Traduzione De officiis, Cicerone, Versione di Latino, Libro 03; 01
Traduzione in italiano del testo originale in Latino del Libro 03; parte 01 dell'opera De officiis di Marco Tullio Cicerone
DE OFFICIIS: TRADUZIONE DEL LIBRO 03; PARTE 01
Catone, che gli fu quasi coetaneo, scrisse che Publio Scipione, quello che per primo fu soprannominato l'Africano, era solito dire di non essere mai meno ozioso di quando era ozioso, e mai meno solo di quando era solo. Parole veramente magnifiche e degne di un uomo grande e saggio; esse dimostrano che nei periodi di riposo egli pensava agli affari e quando era solo era solito parlare con se stesso, sicché non gli mancava mai un'occupazione e talora non aveva bisogno di colloquiare con un altro. Cosi queste due situazioni, l'ozio e la solitudine, che arrecano agli altri fiacchezza, gli erano di stimolo. Vorrei che fosse lecito dire, con verità, lo stesso di me; ma se posso raggiungere in minor grado una si grande elevatezza d'ingegno con l'imitazione, certamente con l'intenzione mi ci avvicino molto di più. Infatti tenuto lontano dalla vita politica e dagli affari forensi dalla violenza delle armi sacrileghe, sono costretto a vivere in ozio e per questo motivo, lasciata la città, vagando per i campi spesso sono solo. Ma né quest'ozio si può paragonare con quello dell'Africano, né questa mia solitudine con quella; egli, per ricrearsi dagli importantissimi affari dello Stato, di quando in quando si prendeva un periodo di riposo e dalle assemblee e dagli affollamenti cittadini si rifugiava talora nella solitudine come in un porto; il mio ozio, invece, è causato non dal desiderio di riposo, ma dalla mancanza di affari. Sparito, ormai, il senato e distrutti i tribunali, che cosa c'è che io possa fare, degno di me, nella curia e nel foro. Pertanto io, che vissi un tempo assai frequentemente in pubblico e sotto gli occhi dei cittadini, ora, fuggendo la vista degli sciagurati, dei quali è pieno ogni luogo, mi nascondo quanto è possibile e spesso sono solo. Ma poiché ho imparato dai filosofi non solo che tra i mali conviene scegliere i minori, ma anche trarre da essi stessi ciò che possono contenere di buono, perciò mi avvalgo di questa tranquillità non quella, in verità, che dovrebbe avere un uomo che un tempo ha procurato la tranquillità alla patria e non mi lascio prostrare da quella solitudine che mi è imposta dalla necessità, non dalla mia volontà. Comunque l'Africano conseguì, a mio parere, una gloria maggiore. Non resta alcuna testimonianza scritta del suo ingegno, nessuna opera elaborata nel periodo di riposo, nessun frutto della sua solitudine; da ciò si deve arguire che egli, per il suo fervore intellettuale e per la ricerca di quelle verità che raggiungeva col pensiero, non fu mai ozioso e mai solo; io, invece, che non ho tanto vigore da astrarmi dalla solitudine con una silenziosa meditazione, ho rivolto tutto il mio interesse e la mia attenzione a quest'attività dello scrivere: perciò in poco tempo ho scritto più opere dopo la caduta della repubblica, che in molti anni, quando essa era in piedi.
Ma benché tutta la filosofia, o mio Cicerone, sia utile e fruttuosa, e nessuna sua parte sia incolta e trascurata, tuttavia nessuna sezione è più fertile e più ricca di quella che si occupa dei doveri, dalla quale sono dedotti i precetti di una vita coerente ed onesta. Perciò, pur fiducioso che tu assiduamente senta ed impari queste cose dal nostro Cratippo, il più insigne dei filosofi di quest'epoca, tuttavia penso che sia utile che le tue orecchie risuonino d'ogni parte di tali voci, e, se possibile, non odano alcun'altra tesi. Tutti coloro che pensano d'iniziare una vita onesta, debbono far questo, e non so se qualcuno lo debba più di te; tu ti sei sobbarcata la non piccola responsabilità dell'imitazione della mia attività, il grande impegno di imitare la mia carriera e la non lieve incombenza di imitare, forse, la mia gloria. Inoltre ti sei addossato un grave peso nei riguardi di Atene e di Cratippo; e poiché sei partito alla loro volta come verso un mercato di buone arti, sarebbe assai vergognoso ritornare a mani vuote, recando disonore al prestigio della città e del maestro. Perciò con quanto impegno intellettuale puoi, con quanti sforzi ti adoperi anche se quella di apprendere è una fatica piuttosto che un piacere fa in modo di riuscire e non metterti nelle condizioni di sembrare d'aver mancato a te stesso, dopo che io ti ho fornito ogni mezzo. Ma su ciò, basta; infatti molto frequentemente ti ho scritto per esortarti; ora ritorno all'ultima parte della divisione programmata. Panezio, dunque, che senza alcun dubbio ha disputato in modo molto preciso intorno ai doveri, e che io ho seguito in linea di massima, pur avendo apportato qualche correzione, fissa tre tipi di domande sulle quali gli uomini sono soliti riflettere e quindi decidere intorno al dovere: la prima, quando si è incerti se sia onesto o meno ciò di cui si tratta; la seconda se sia utile o no; la terza concerne il modo in cui ciò che ha l'apparenza dell'onesto contrasti con ciò che sembra utile: Panezio trattò in tre libri i primi due quesiti, del terzo scrisse, invece, che ne avrebbe parlato in seguito, ma non mantenne ciò che aveva promesso. La qualcosa mi meraviglia tanto maggiormente, in quanto il suo discepolo Posidonio ha scritto che Panezio visse altri trent'anni dopo la pubblicazione di quei libri. Mi stupisce che la questione sia stata toccata di sfuggita da Posidonio in certe sue memorie, specialmente perché scrive che in tutta quanta la filosofia non c'è alcun argomento altrettanto fondamentale. In verità io non sono per niente d'accordo con quanti affermano che quel punto non sia stato trascurato da Panezio, ma piuttosto abbandonato di proposito, e che non lo si dovesse affatto svolgere, perché l'utile non può mai contrastare con l'onesto; intorno a ciò può sorgere il dubbio, se si dovesse accogliere la categoria, che nella divisione di Panezio occupa il terzo posto, o si dovesse omettere del tutto; ma non si può dubitare che la questione sia stata sollevata da Panezio, ma poi trascurata.
Infatti a chiunque abbia svolto due parti su tre della materia che ha così suddiviso, necessariamente resta la terza parte; inoltre alla fine del terzo libro egli promette di svolgere in seguito questa parte. A ciò s'aggiunge come inoppugnabile testimone Posidonio, il quale scrive anche in una lettera che Publio Rutilio Rufo, che era stato discepolo di Panezio, soleva dire che, come non si era trovato alcun pittore capace di completare quella parte nella Venere di Coo che Apelle aveva lasciato incompiuta infatti la bellezza del viso toglieva la speranza di imitarla nel resto del corpo, così quelle parti che Panezio aveva trascurato e non aveva compiuto nessuno le aveva completate a causa dell'eccellenza di quelle che aveva portato a termine. Per questo motivo non si può dubitare delle intenzioni di Panezio; si potrà forse discutere se a giusta ragione oppure no abbia aggiunto questa terza parte per trattare a fondo il dovere: infatti, vuoi che l'onesto sia il solo bene, come ritengono gli Stoici, vuoi che, come sembra ai vostri Peripatetici, ciò che è onesto sia il sommo bene sicché tutti gli altri beni posti nell'altre piatto della bilancia abbiano appena un piccolissimo peso , non si deve mettere in dubbio che l'utile non possa mai essere in conflitto con onesto. Perciò sappiamo che Socrate era solito contestare violentemente quelli che per la prima volta avevano operato una distinzione teorica tra questi concetti, per natura collegati tra di loro. In realtà gli Stoici furono talmente d'accordo con lui, da ritenere che tutto ciò che è onesto è utile, e non è utile ciò che non è onesto. E se Panezio fosse un uomo tale da affermare che la virtù si deve praticare proprio perché essa è produttrice di utilità, come quelli che misurano le cose da desiderare o in base al piacere o in base alla assenza di dolore, sarebbe possibile per lui affermare che l'utilità contrasta qualche volta con l'onestà. Ma poiché egli è tale che giudica unico bene ciò che è onesto, e ritiene che le cose in contrasto con l'onesto, pur con una certa apparenza di utile, non rendano la vita migliore con il loro apporto, né la rendano peggiore con la loro mancanza, perciò non sembra che egli avrebbe dovuto introdurre un discorso di tal genere, nel quale ciò che sembra utile viene messo a paragone con ciò che è onesto. Infatti ciò che è chiamato dagli Stoici il sommo bene il vivere secondo natura ha questo significato, secondo il mio parere, di conformarsi sempre alla virtù e a tutte le altre cose che sono secondo natura, di sceglierle in quanto non siano in contrasto con la virtù. Poiché la questione sta in tali termini, alcuni ritengono che questa comparazione sia stata introdotta senza una giusta ragione e che, quindi, non si dovrebbero dare affatto insegnamenti. Inoltre quella onestà ideale, si afferma con giusta proprietà, si trova nei soli sapienti e non può mai essere disgiunta dalla virtù.
In coloro, invece, nei quali la sapienza non è perfetta, non è in alcun modo perfetta neppure quella stessa onestà, ma vi possono essere elementi ad essa somiglianti. Questi doveri, appunto, di cui sto trattando in questi libri, gli Stoici li chiamano mediani relativi; sono doveri comuni e si estendono in ogni campo, e molti giungono a conoscerli per mezzo della bontà della loro indole e per progressiva educazione; invece quel dovere che chiamiamo retto è perfetto ed assoluto e, come dicono essi stessi, ha tutti i pregi e non si può trovare in alcun altro tranne che nel sapiente. Quando però si compie qualche azione nella quale si presentino i doveri di mezzo relativi, essa sembra assolutamente perfetta, proprio perché la gente comune in genere non comprende quanto sia lontana dalla perfezione e, fino al punto in cui arriva la sua intelligenza, non pensa di aver trascurato niente; l'identica cosa è divenuta usuale in fatto di poesia, di dipinti e in molti altri campi, sicché i profani traggono diletto e apprezzano quelle cose che non devono essere apprezzate, per il motivo credo che è insito in esse un qualcosa di onesto, che affascina gli inesperti, i quali d'altra parte non possono giudicare i difetti propri di ciascuna opera. Perciò, quando sono illuminati da esperti, facilmente cambiano la loro opinione. Questi doveri, dunque, dei quali sto discutendo in questi libri, sono secondo gli Stoici cose oneste di secondo grado, non proprie solamente dei sapienti, ma comuni a tutto il genere umano. Perciò tutti coloro nei quali vi è una naturale propensione alla virtù, ne sono attratti. Infatti, quando si ricordano come uomini coraggiosi i due Deci o i due Scipioni, o quando si dà l'appellativo di giusto a Fabrizio o ad Aristide, non si richiede un esempio da quelli di fortezza o da questi di giustizia come da un sapiente; giacché nessuno di questi fu sapiente a tal punto da corrispondere al nostro modello di sapiente, né quelli che furono ritenuti e chiamati sapienti, Marco Catone e Gaio Lelio, furono veramente tali, e neppure i famosi sette, ma dall'applicazione assidua dei doveri relativi avevano una certa somiglianza e apparenza di sapienti. Per questo non è lecito paragonare con ciò che si oppone all'utile quanto è veramente onesto, e neppure quanto chiamiamo comunemente onesto, che è praticato da quelle persone che vogliano esser ritenute oneste, si deve mai paragonare coi vantaggi materiali; si deve difendere e conservare da parte nostra tanto quell'onesto che rientra nell'ambito della nostra intelligenza, quanto quello che è detto con proprietà e verità, onesto da parte dei sapienti; altrimenti non è possibile conservare gli eventuali progressi compiuti sulla via della virtù. Ma questi suggerimenti riguardano coloro che sono stimati buoni per l'adempimento continuo dei loro doveri. Coloro che, al contrario, misurano ogni cosa in base al guadagno o al vantaggio personale e non vogliono che l'onestà abbia il sopravvento su ciò, sono soliti, nel prendere una decisione, mettere a confronto l'onesto con ciò che ritengono utile, mentre gli uomini onesti non sono soliti farlo.
Perciò ritengo che Panezio, quando ha detto che gli uomini sono soliti esitare in questo confronto, abbia inteso proprio questo che ha detto, cioè che sono soliti solamente, e non anche debbono. Infatti è oltremodo immorale non solo stimare di più ciò che sembra utile di ciò che è onesto, ma anche paragonare questi concetti tra di loro ed avere dei dubbi in proposito. Ma che cos'è, dunque, ciò che talvolta ci suole far dubitare e ci sembra degno di considerazione. Credo, se qualche volta sorge il dubbio, che esso riguardi la natura delle cose su cui si riflette. Spesso, infatti, accade che, mutate le circostanze, ciò che siamo soliti stimare per lo più immorale, si trova che non è tale. Per esempio, si ponga un caso che è suscettibile della più ampia applicazione. Quale delitto può essere più grande dell'uccidere non solo un uomo, ma anche un intimo amico. Forse qualcuno si rende colpevole di un delitto, se uccide un tiranno, anche se suo intimo amico. Ciò non sembra al popolo romano, che anzi considera quell'azione la più bella tra tutte le altre illustri. L’utile, dunque, ha prevalso sull'onesto. No; anzi, l'utile ha seguito l'onesto. Perciò, per poter distinguere senza ombra di errore, quando talora ci sembra che quanto chiamiamo utile contrasti con quanto riteniamo onesto, occorre stabilire una norma tale da non allontanarci mai dall'onesto se noi l'applicheremo nel mettere a confronto le azioni. Questa norma sarà pienamente conforme alle teorie della dottrina Stoica: e la seguiamo in questi libri per il fatto che, sebbene anche gli antichi Accademici e i vostri Peripatetici, che una volta erano tutt'uno con gli Accademici, antepongano ciò che è onesto a ciò che sembra utile, tuttavia questi argomenti sono trattati in maniera molto più elevata da quelli che identificano l'utile con l'onesto e negano che sia utile ciò che non è onesto, anziché da quelli secondo i quali qualche cosa onesta non è utile e qualche cosa utile non è onesta. Quanto a noi, la nostra Accademia ci dà ampie possibilità di difendere, a pieno diritto, qualsiasi tesi ci si presenti in sommo grado probabile. Ma ritorno alla norma. Dunque, che un uomo sottragga qualcosa ad un altro e aumenti il proprio vantaggio con lo svantaggio di un altro è contro natura più della morte, della povertà, del dolore e di tutti gli altri mali che possono accadere al corpo o ai beni esterni: ciò infatti mina alle basi la convivenza umana e la società: se infatti saremo così disposti da spogliare o violare un altro a causa del suo guadagno, di necessità si disgrega quella che è soprattutto secondo natura, cioè il legame tra gli uomini. Come se ciascun membro umano avesse una tale sensibilità, da pensare di poter star bene, coll'aver tratto a sé la salute del membro più vicino, sarebbe necessariamente indebolito e perirebbe l'intero corpo, così, se ciascuno di noi si appropriasse dei profitti degli altri e sottraesse quanto gli fosse possibile a ciascuno per il proprio guadagno, la società umana e la comunità necessariamente sarebbero sovvertite.
Infatti che ciascuno preferisca acquistare per sé ciò che riguarda l'uso della vita anziché per un altro, lo si è ammesso, poiché non si oppone la natura; ma la natura non sopporta che con le spoglie degli altri aumentiamo le nostre sostanze, ricchezze e potenza. E d'altra parte questo non è stato stabilito solamente dalla natura, cioè dal diritto delle genti, ma anche dalle leggi dei popoli, sulle quali si fonda lo Stato nelle singole città, perché non sia permesso nuocere ad altri per il proprio vantaggio. A questo, infatti, mirano le leggi, questo è il loro scopo, che sia salva ed integra l'unione dei cittadini, e puniscono coloro che la rompono con la morte, l'esilio, la prigione e le multe. E questo principio è molto più un prodotto della stessa razionalità naturale, che è legge divina ed umana; colui che volesse obbedirgli in verità dovranno obbedire tutti gli uomini che vivono secondo natura non si renderà mai colpevole di desiderare la proprietà altrui e di prendere per sé ciò che abbia sottratto ad altri. Infatti sono molto di più secondo natura l'elevatezza d'animo e la grandezza, ed ugualmente l'affabilità, la giustizia, la generosità, che non il piacere, la vita e le ricchezze: è proprio di un animo grande ed elevato disprezzare questi beni e ritenerli cose di nessun valore a confronto dell'utile comune. Sottrarre, invece, ad un altro a causa del proprio vantaggio è più contro natura della stessa morte, del dolore e delle altre calamità simili. Allo stesso modo è più secondo natura, per conservare ed aiutare se possibile tutte le genti, sobbarcarsi le più grandi fatiche e disagi, ed imitare il famoso Ercole, che la fama degli uomini, memore dei benefici ricevuti, collocò nel consesso degli dei; è molto meglio, dunque, tutto questo che vivere in solitudine non solo senza alcun affanno, ma anche tra i più raffinati piaceri, ricchi di ogni sorta di beni, sì da eccellere anche in bellezza ed in forza. Perciò ogni persona fornita di un'indole assai nobile e superiore, preferisce di gran lunga quella vita a questa; da ciò si deduce che l'uomo che obbedisca alla natura non può nuocere ad un altro uomo. Inoltre colui che fa del male ad un altro per conseguire qualche vantaggio, o ritiene di non far niente contro natura o giudica che si debbano piuttosto tenere a distanza la morte, la povertà, il dolore, la perdita anche dei figli, dei parenti, degli amici, anziché recare offesa a qualcuno. Se crede di non compiere niente contro natura col far violenza agli uomini, a che pro discutere con una persona che sopprime completamente l'umanità nell'uomo. Se invece pensa che si debba evitare ciò, ma che siano molto peggiori i mali, come la morte, la povertà, il dolore, sbaglia in questo, che ritiene più gravi dei difetti dell'animo quelli riguardanti il corpo o la fortuna.
Uno solo, dunque, deve essere lo scopo di tutti: che coincida l'utile individuale con quello di tutti, in quanto se ciascuno se lo arrogherà, tutta la società umana andrà in frantumi. E anche se la natura prescrive che l'uomo provveda ad un altro uomo, qualunque esso sia, per il fatto stesso che è uomo, ne consegue necessariamente, secondo la stessa legge di natura, che l'utilità di ogni individuo coincide con quella comune. E se le cose stanno così, noi tutti siamo regolati da un'unica e medesima legge di natura, e se è proprio cosi, certamente la legge di natura ci proibisce di far violenza ai nostri simili. Vera la premessa, vera, dunque, la conseguenza. Infatti è certamente assurda quella frase che dicono alcuni, che essi non sottrarrebbero nulla al padre, o al fratello per il proprio vantaggio, ma che diverso è il criterio da seguire nei riguardi degli altri cittadini. Costoro pensano di non avere alcun vincolo giuridico o sociale, a causa dell'utile, con i propri concittadini, opinione, questa, che disintegra ogni società umana. Coloro, poi, i quali affermano che si deve avere considerazione per i concittadini, ma non per i forestieri, spezzano il comune vincolo sociale del genere umano, soppresso il quale, la beneficenza, la generosità, la bontà e la giustizia sono sradicate sin dalle fondamenta; e coloro che distruggono queste virtù devono essere giudicati empi anche verso gli dei immortali. Abbattono, infatti, proprio quella società stabilita dagli dei tra gli uomini, società il cui vincolo più saldo consiste nel ritenere che sia più contro natura che l'uomo sottragga all'uomo per il proprio vantaggio, piuttosto che subisca ogni danno o esterno o fisico o anche morale che mancano di giustizia: infatti questa sola è la signora e la regina di tutte le virtù. Forse qualcuno potrebbe dire: un sapiente, nel caso che fosse oppresso dalla fame, non potrebbe sottrarre del cibo ad un altro uomo, che non gli è di alcuna utilità. Nient'affatto, perché la mia vita non è per me più utile di una tale disposizione dell'animo, e cioè di non far violenza ad alcuno per un mio vantaggio personale. E allora. Se un uomo onesto, per non morire di freddo, potesse spogliare del vestito Falaride, tiranno crudele e disumano, forse che non lo farebbe. Per questi interrogativi è assai facile trovare una risposta. Infatti se tu avessi sottratto qualcosa ad un uomo che non è di alcuna utilità per il tuo particolare vantaggio, avresti compiuto un'azione disumana e contraria alla legge di natura; se invece tu fossi tale da poter apportare molto giovamento allo Stato e alla società umana, rimanendo in vita, se sottraessi ad un altro per quel motivo non saresti da biasimare. Ma se invece la motivazione non è di tal genere, ciascuno deve sopportare la propria situazione di svantaggio piuttosto che sottrarre qualcosa dai vantaggi di un altro. Non sono, dunque, contro natura la malattia, la povertà o altri mali simili, più che il sottrarre o il desiderare le cose altrui, ma è contro natura il trascurare l'utilità generale, perché è ingiusto.
Così sarà la stessa legge naturale, che conserva e assicura il benessere generale, a stabilire senza dubbio che i beni necessari alla vita siano passati dall'uomo incapace ed inutile all'uomo sapiente, buono e coraggioso, che, morendo, sottrarrà molto all'utilità generale, purché costui, avendo un alto concetto di sé ed amando troppo se stesso, non tragga da ciò il pretesto per compiere un'ingiustizia. Si compirà sempre il proprio dovere, provvedendo all'utilità degli uomini ed a quella società umana, che io spesse volte ricordo. Per ciò che riguarda, difatti, l'esempio di Falaride, la risposta è assai facile. Non sussiste per noi alcun rapporto sociale coi tiranni; piuttosto vi è un estremo distacco; non è contro natura se è possibile spogliare dei suoi beni colui che è addirittura onesto uccidere, e tutto questo genere pestifero ed empio deve essere sterminato dalla comunità umana. Infatti come si amputano certe membra, se esse cominciano a mancare di sangue e quasi di vita e nuocciono alle altre parti del corpo, cosi questa belva feroce e selvaggia dall'aspetto d'uomo deve essere allontanata, per così dire, dal corpo comune dell'umanità. Di tal genere sono tutte quelle questioni, nelle quali si studia il dovere in rapporto alle circostanze. Io credo, dunque, che Panezio avrebbe trattato simili questioni, se qualche evento o qualche occupazione non gli avessero impedito l'esecuzione di questo suo progetto. Per queste stesse questioni dai libri precedenti si deducono numerosi consigli, in base ai quali si può distinguere quale azione sia da evitare per la sua disonestà, e quale non si debba evitare proprio perché non è del tutto vergognosa. Ma poiché all'opera incominciata e quasi portata a termine sto per porre, per così dire, il tetto, come i geometri sono soliti non dimostrare ogni affermazione, ma chiedere che alcune siano loro concesse perché più facilmente possano spiegare il loro assunto, così io ti chiedo, o mio Cicerone, di concedermi, se lo puoi, questo, che non si deve desiderare niente di per se stesso tranne ciò che è onesto. Se invero ciò non ti è permesso, perché contrasta con le teorie di Cratippo, mi concederai sicuramente questo, che l'onesto si deve desiderare soprattutto per se stesso. A me basta o l'uno o l'altro; ed ora questo ora quello mi pare più probabile, ed inoltre non mi pare probabile alcun altro postulato. In primo luogo a questo proposito bisogna appoggiare Panezio, perché egli non ha affermato che l'utile possa contrastare talvolta con l'onesto e non gli era lecito dire ciò ma che possono contrastare con l'onesto quelle cose che hanno l'apparenza dell'utile. In verità spesso dichiara che non c'è niente di utile che non sia pure onesto, e niente di onesto che non sia pure utile, e dice che nessun male ha colpito maggiormente la vita degli uomini che la dottrina di quanti hanno distinto questi concetti. Perciò non per anteporre talvolta l'utile all'onesto, ma per giudicare, senza incorrere in errore, le cose utili nel caso che qualche volta ciò accadesse introdusse nel suo discorso quel contrasto apparente, ma non reale.
Esporrò, dunque, quest'ultima parte, senza alcun aiuto, ma, come si dice, con le mie sole armi. Infatti, dopo Panezio, non è stato formulato nulla, intorno a questa parte, che possa ottenere il mio consenso tra gli scritti che sono capitati nelle mie mani. Quando, dunque, ci si presenta qualche cosa apparentemente utile, inevitabilmente ne siamo impressionati; ma se, riflettendo, si vede la disonestà intrinsecamente legata a ciò che aveva l'apparenza dell'utilità, allora non è l'utile che si deve abbandonare, ma si deve comprendere che non vi può essere utilità là dove c'è la disonestà. Se non vi è niente tanto contro natura quanto la disonestà la natura, infatti, richiede rettitudine, armonia, coerenza e disprezza il contrario di queste qualità, e niente è tanto conforme a natura quanto l'utile; ne consegue che dove c'è l'utile non può esserci la disonestà. Allo stesso modo, se siamo nati per l'onestà e quella sola deve essere l'oggetto delle nostre aspirazioni come sembrò a Zenone o almeno deve esser ritenuta più importante di ogni altra cosa secondo il pensiero di Aristotele, necessariamente l'onesto o è il solo o è il sommo bene, e sicuramente ciò che è onesto è utile, e così qualsiasi azione onesta è anche utile. Perciò questo è l'errore degli uomini non onesti, che, quando si impadroniscono di qualche cosa che abbia l'apparenza dell'utile, subito la scindono dall'onesto. Di qui nascono i pugnali, i veleni, i falsi testamenti, di qui i furti, i peculati, le spogliazioni e le depredazioni degli alleati e dei concittadini, di qui sorge la cupidigia di eccessive ricchezze e di intollerabile potere e, infine, anche la bramosia di regnare nelle libere città, bramosia di cui niente si può immaginare di più infame e deprecabile. Essi vedono, infatti, con il loro erroneo giudizio il guadagno, e non il castigo, non dico quello delle leggi, che spesso riescono a spezzare, ma quello della stessa disonestà, che è assai aspro. Si tolgano, perciò, di mezzo tutte queste persone giacché sono tutte scellerate ed empie che si pongono il problema se seguire quello che vedono essere onesto o macchiarsi scientemente di un delitto; nello stesso dubbio è insita la colpa, anche se essi non vi sono giunti. Non bisogna, dunque, decidere nemmeno su argomenti il cui esame stesso è disonesto. Ugualmente in ogni decisione bisogna tener lontana la speranza e la convinzione di potersi nascondere e celarsi; dovremmo essere abbastanza convinti, se pure abbiamo fatto qualche progresso nello studio della filosofia, che, pur potendo tenere all'oscuro tutti gli dei e gli uomini, ciò nonostante non dobbiamo compiere niente per desiderio di guadagno, niente con ingiustizia, niente per passione o smoderatezza. Di qui trae l'origine il noto aneddoto di Gige introdotto da Platone: essendosi la terra spaccata per certe grandi piogge, Gige scese in quella voragine e scorse, come dicono le leggende, un cavallo di bronzo, che aveva ai fianchi delle porte; dopo averle aperte scorse il corpo di un uomo morto di grandezza mai vista, con un anello d'oro al dito; glielo tolse e se lo mise, poi si recò all'adunanza dei pastori era, intatti, pastore del re; lì, ogni volta che volgeva il castone dell'anello verso la palma della mano, diveniva invisibile a tutti, mentre egli era in grado di veder tutto; ritornava nuovamente visibile quando rimetteva l'anello al suo posto.
E così, servendosi dei poteri concessigli dall'anello, fece violenza alla regina e col suo aiuto uccise il re suo padrone, tolse di mezzo chi, a parer suo, gli si opponeva, e nessuno poté scorgerlo mentre compiva questi delitti. Così, tutto ad un tratto, grazie all'anello divenne re della Lidia. Se, dunque, il sapiente avesse questo stesso anello, penserebbe che non gli fosse lecito peccare più che se non l'avesse; i galantuomini, difatti, cercano l'onestà, non la segretezza. A questo proposito taluni filosofi, niente affatto mediocri, ma non abbastanza acuti, affermano che Platone ha riferito un aneddoto falso ed immaginario, quasi che egli sostenesse che ciò fosse avvenuto o potrebbe essere avvenuto. Ecco il significato di questo anello e di questo esempio: se nessuno dovesse venire a saperlo e non dovesse neppure sospettarlo, tu, compiendo qualche azione per desiderio di ricchezza, di potenza, di dominio, di piacere, lo faresti, se ciò fosse destinato a rimanere ignoto per sempre agli dei e agli uomini. Negano questa possibilità. Non è assolutamente possibile, ma io domando che cosa farebbero se fosse possibile ciò che essi dicono impossibile. Insistono in una maniera veramente da zotici. Dicono, infatti, che non è possibile, rimangono su questa posizione e non scorgono il significato di queste mie parole. Quando domandiamo, che cosa farebbero se lo potessero celare, non domandiamo se possano celarlo, ma adoperiamo nei loro confronti per così dire degli strumenti di tortura, perché, se rispondessero che, sotto assicurazione d'impunità, farebbero quanto loro conviene, ammettano implicitamente d'essere dei malfattori, se invece lo negassero, ammettano che tutte le azioni turpi debbono essere evitate di per se stesse. Ma ritorniamo, ormai, all'argomento. Si presentano spesso molte cause che turbano l'animo con l'apparenza dell'utile, non quando ci si chiede se si debba abbandonare l'onestà per le dimensioni dell'utilità giacché questo è disonesto, ma se si possa compiere in modo non disonesto ciò che sembra utile. Quando Bruto destituiva dalla sua carica il collega Collatino, poteva sembrare che, così facendo, si comportasse ingiustamente, perché egli, al periodo della cacciata della monarchia, era stato compagno di disegni e aiutante di Bruto. Ma poiché i capi presero la decisione di eliminare i parenti del Superbo e persino il nome dei Tarquini insieme al ricordo dei regno, quello che era utile, cioè il provvedere al bene della patria, era anche onesto, sì che Collatino stesso doveva approvarlo. E così l'utilità prevalse per la sua onestà, in assenza della quale non sarebbe stata possibile l'esistenza della utilità stessa. Ma nel caso del re fondatore della città la cosa andò diversamente. Il suo animo fu spinto dall'apparenza dell'utile: poiché gli era sembrato più utile regnare da solo piuttosto che con un altro, uccise il fratello. Egli mise da parte affetto ed umanità, per poter conseguire quanto sembrava utile e non lo era, e tuttavia tirò in ballo il pretesto del muro, un'apparenza d'onestà né approvabile né abbastanza idonea.
Commise, dunque, una colpa, potrei dirlo con buona pace di Quirino o di Romolo. Non dobbiamo, tuttavia, trascurare i nostri interessi e affidarli agli altri, quando noi stessi ne abbiamo bisogno, ma ciascuno deve preoccuparsi della propria utilità, se ciò avviene senza recare ingiustizia ad altri. Dice bene Crisippo, come al solito: Chi corre nello stadio, deve sforzarsi e lottare quanto più gli è possibile per vincere, ma non deve assolutamente sgambettare o allontanare con la mano il suo rivale: allo stesso modo nella vita non è ingiusto che ciascuno ricerchi ciò che riguarda le sue necessità, ma non è consentito sottrarlo ad un altro. In modo particolare, poi, c'è confusione tra i doveri nelle amicizie, perché è contrario al dovere non concedere agli amici quello che si potrebbe dare giustamente e concedere loro quanto non sarebbe giusto. Ma per tutta questa specie di casi c'è una regola breve e semplice: ciò che sembra utile, onori, ricchezze, piaceri ed altre cose simili, non deve essere mai anteposto all'amicizia. Ma un uomo onesto non compirà mai, per un amico, un'azione contraria allo Stato o a un giuramento o alla parola data, neanche se dovrà giudicare lo stesso amico, perché nell'indossare i panni di giudice deporrà quelli di amico. Concederà solo all'amicizia di preferire che la causa dell'amico sia giusta, di accordargli, entro i limiti della legge, il tempo occorrente per difendere la sua causa. Quando, però, dovrà pronunziare la propria sentenza sotto giuramento, si ricordi che prende a testimone la divinità, cioè, come io penso, la sua coscienza, della quale niente di più divino il dio stesso ha dato agli uomini. Pertanto ci è stata tramandata dai nostri antenati una formula bellissima, se ad essa ci attenessimo, per chiedere al giudice quello che egli possa fare, senza turbare la sua coscienza. Questa richiesta riguarda quello che, poco fa, ho detto che poteva essere concesso onestamente da un giudice all'amico; giacché se si dovesse fare tutto ciò che vogliono gli amici, non tali dovrebbero ritenersi le amicizie, ma congiure. Parlo delle amicizie comuni; tra gli uomini saggi e perfetti non può esserci, nulla di simile. Si dice che i Pitagorici Damone e Finzia furono talmente legati tra di loro che, avendo il tiranno Dionisio fissato il giorno dell' esecuzione per uno di essi, e avendo il condannato a morte chiesto pochi giorni per affidare i suoi alle cure di qualcuno, l'altro si fece garante della comparizione dell'amico, con la condizione che, se questi non fosse ritornato, egli sarebbe stato ucciso; l'amico tornò il giorno stabilito, e Dionisio, pieno d'ammirazione per la loro lealtà, chiese d'essere ammesso nella loro amicizia come terzo. Quando, dunque, si mette a confronto nell'amicizia ciò che sembra utile con ciò che è onesto, venga meno l'apparenza dell'utile e prevalga l'onestà. Quando, invece, nell'amicizia saranno richieste cose che non sono oneste, la coscienza e la lealtà siano preposte all'amicizia; così verrà fatta quella scelta dei doveri, su cui si sta indagando.
Ma spesso, nel governo dello Stato, si commettono errori sotto un'apparenza di utilità, come fecero i nostri nella distruzione di Corinto; ancor più duramente si comportarono gli Ateniesi, che decretarono il taglio del pollice per gli Egineti, forti sul mare. Questo parve utile, perché Egina, per la sua vicinanza, minacciava troppo il Pireo. Ma niente che sia crudele è utile; la crudeltà, difatti, è in particolar modo nemica della natura umana, che noi dobbiamo seguire. Agiscono male anche coloro che vietano agli stranieri di godere dei vantaggi della città e li bandiscono, come fece Panno presso i nostri antenati e Papio recentemente. E' giusto, difatti, che non sia lecito che venga attribuito il titolo di cittadino a chi non lo è, in base alla legge proposta da Crasso e Scevola, saggissimi consoli. Ma è del tutto incivile proibire agli stranieri di godere dei vantaggi della città. Belli sono quei casi in cui l'apparenza della utilità pubblica non è tenuta in alcun conto di fronte all'onestà. Il nostro Stato è pieno di frequenti esempi in molte occasioni e specialmente nella seconda guerra punica: dopo la disfatta di Canne mostrò un coraggio maggiore di quanto ne avesse dimostrato nei periodi favorevoli; nessun segno di timore, nessuna parola di pace. La forza dell'onesto è tale da oscurare l'apparenza dell'utilità. Quando gli Ateniesi non erano in grado di sostenere l'assalto dei Persiani e stabilirono di abbandonare la città, dopo aver lasciato le mogli e i figli a Trezene, e di salire sulle navi per difendere con la flotta la libertà della Grecia, lapidarono un certo Cirsilo, che li invitava a rimanere in città e ad accogliere Serse. Sembrava che egli avesse come obiettivo l'utilità, ma essa era inesistente, perché l'onestà le si opponeva. Temistocle, dopo la vittoria nella guerra contro i Persiani, disse nell'assemblea di avere un consiglio salutare per lo Stato, ma che non era opportuno venisse conosciuto: chiese che il popolo gli desse qualcuno da rendere partecipe di tale consiglio: venne designato Aristide. Egli gli disse che si poteva incendiare di nascosto la flotta spartana, all'ancora a Giteo, cosa che avrebbe inevitabilmente infranto le risorse degli Spartani. Dopo che Aristide ebbe udito ciò, si recò nell'assemblea tra l'aspettazione generale e disse che il consiglio di Temistocle era utilissimo ma per nulla onesto. Così gli Ateniesi non ritennero neanche utile ciò che non era onesto e dietro consiglio di Aristide rifiutarono un progetto che neppure conoscevano. Meglio essi di noi, che lasciamo sani e salvi i pirati e riscuotiamo tributi dagli alleati. Sia ben chiaro, dunque, che quanto è immorale non può mai essere utile, neppure quando si consegue ciò che si crede utile; è, difatti, dannoso persino lo stimare utile ciò che è immorale. Ma, come ho detto sopra, vi sono dei casi in cui l'utilità sembra in conflitto con l'onestà, cosicché occorre considerare se sia veramente in contrasto o possa venire identificata con l'onestà.
Ecco i problemi di questo tipo: se, per esempio, un uomo onesto avesse importato da Alessandria a Rodi una grande quantità di frumento in un periodo di miseria e di carestia dei Rodiesi e di prezzi altissimi, e venisse a sapere che parecchi mercanti sono salpati da Alessandria e, lungo la rotta, avesse visto navi cariche di frumento dirigersi verso Rodi, dovrebbe dirlo ai Rodiesi o, tacendo, dovrebbe vendere al prezzo più alto il suo frumento. Immaginiamo un uomo saggio e onesto e ci poniamo il problema delle decisioni e delle considerazioni di lui, che non vorrebbe lasciare all'oscuro i Rodiesi, se ritenesse ciò un'azione vergognosa, ma potrebbe essere in dubbio se la cosa sia deprecabile o no. In casi simili diversa è l'opinione di Diogene di Babilonia, stoico importante e serio, e di Antipatro, suo discepolo, uomo di straordinaria acutezza: secondo Antipatro bisogna dichiarare tutto, perché il compratore non ignori nulla che sia noto al venditore; secondo Diogene occorre che il venditore riveli i difetti, limitatamente alle prescrizioni del diritto civile, tratti il resto senza frode e, dal momento che vende, cerchi di vendere al prezzo più vantaggioso. Ho importato la merce, l'ho esposta, la vendo a un prezzo non maggiore degli altri, forse anche minore, poiché ne ho una quantità più grande: A chi faccio torto. Insorge dall'altra parte il ragionamento di Antipatro: Che dici. Tu, che dovresti preoccuparti degli uomini e dedicarti alla società umana, tu che sei nato sotto questa legge ed hai questi principi naturali, ai quali devi obbedire e conformarti, e cioè che il tuo utile sia l'utile comune e per converso l'utile comune sia il tuo, tu nasconderai agli uomini il vantaggio e l'abbondanza che si presentano loro. Diogene risponderà, forse, così: Una cosa è nascondere e un'altra tacere; e io non ti nascondo, adesso, se non te lo dico, quale sia la natura degli dei, quale il sommo bene, cose che, una volta conosciute, ti gioverebbero di più del sapere il basso prezzo dei grano. Ma non è necessario che io ti dica tutto ciò che a te è utile ascoltare. Anzi, ribatterà quello, è necessario, se pure ti ricordi che tra gli uomini c'è, per natura, un vincolo sociale. Me ne ricordo, dirà l'altro, ma questa società è forse tale che nulla appartenga più privatamente a ciascuno. Se così fosse, non bisognerebbe neppure vender nulla, ma donare. Puoi constatare che in tutta questa discussione non si dice: benché ciò sia vergognoso, pure, dal momento che è utile, lo farò ma da parte dell'uno che è utile così da non essere vergognoso, da parte dell'altro che non si deve fare perché è immorale. Un galantuomo vende una casa per dei difetti a lui noti e ignoti agli altri; la casa è malsana ma la si ritiene salubre, si ignora che in tutte le stanze saltano fuori dei serpenti, è costruita con materiale cattivo ed è in sfacelo, ma tutto questo non lo sa nessuno, tranne il padrone; io chiedo: se il venditore non dicesse questo ai compratori e vendesse la casa ad un prezzo molto più alto di quanto si sarebbe aspettato, compirebbe un'azione ingiusta e disonesta.
Certo dice Antipatro. Che altro è il non indicare la via a chi sta vagando cosa punita in Atene con la pubblica esecrazione se non questo, lasciare che il compratore agisca sconsideratamente e per questo errore cada in una gravissima frode. E', anzi, di più che il non mostrare la strada, perché è indurre. E Diogene di rimando: Ti ha costretto forse a comprare, chi non ti ha neanche esortato a farlo. Quello l'ha messa in vendita, perché non gli piaceva, tu l'hai comprata, perché ti piaceva. Se quanti mettono in vendita una villa come bella e ben costruita non vengono ritenuti frodatori, anche se la villa non è né bella né ben costruita, molto meno dovrebbero esserlo considerati coloro che non hanno decantato i pregi della casa. Quando, difatti, la decisione è lasciata al compratore, quale potrebbe essere la frode del venditore. Se, poi, non bisogna mantenere tutto quello che è stato detto espressamente, pensi che si debba mantenere ciò che non è stato detto espressamente. E che c'è, poi, di più sciocco del fatto che il venditore elenchi i difetti della sua merce. E che cosa di più assurdo, se il banditore, per ordine del padrone, andasse gridando: vendo una casa malsana. Così, dunque, in taluni casi dubbi da una parte si difende l'onestà, dall'altra si parla dell'utile in modo tale che non solo è onesto fare, ma anzi è vergognoso non fare quanto sembra utile. E' questo il conflitto che sembra sorgere frequentemente tra l'utile e l'onesto. Bisogna risolvere questi casi, che abbiamo esposti non per porre domande, ma per poterli spiegare. Non sembra che né quel mercante di grano ai Rodiesi né questo venditore della casa agli acquirenti avrebbero dovuto nascondere nulla. Nascondere non significa, difatti, tacere tutto ciò che sai, ma volere che ignorino quello che tu sai, per tuo guadagno, quanti avrebbero interesse a saperlo. Chi non vede quale sia e caratteristico di quale uomo questo modo di celare. Certo non è proprio di un uomo leale, schietto, nobile, giusto, buono, ma piuttosto di un uomo scaltro, dissimulatore, astuto, ingannatore, malizioso, sagace, furbacchione ed abile. Che utilità c'è a tirarsi addosso tanti ed altri ancor più numerosi appellativi di difetti. E se è da biasimare chi tace, come devono esser giudicati quanti sono soliti servirsi di discorsi ingannevoli. Gaio Genio, cavaliere romano, uomo non privo di spirito e abbastanza colto, essendosi recato a Siracusa per trascorrervi un periodo di vacanza, come lui stesso era solito dire, e non per e oncludere affari, andava dicendo di voler comprare una villetta dove potesse invitare gli amici e divertirsi senza essere disturbato da importuni. Essendosi diffusa la notizia, un certo Pizio, banchiere a Siracusa, gli disse che non aveva ville da vendere, ma che Canio poteva servirsi della sua, se voleva, come se gli appartenesse, e contemporaneamente lo invitò a cena in villa per il giorno dopo. Avendogli Canio promesso di venire, Pizio che, in qualità di banchiere, godeva credito presso tutte le categorie di persone, chiamò a sé dei pescatori, chiese loro di pescare il giorno dopo di fronte alla sua villa, e disse quanto desiderava che essi facessero.
Canio venne puntualmente per la cena; il banchetto era stato imbandito puntualmente da Pizio, davanti agli occhi si presentava una moltitudine di barche e ogni pescatore portava, a turno, ciò che aveva preso; i pesci venivano gettati ai piedi di Pizio. Allora Canio: Di grazia disse E quello, disse Tutti i pesci di Siracusa stanno qui, qui vengono a rifornirsi d'acqua, non possono fare a meno di questa villa. Canio, preso dal desiderio, chiese insistentemente a Pizio che gli vendesse la villa. Sulle prime quello faceva il difficile. Che motivo c'è di dilungarsi. Ottiene il suo scopo: quell'uomo bramoso e ricco compra la villa al prezzo richiesto da Pizio e la compra con tutto l'arredamento, registra la vendita e l'affare è concluso. Canio invita il giorno dopo i suoi amici; arriva per tempo, ma non vede neanche una barca. Chiese al vicino più prossimo se ci fossero festività dei pescatori, dato che non ne vedeva nessuno. A quanto ne so io, no risponde quello ma qui, di solito, non viene a pescare nessuno; perciò ieri mi stupivo di quanto fosse accaduto. Canio montò in bestia, ma che avrebbe potuto fare. A quel tempo Gaio Aquilio, mio amico e collega, non aveva ancora proposto le norme relative alla frode, in cui, essendogli chiesto che cosa fosse la frode, rispondeva che essa si verifica quando si finge una cosa e se ne fa un'altra. Una definizione magnifica, com'è naturale in un uomo esperto in definizioni. Così sia Pizio che tutti coloro, i quali fanno una cosa e ne simulano un'altra, sono perfidi, malvagi, maligni. Nessuna loro azione può risultare utile dal momento che è viziata da tanti difetti. Se è vera la definizione di Aquilio, bisogna bandire dalla vita intera la simulazione e la dissimulazione; di conseguenza il galantuomo non simulerà o dissimulerà nulla né per comprare né per vendere meglio. Ma questa frode cadeva anche sotto le sanzioni delle leggi ad esempio la tutela incorreva nelle sanzioni delle dodici tavole, la circonvenzione dei minorenni in quelle della legge Pletoria e dei processi su reati non menzionati dalle leggi, in cui si aggiunge la formula secondo coscienza. Degli altri processi sono notevoli, in modo particolare, queste formule: in questioni relative alla dote della moglie più buono più equo in materia concernente la cessione fiduciaria come si deve agire tra uomini onesti. E che, dunque. Forse nella formula ciò che più buono più equo può esserci frode. Oppure quando si dice come si deve agire tra uomini onesti, si può, compiere qualche cosa con l'inganno o la malizia. La frode, come dice Aquilio, consiste nella simulazione; bisogna, quindi, eliminare ogni menzogna nel contrarre impegni; il venditore non farà intervenire un finto offerente che giuochi al rialzo. Né il compratore uno che giuochi al ribasso. Entrambi, se si giungerà alla dichiarazione del prezzo, non lo dovranno dichiarare più d'una volta. Quinto Scevola, figlio di Publio, avendo chiesto che di un fondo, che voleva acquistare, gli fosse indicato il prezzo definitivo e avendo ciò fatto il venditore, affermò di valutarlo di più ed aggiunse centomila sesterzi.
Non c'è nessuno che dica che questo comportamento non sia stato proprio d'un galantuomo; negano, però, che sia stato proprio d'un uomo saggio, come se avesse venduto a meno di quanto avrebbe potuto. La rovina è proprio questa, il fatto che si fa distinzione tra i buoni e i saggi. Donde Ennio: Invano è saggio quel saggio incapace di giovare a se stesso. Questo sarebbe pure vero, se fossi d'accordo con Ennio sul significato del giovare. Vedo che Ecatone di Rodi, discepolo di Panezio, nei libri scritti Sul dovere e da lui dedicati a Quinto Tuberone, dice: è proprio del sapiente curare il proprio patrimonio senza far nulla contro la morale, le leggi e le istituzioni. Non vogliamo, difatti essere ricchi solo per noi, ma per i figli, i parenti, gli amici e soprattutto per lo Stato. I beni e gli averi dei singoli costituiscono, infatti, le ricchezze della città. A costui non può assolutamente piacere il gesto di Scevola, che ho citato poco fa; difatti egli dice che non farebbe per suo profitto soltanto quello che non è permesso. A costui non bisogna concedere né lode né riconoscenza. Comunque, sia che la simulazione e la dissimulazione costituiscano frode, pochissime sono le azioni in cui non entri la frode; sia che uomo onesto sia colui che giova a chi può e non nuoce a nessuno, è certo che non possiamo trovare facilmente questo uomo onesto. Non è mai utile, dunque, cadere in fallo, perché è sempre disonesto, e, poiché è sempre onesto essere probi, è sempre utile. Per quel che riguarda la regolamentazione dei beni immobili, il nostro diritto civile sancisce che all'atto della vendita si dichiarino i difetti noti al venditore. Difatti, mentre per le XII tavole era sufficiente rispondere delle cose esplicitamente dichiarate, e chi rinnegava la parola data era condannato a pagare una multa del doppio, i giureconsulti stabilirono una pena anche per la reticenza; stabilirono, infatti, che il venditore deve rispondere di qualsiasi difetto si trovi in un bene immobile, se a lui è noto e non è stato espressamente dichiarato. Ad esempio, poiché gli àuguri dovevano trarre gli auspici sulla rocca ed avevano ordinato a Tiberio Claudio Centumalo, che aveva una casa sul Celio, di abbattere quelle parti che, con la loro altezza, erano di ostacolo agli auspici, Claudio mise in vendita il caseggiato, che fu acquistato da Publio Calpurnio Lanario. Gli àuguri fecero a costui la stessa intimazione. Calpurnio la demolì e venne a sapere che Claudio aveva messo in vendita la casa dopo che gli àuguri gli avevano intimato di abbatterla; lo costrinse, pertanto, a presentarsi davanti ad un arbitro che decidesse che cosa in buona coscienza gli si dovesse pagare o fare. Pronunziò la sentenza Marco Catone, padre del nostro Catone come gli altri dai padri, così questi, che generò quell'insigne personaggio, deve essere designato dal nome del figlio; quel giudice, dunque, emise questa sentenza: poiché nel vendere conosceva i difetti e li aveva celati, doveva rispondere del dan no presso il compratore.
Ritenne, pertanto, che appartenesse alla buona coscienza, la conoscenza, da parte dell'acquirente, dei difetti noti al venditore. Se il suo giudizio è stato giusto, hanno avuto torto a tacere sia il mercante di grano che il venditore di quella casa malsana. Ma reticenze di tale specie non possono essere abbracciate dal diritto civile; quante lo possono, sono perseguite rigorosamente. Marco Mario Gratidiano, nostro parente, aveva venduto a Gaio Sergio Orata la stessa casa che aveva acquistato da lui pochi anni prima. Essa era gravata di una servitù, ma nel contratto Mario non l'aveva dichiarato; la questione fu portata in tribunale. Crasso difendeva Orata, Gratidiano era difeso da Antonio. Crasso invoca il venditore deve rispondere di quei difetti che, pur essendo a lui noti, non sono stati da lui dichiarati, Antonio l'equità, poiché quel difetto non era ignoto a Sergio, che aveva già venduto quella casa, non era necessaria una dichiarazione, né era stato ingannato chi ben conosceva la situazione giuridica di ciò che comprava. A quale scopo ti dico questo. Perché tu capisca che ai nostri padri non piacevano i furbi. Ma le leggi reprimono i raggiri in un modo, in un altro i filosofi: le leggi, nei limiti in cui possono perseguirle legalmente, i filosofi, nei limiti in cui possono farlo con la ragione e l'intelligenza. Orbene, la ragione esige che non si faccia nulla con tranelli, nulla con simulazione, nulla con inganno. Costituisce allora un'insidia tendere le reti, anche se non hai intenzione di metterti a scovare la selvaggina o a spingerla verso di esse. Che le fiere vanno a cadervi spesso da sole, senza che nessuno le insegua. Così tu potresti mettere in vendita una casa, esporre un cartello, come se fosse una rete, vendere la casa per i suoi difetti, e qualcuno potrebbe incapparvi inavvertitamente. Sebbene io veda che questo modo d'agire a causa della decadenza dei costumi non è considerato immorale né è proibito dalla legge o dal diritto civile, tuttavia esso è stato vietato dalla legge di natura. Difatti la società più ampia anche se lo abbiamo detto spesso, lo si deve, tuttavia, ripetere ancor più spesso è quella che unisce tutti gli uomini fra loro, più ristretta quella tra uomini della stessa nazione, ancor più limitata quella tra uomini della stessa città. Perciò gli antichi vollero che il diritto delle genti e quello civile fossero differenti; il diritto civile non s'identifica senz'altro con quello delle genti, ma quello delle genti deve essere anche civile. Noi non possediamo, però, alcuna immagine concretamente scolpita del vero diritto e della giustizia, sua sorella germana; usufriamo di un'ombra e di una parvenza; volesse il cielo che almeno queste seguissimo. Provengono, infatti, dai migliori esempi della natura e della verità. Quanto valgono quelle parole che io non sia preso e ingannato per causa tua e della fiducia in te riposta. Quanto quell'aureo detto come tra persone dabbene conviene agire bene e senza inganno.
Ma è grossa questione definire quali siano i buoni e che cosa significhi agire bene. Quinto Scevola, pontefice massimo, diceva che hanno grandissima importanza tutti quei giudizi arbitrali, in cui s'aggiunge la clausola in buona coscienza, e credeva che il significato della buona coscienza avesse una grandissima estensione, e riguardasse le tutele, le associazioni, le procure, i mandati, le compravendita, gli appalti, le locazioni, in cui consiste la vita sociale; in essi riteneva che fosse compito di un giudice valente stabilire di che cosa ciascuno deve rispondere verso ciascuno, specialmente perché in parecchi casi vi sono delle controquerele. Bisogna, perciò, eliminare le furberie e quella malizia che vorrebbe sembrare prudenza, ma lontana da essa in modo enorme: la prudenza è, difatti, fondata sulla scelta dei beni e dei mali; la malizia antepone il male al bene, se è vero che è male tutto ciò che è immorale. E non solo nel caso dei beni immobili il diritto civile, che deriva dalla natura, punisce la malafede e la frode, ma anche nella vendita degli schiavi è esclusa ogni frode da parte del venditore. Chi, infatti, dovesse essere al corrente della salute, di una fuga, di ruberie, ne risponde in base all'editto degli edili. Diverso è il caso degli schiavi ottenuti per eredità. Da questo si capisce che, essendo la natura fonte del diritto, è secondo natura che nessuno si comporti in modo da ricavare un bottino dall'ignoranza altrui. Non si può trovare alcun danno per la vita maggiore della simulazione della malizia; da ciò derivano i casi innumerevoli, in cui l'utile sembra essere in conflitto con l'onesto. Quanti, infatti, se ne troveranno capaci di astenersi dal commettere un'ingiustizia, una volta che sia stata loro assicurata impunità e l'ignoranza di tutti. Facciamo la prova, se non hai nulla in contrario, e proprio basandoci su quegli esempi, in cui gli uomini in generale non credono, forse, di essere in fallo. Non si deve trattare, qui dei sicari, degli avvelenatori, dei falsificatori di testamenti, dei ladri, dei rei di peculato, che non devono essere domati con le parole e le discussioni dei filosofi, ma con le catene e il carcere; consideriamo, invece, le azioni di coloro che godono la fama di uomini dabbene. Taluni portarono dalla Grecia in Roma un falso testamento di Lucio Minuoio Basilo, uomo ricco; per poter raggiungere con maggior facilità il loro scopo, vi misero come eredi, insieme a loro, Marco Crasso e Quinto Ortensio, due uomini tra i più importanti in quel periodo; costoro, pur avendo sospettato che il testamento fosse falso, ma non essendo complici di alcuna colpa, non rifiutarono il piccolo regalo che veniva loro dalla colpa altrui. Dunque, è sufficiente questo perché non sembrino colpevoli. In verità non mi pare, sebbene abbia amato l'uno, quando era in vita, e non nutra odio nei confronti dell'altro, ora che è morto. Ma avendo voluto Basilo dare il suo nome a Marco Satrio, figlio di sua sorella, e avendolo fatto erede parlo di colui che fu patrono dell'agro piceno e sabino, o vergogna dei tempi, il nome di quelli, non era giusto che due tra i principali cittadini avessero il patrimonio e a Satrio non toccasse nulla, ad eccezione del nome.
Se, come ho spiegato nel primo libro, colui che non si oppone all'ingiustizia e non la tiene lontana dai suoi, pur potendolo, si comporta ingiustamente, che giudizio bisogna dare di colui che non solo non allontana l'ingiustizia, ma anzi l'appoggia. A me, sinceramente, non sembrano oneste neanche le vere eredità, se sono ottenute per mezzo di lusinghe piene di malizia, con devozione non sincera, ma simulata. Eppure in tali argomenti una cosa suole sembrare l'utile, un'altra l'onesto. A torto, perché la norma dell'utile è la stessa dell'onesto. Se uno non si renderà conto di ciò, sarà capace di ogni frode, di ogni delitto. Ragionando, infatti, così: Questo, in verità, è onesto, ma quest'altro è utile arriverà al punto di scindere due cose che la natura ha strettamente unito, con un errore che origina frodi, misfatti ed ogni genere di delitti. Perciò se un galantuomo avesse una tale potenza da essere in grado di far inserire il suo nome nei testamenti con un semplice schiocco delle dita, non se ne servirebbe, neppure se avesse la sicurezza che nessuno mai nutrirebbe sospetti. Ma se tu dessi questo potere a Marco Crasso, d'essere cioè, con un semplice schiocco delle dita, registrato come erede senza essere realmente erede, credi a me, si metterebbe a danzare nel Foro. Invece l'uomo giusto e quello che intendiamo per uomo onesto, non sottrarrebbe niente a nessuno per prenderselo per sé. Chi si meraviglia di ciò, ammette di non sapere che cosa sia un uomo onesto. Ma se qualcuno vorrà sviluppare il concetto involuto nel proprio animo, si convincerà che è uomo onesto colui che giova a chi può e non nuoce ad alcuno, a meno che non sia stato provocato da un'offesa. Dunque, non nuoce chi, con una specie di sortilegio, fa in modo d'allontanare i veri eredi per mettersi al posto loro. Non dovrà fare, dunque, dirà qualcuno ciò che è utile, che gli giova. Anzi capisca che nulla giova né è utile, se è ingiusto. Chi non capirà ciò, non potrà essere un uomo onesto. Quand'ero ragazzo sentivo raccontare da mio padre che l'ex console Fimbria fu giudice in un processo riguardante Marco Lutazio Pinzia, onestissimo cavaliere romano, che si era impegnato a pagare una somma se una sentenza da lui provocata non l'avesse dichiarato galantuomo; Fimbria gli disse che non avrebbe mai fatto da giudice in quella questione, per non togliere la reputazione ad un uomo stimato, in caso di un giudizio negativo, o per non sembrare di aver decretato che un uomo è onesto, dal momento che tale qualità presuppone innumerevoli doveri e virtù. A quest'uomo buono, di cui aveva un'idea ben precisa non solo Socrate, ma anche Fimbria, in nessun modo può sembrare utile una cosa che non sia onesta. Di conseguenza un tale uomo non solo non oserà fare, ma neppure pensare alcunché che non oserebbe dire pubblicamente.
Non è vergognoso che i filosofi siano indecisi su ciò che non suscita dubbi neanche nei contadini. Da essi derivò quel proverbio ormai logoro per l'uso: quando vogliono lodare la lealtà e la bontà di qualcuno, dicono che è degno che si giuochi alla morra con lui al buio. Che significa questo, se non che nulla è conveniente se non è lecito moralmente, anche se noi lo possiamo ottenere senza che alcuno ci smentisca. Non vedi che in base a questo proverbio non si può giustificare né quel famoso Gige né costui che poco fa ho immaginato capace di accaparrarsi tutte le eredità con un semplice schiocco delle dita. Come, difatti, ciò che è turpe non può in alcun modo diventare onesto, benché lo si nasconda, così ciò che onesto non è, non può esser mutato in utile, se la natura vi si oppone e vi fa resistenza. Ma quando si prevedono grandi vantaggi, vi sarebbe un motivo per cadere in fallo. Gaio Mario era molto lontano dalla speranza di divenir console e ormai da sette anni dopo la pretura era abbandonato da tutti né dava l'impressione che avrebbe mai presentato la propria candidatura al consolato; inviato a Roma dal suo comandante Quinto Metallo, di cui era luogotenente, uomo e cittadino di altissime qualità, lo accusò presso il popolo romano di tirare alle lunghe la guerra. Se lo avessero fatto console, avrebbe consegnato in poco tempo Giugurta, vivo o morto, in potere del popolo romano; e così egli fu eletto console, ma si allontanò dalla lealtà e dalla giustizia, poiché con una falsa accusa suscitò odiosità nei confronti di un cittadino ottimo e rispettabilissimo, del quale era luogotenente e dal quale era stato inviato. Neppure il nostro parente Gratidiano adempì al dovere di un uomo onesto, allorché egli era pretore e i tribuni della plebe avevano convocato il collegio dei pretori per regolare di comune accordo la situazione monetaria; in quel periodo, difatti, il valore del nummo oscillava in modo tale che nessuno era in grado di sapere quanto possedesse. Stesero di comune accordo un editto, in cui era indicata la pena e la relativa procedura giudiziaria, e decisero di presentarsi tutti insieme sui Rostri il pomeriggio. Tutti gli altri andarono chi da una parte, chi da un'altra; Mario si recò direttamente dagli scanni dei tribuni ai Rostri e da solo pubblicò quell'editto che era stato redatto in comune. E questa cosa, se vuoi saperlo, gli tornò di grande onore; gli furono innalzate statue in tutti i rioni, e dinanzi ad esse incenso e fiaccole di cera. A che serve dilungarsi. Nessuno fu mai più caro alla folla. Sono questi i casi che spesso, quando dobbiamo decidere, ci rendono dubbiosi, allorché la violazione dell'equità non sembra rilevante, ma appare grandissimo il vantaggio che da essa deriva: così, ad esempio, a Mario non sembrava tanto riprovevole carpire il favore popolare ai colleghi e ai tribuni della plebe, ma molto utile diventar console con quel mezzo, ciò che egli si era proposto.
Ma in tutti questi casi esiste una sola regola, che desidero ti sia notissima: o che non sia turpe quello che sembra utile o, se è turpe, che non sembri essere utile. E che, dunque. Possiamo giudicare probo il primo o il secondo Mario. Dispiega e fa funzionare la tua intelligenza, per vedere quale sia in essa il concetto e la nozione di uomo dabbene. Si addice, dunque, ad un uomo onesto mentire per proprio vantaggio, accusare, sottrarre, ingannare. Niente gli si addice di meno, questo è certo. Vi è, dunque, una cosa tanto importante o un vantaggio tanto desiderabile, da far sì che tu perda l'aureola e il nome di uomo probo. Che cosa ti potrebbe dare di tanto grande questa cosiddetta utilità, quanto piuttosto togliere, se si sottrae il nome di uomo probo, se ti porta via la lealtà e la giustizia. Che differenza c'è, difatti, tra il mutarsi da uomo in bestia o il portare, sotto l'aspetto di uomo, l'indole crudele d'una belva. E che. Quanti trascurano ogni rettitudine e onestà, pur di raggiungere la potenza, non si comportano proprio come colui che volle avere per suocero un uomo, la cui audacia giovasse alla propria potenza. Gli sembrava utile raggiungere la massima potenza a spese dell'impopolarità altrui, ma non si rendeva conto di quanto ciò fosse ingiusto e vergognoso nei confronti della patria. E quel suocero aveva continuamente sulle labbra i versi greci delle Fenicie, che dirò come potrò, forse rozzamente, ma tuttavia in modo che si possa capire il contenuto: Se si deve violare il diritto, bisogna violarlo per il potere assoluto; per il resto coltiva la pietà. Degno d'essere messo a morte è Eteocle, o piuttosto Euripide, che eccettuava quest'unico caso, che è il più scellerato di tutti. Ma perché andiamo raccogliendo queste minuzie, eredità, commerci, vendite fraudolente. Eccoti chi desiderò essere re del popolo romano e signore di tutte le genti, e ci riuscì. Se qualcuno dicesse che questa bramosia è onesta, sarebbe un pazzo; così facendo egli approva la morte delle leggi e della libertà e ritiene gloriosa la loro infame e detestabile soppressione. Se uno, invece, ammette che non è onesto regnare in una città che è stata e dovrebbe essere libera, ma è utile a chi è capace di farlo, con quali rimproveri o, piuttosto, con quali grida potresti tentare dì allontanarlo da un simile errore. Può, per gli dei immortali, essere utile a qualcuno il più turpe e abominevole parricidio della patria, anche se colui che se n'è macchiato viene chiamato padre dai cittadini oppressi. L’utilità, dunque, deve essere guidata dall'onestà, e precisamente in modo che questi due concetti a parole sembrino diversi, ma nella sostanza suonino la stessa cosa. Non so quale utilità possa esistere, a giudizio del volgo, maggiore del regnare; ma quando comincio ad accostare il giudizio alla luce della verità, non trovo nulla di più inutile per colui che abbia conseguito il regno ingiustamente.
Possono, difatti, essere utili per qualcuno le angosce, le preoccupazioni, i timori diurni e notturni, la vita piena zeppa di insidie e di pericoli. Molti gli iniqui ed infedeli al regno, pochi i benevoli Così dice Accio. Ma a quale regno. Quello che, trasmesso legittimamente, avevano Tantalo e Pelopee quanti di più ne avrebbe, secondo te, quel re che con l'esercito del popolo romano oppresse proprio il popolo romano e costrinse ad essergli schiava quella città non solo libera, ma anche signora delle genti. Quale macchia della coscienza pensi che costui abbia avuto nell'animo, quali ferite. E a quale uomo può essere utile la propria vita, se la condizione di essa è tale che chi gliela sottraesse si procurerebbe grandissima gloria e riconoscenza. E se non sono utili queste cose, che sembrano esserlo massimamente, perché sono piene di ignominia e di turpitudine, bisogna essere abbastanza convinti che nulla è utile, se non è onesto. Questo è stato riconosciuto spesso in altre occasioni e specialmente da Gaio Fabrizio, console per la seconda volta durante la guerra contro Pirro, e dal nostro senato. Avendo, il re Pirro dichiarato di sua iniziativa guerra al popolo romano, e svolgendosi la lotta per la supremazia con un re nobile e potente, giunse un disertore negli accampamenti di Fabrizio e gli promise, in cambio di una ricompensa, di ritornare negli accampamenti di Pirro di nascosto com’era venuto e di ucciderlo col veleno. Fabrizio lo fece ricondurre da Pirro e il suo comportamento fu lodato dal senato. Eppure se noi ricerchiamo l'apparenza e il concetto comune dell'utilità, un unico disertore avrebbe eliminato quella guerra ed un pericoloso rivale della nostra supremazia, ma sarebbe stato per noi un grande disonore e una grande colpa l'aver vinto non col valore, ma con il delitto un avversario con cui si lottava per la gloria