’orecchio e nulla eccelso e magnifico li aggrada, dicano pure di volere qualcosa di fine ed elegante, ma di disprezzare ciò che è ispirato e di bellezza adorno; e quindi la smettano di dire che parlano alla maniera degli Attici solo coloro che parlano semplicemente, per così dire in modo secco e schietto. E proprio degli Attici invece parlare con schiettezza ma anche con ampiezza, ornamenti, abbondanza. E quindi? C’è il dubbio che noi desideriamo che il nostro discorso sia soltanto accettabile o sia anche degno di ammirazione? Infatti noi non cerchiamo che sia il parlare alla maniera degli Attici, ma quale sia il modo migliore di parlare. [13] Da questo si comprende, dal momento che i più insigni oratori greci sono quelli che furono in Atene, e di essi poi senza dubbio il primo fu Demostene, che se qualcuno lo imitasse, parlerebbe sia alla maniera attica sia nel migliore dei modi, e, poiché gli Attici sono stati proposti da noi per imitarli, il parlar bene sarebbe il parlar attico. [V] Ma essendoci un grave errore in ciò, a proposito del carattere di codesto modo di parlare, ho pensato di sostenere una fatica utile agli studiosi ma non davvero necessaria. [14] Ho infatti tradotto dai due più eloquenti oratori Attici due discorsi famosissimi e con tesi antitetiche, di Eschine e di Demostene; e non ho tradotto come un interprete ma come un oratore, con le medesime espressioni e con i modi e le figure retoriche di queste, con un lessico appropriato alla nostra consuetudine. In essi non ho reputato necessario rendere parola per parola, ma ho conservato ogni carattere ed ogni efficacia espressiva delle parole. Poiché non ho reputato opportuno per il lettore dargli, soldo su soldo, una parola dopo l’altra, ma piuttosto sdebitarmene in solido. [15] Questa mia fatica raggiunge questo risultato, ovvero che i nostri uomini comprendano cosa pretendono da quelli, che vogliono essere Attici, e a quale formula di eloquenza li richiamano. Ma verrà fuori Tucidide; taluni ne ammirano l’eloquenza. E ciò va bene; ma quell’oratoria che noi indaghiamo non ha nulla a che vedere con lui. Una cosa è infatti raccontare le imprese in una narrazione, altra cosa è accusare adducendo delle prove o vanificare l’accusa; altro è interessare l’ascoltatore con la narrazione, altro infiammandone laniamo.

E poi parla bene

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