Traduzione De officiis, Cicerone, Versione di Latino, Libro 02; 01
Traduzione in italiano del testo originale in Latino del Libro 02; parte 01 dell'opera De officiis di Marco Tullio Cicerone
DE OFFICIIS: TRADUZIONE DEL LIBRO 02; PARTE 01
In qual modo i doveri derivino dall'onesto, o Marco figlio mio, e da ogni genere di virtù, penso di averlo abbastanza spiegato nel libro precedente. Ne consegue la trattazione di questi generi di doveri che riguardano il tenor di vita e il possesso di quei mezzi di cui si servono gli uomini, la potenza e le ricchezze; a tal riguardo allora ho detto che ci si chiede che cosa è utile e cosa inutile, e tra due cose utili quale sia la più utile o cosa sia massimamente utile. Inizierò a trattare di tali argomenti; dopo aver detto poche cose sulle mie intenzioni e sul mio criterio. Benché, infatti, i miei libri abbiano stimolato parecchi non solo a leggerli ma anche a scrivere, tuttavia temo talora che ad alcuni uomini dabbene il nome di filosofia sia odioso e si meraviglino che io dedichi ad essa tanta applicazione e tanto tempo. In verità io, per tutto il tempo in cui lo Stato era governato da coloro ai quali da se stesso si era affidato, gli dedicavo ogni mia preoccupazione e pensiero. Ma quando tutto il potere fu accentrato nelle mani di un solo uomo e non essendovi più posto per il consiglio e per l'autorità, avendo perso infine quanti erano stati miei colleghi nel proteggere la repubblica, tutti ottimi uomini, io non mi abbandonai al dolore, che mi avrebbe travolto, se non avessi resistito, ma d'altra parte non mi diedi ai piaceri, che sono indegni di un uomo dotto. Ah, se fosse rimasta in piedi la repubblica nello stato in cui aveva incominciato ad essere e non si fosse imbattuta in uomini desiderosi non tanto di mutare la situazione quanto di sovvertirla. In primo luogo mi sarei dedicato più all'azione come solevo fare quando vigeva ancora la repubblica che non allo scrivere, e poi avrei affidato agli scritti stessi non queste osservazioni, ma le nostre azioni come spesso ha fatto. Ma quando finì di esistere lo Stato, nel quale solevo riporre ogni mia cura, pensiero e attività, tacque anche quella mia forense e senatoria. Ma poiché il mio spirito non poteva rimanere inattivo ho ritenuto, poiché sono stato versato in questi studi sia dalla fanciullezza, che avrei potuto alleviare nel modo più onorevole il mio affanno se mi fossi rivolto alla filosofia. Da giovane le avevo dedicato molto tempo per imparare, ma quando incominciai a dedicarmi alla carriera politica e mi diedi tutto alla cura dello Stato, per la filosofia non c'era altro tempo se non quanto avanzava dagli amici e dallo Stato; e questo lo trascorrevo tutto leggendo, e non ne avevo un po' libero per scrivere. Dunque in queste sciagure così gravi, questo bene almeno mi sembra di aver conseguito, di affidare agli scritti quelle teorie filosofiche che non erano abbastanza note ai nostri concittadini ed erano assai degne di conoscenza. Che cosa c'è infatti per gli dei di più desiderabile della saggezza, che cosa di più nobile e di più adatto all'uomo, che cosa di più degno di lui.
Dunque coloro che la ricercano sono chiamati filosofi, e la filosofia altro non è, se tu vuoi attenerti al significato etimologico, che amore della sapienza. Ma la sapienza è secondo la definizione degli antichi filosofi la scienza del divino e dell'umano e dei nessi causali che li regolano; e se qualcuno biasima lo studio di tale scienza, invero non riesco a comprendere quale sia cosa quella che egli possa stimare degna di lode. E se si ricerca il diletto dell'animo e la tranquillità degli affanni, quale diletto e qua le tranquillità si possono paragonare con la co stante applicazione di coloro che ricercano sempre qualche cosa che riguardi e valga per vivere bene e felicemente. Se si ricerca la norma della coerenza e della virtù, o è questa l'arte filosofica per mezzo della quale poterle perseguire o non ve ne è affatto alcuna. Il sostenere che non esista alcuna scienza dei massimi problemi, mentre dei minimi non ve ne è alcuno senza la sua specifica regola, è considerazione degna di uomini che parlano senza riflettere e che sbagliano proprio sui massimi problemi. Se esiste una disciplina della virtù, dove la ricercheremmo, qualora ci allontanassimo da questo genere di studi. Ma queste tesi di solito sono più accuratamente dibattute, quando esortiamo alla filosofia; ciò che abbiamo fatto in un altro libro. Ma a questo punto volevo soltanto dichiarare, perché privato delle cariche dello Stato mi fossi rivolto soprattutto a questo studio. Mi si obietta invero, e la richiesta è da parte di uomini dotti e eruditi, se mi sembra di agire con sufficiente coerenza, in quanto io, pur affermando che niente può esser conosciuto con certezza, tuttavia sono solito discutere intorno ad altre tesi, e proprio nello stesso momento miro a trattare i precetti del dovere. Vorrei che costoro conoscessero bene il mio pensiero. Io non sono tale che il mio animo se ne vada vagando nell'incertezza e non abbia mai una norma da seguire. Quale sarebbe codesto intelletto o piuttosto quale la nostra vita, se si eliminasse ogni regola non solo di discussione, ma anche di vita. Io, per parte mia, come alcuni sostengono esservi alcune cose certe ed altre incerte, esprimendo un'opinione diversa da questi, dico che alcune cose sono probabili, altre improbabili. Quale ragione mi potrebbe impedire di seguire quelle cose che mi paiono probabili e rigettare ciò che mi sembra improbabile, e, coll'evitare le affermazioni assolute, fuggire quella presunzione che è la più lontana dalla vera sapienza. Invece la nostra scuola pone in discussione tutto, perché questo stesso probabile non potrebbe esser palese se non si facesse un confronto delle ragioni dall'una e dall'altra parte. Ma questi criteri di metodo sono stati abbastanza diligentemente chiariti, come credo, nei miei Accademici. E invero, o mio Cicerone, benché tu, sotto la guida di Cratippo, dal pensiero assai affine a coloro che elaborarono queste teorie famose, ti stia dedicando a questa filosofia che è una delle più antiche e nobili, tuttavia non voglio che questa mia dottrina così vicina alla tua ti sia sconosciuta.
Ma proseguiamo nel nostro proposito. Sono cinque, dunque, i principi f issati per la ricerca del dovere, dei quali due riguardano il conveniente e l'onesto, due i beni della vita, le ricchezze, il potere, le risorse, il quinto il criterio di scelta, nel caso in cui quelle norme sopra menzionate sembrino contrastare tra di loro; la parte riguardante l'onestà è terminata; proprio essa desidero che ti sia notissima. Il tema del quale ora trattiamo è quello stesso che si chiama utile. Per questo termine l'uso comune, scivolando, deviò dalla retta via e a poco a poco giunse a tal punto che, dividendo nettamente l'onesto dall'utile, definì onesto ciò che non era utile e utile ciò non era onesto; nessun danno maggiore di questo poteva mai essere apportato alla vita umana. Certo i filosofi, con la loro grandissima autorità, distinguono in astratto, con rigore ed onestà, queste tre categorie confuse nella realtà: qualsiasi cosa, difatti, sia giusta, pensano che sia anche utile, e allo stesso modo ciò che è onesto anche giusto; da ciò si deduce che qualsiasi cosa sia onesta è anche utile. Coloro che comprendono poco le distinzioni filosofiche, grandi ammiratori degli uomini astuti e furbi, giudicano la furberia come sapienza. L’errore di costoro deve essere estirpato ed ogni opinione si deve rivolgere alla speranza di far loro comprendere che essi possono conseguire ciò che vogliono, con intenti onesti e con azioni giuste, non con l'inganno e la malizia. Le cose che riguardano la conservazione della vita umana sono in parte inanimate, come l'oro, l'argento, i prodotti della terra ed altre del medesimo genere, in parte sono animate, ed hanno i propri istinti e appetiti. Tra queste, parte è priva di ragione, parte, invece, ne è for Nita. Privi di ragione sono i cavalli, i buoi, gli altri animali domestici, le api, il cui lavoro produce alcuni vantaggi per l'uomo e la sua vita. Due sono le classi di coloro che sono forniti di ragione, una è quella degli dei, l'al tra è quella degli uomini. Il sentimento di pietà e di reverenza ci renderà propizi gli dei; ma dopo gli dei e seguendo subito dopo di essi gli uomini, possono essere soprattutto utili agli uomini. La stessa divisione si può applicare a quelle cose che ci nuocciono e ostacolano. Ma poiché si crede che gli dei non facciano il male, si ritiene che messi da parte quelli gli uomini costituiscano il più grande ostacolo per gli uomini. Infatti quelle stesse cose che abbiamo detto inanimate, sono per la maggior parte il prodotto del lavoro umano, che non avremmo se non ci fossero state le mani e la mente, e non le potremmo nemmeno usare senza l'ausilio degli uomini. Senza l'opera dell'uomo non sarebbero possibili la medicina, la navigazione, l'agricoltura, il raccolto e la conservazione delle messi e di tutti gli altri frutti. Inoltre l'esportazione di quei prodotti dei quali abbondiamo e l'importazione di quelli di cui scarseggiamo non sarebbero possibili, se gli uomini non si dedicassero a questi compiti.
Per lo stesso motivo non si estrarrebbero dalla terra le pietre necessarie al nostro uso, né il ferro, il bronzo, l'oro e l'argento nascosto nel profondo si estrarrebbero senza la fatica e la mano dell'uomo. Le case, invero, con le quali scacciare la violenza del freddo e temperare la molestia del caldo, come avrebbero potuto essere fornite sin da principio al genere umano o si sarebbero, poi, potute ricostruire se fossero cadute per la violenza di una tempesta o di un terremoto o per la loro stessa vecchiaia, se la vita associata non avesse appreso a chiedere aiuto agli uomini contro tali calamità. Aggiungi gli acquedotti, le deviazioni dei fiumi, le irrigazioni dei campi, le dighe contro i flutti, i porti creati dall'uomo, tutte queste opere come potremmo averle senza il lavoro dell'uomo. Da questi e da molti altri esempi è evidente che quei frutti e quei vantaggi che si traggono dalle cose inanimate, non li avremmo mai potuti ottenere senza il lavoro manuale dell'uomo. Infine, qual frutto o qual vantaggio si sarebbe potuto ricavare dalle bestie, se gli uomini non ci aiutassero. Infatti furono certamente uomini coloro che per primi trovarono quale uso si potesse avere da ciascun animale, e ora senza l'opera dell'uomo non potremmo farli pascolare o domarli o custodirli o prenderne il frutto al momento opportuno; e sono gli uomini che uccidono gli animali dannosi e che catturano quelli che ci possono essere utili. A che enumerare il gran numero delle arti, senza le quali la vita dell'uomo non potrebbe affatto sussistere. Quale aiuto si darebbe ai malati, quale sollievo avrebbero i sani, quali potrebbero essere il vitto e il tenore di vita, se tante arti non ci fornissero quei mezzi dai quali la vita dell'uomo resa civile tanto lontana dal vitto e dal modo di vivere delle bestie. Le città, poi, senza l'unione degli uomini non avrebbero potuto essere né edificate né popolate: di lì furono stabilite le leggi e i costumi, l'equa ripartizione dei diritti e dei doveri e una regola sicura di vita; da ciò derivarono mitezza d'animo e pudore; ne risultarono anche una maggiore sicurezza di vita e il non mancar di nulla, col dare e con l'avere, con lo scambio e il prestito dei beni. Ma noi ci siamo dilungati su questo argomento più a lungo di quanto non fosse necessario. Chi è, infatti, colui al quale non siano evidenti quelle considerazioni sulle quali Panezio si dilungava con tante parole, cioè che nessun generale in guerra e nessun capo in pace abbia potuto mai compiere grandi e salutari imprese senza l'aiuto degli altri uomini. Egli ricorda Temistocle, Pericle, Ciro, Agesilao, Alessandro, e dice che essi non avrebbero potuto compiere imprese così grandi senza l'aiuto degli uomini. Ma egli fa ricorso, in una tesi indubitabile, a testimoni non necessari. Come si ottengono grandi vantaggi con la collaborazione degli uomini e il loro consenso, così non vi è sciagura più funesta che non provenga all'uomo da un altro uomo.
Sulla morte degli uomini c'è un libro di Dícearco, peripatetico famoso ed eloquente, che, dopo aver raccolto tutte le altre cause, come le alluvioni, pestilenze, devastazioni e anche gli improvvisi assalti delle belve i cui assalti egli ricorda distrussero alcune stirpi umane mette, poi, a confronto il numero di gran lunga maggiore degli uomini annientati dalla violenza degli altri uomini, cioè in guerre e in rivolte, che non da ogni altra calamità. Dal momento che questo punto non lascia sussistere alcun motivo di dubbio che gli uomini aiutino, ma anche ostacolino moltissimo gli altri uomini, ritengo proprietà della virtù conciliare gli animi degli uomini e trarli ai propri vantaggi. Perciò quegli utili che si ricavano dalle cose inanimate e quelli che si ricavano dall'uso e dall'utilizzazione degli animali per la vita dell'uomo sono dispensati dalle arti manuali, mentre la saggezza e la virtù degli uomini superiori stimolano l'interesse degli altri uomini, pronto e disposto ad accrescere il benessere comune. Infatti ogni virtù è riposta, genericamente, in tre aspetti: il primo consiste nel vedere che cosa sia sincero e vero in qualsiasi azione, che cosa sia conveniente a ciascuno, quanto sia conseguente e quanto derivi da ciascuna cosa, quale ne sia la causa; il secondo consiste nel frenare le tumultuose passioni dell'animo, che i Greci chiamano patos, e rendere obbedienti alla ragione gli istinti , ormai , come essi dicono; il terzo consiste nel comportarsi in maniera moderata e riflessiva verso coloro coi quali conviviamo, a finché, col loro aiuto, possiamo ottenere in grande abbondanza quello che la natura richiede, ma anche per respingere, per mezzo di quegli stessi, quanto eventualmente ci rechi danno e per vendicarci di coloro che abbiano tentato di nuocerci, e per infligger loro una pena in quella misura che lo consentano la giustizia ed il senso d'umanità. Diremo, poi, e tra non molto in quali modi possiamo conseguire la capacità di conquistare e mantenere l'interesse degli uomini; ma prima devo dire poche cose. Chi ignora la gran forza della fortuna in un senso e nell'altro, così nelle avversità come nella prosperità. Infatti quando godiamo del suo soffio favorevole, perveniamo alle mete desiderate, e quando ci soffia contro siamo sballottati. Gli altri casi della fortuna, dunque, sono più rari, in primo luogo quelli dipendenti dalle cose inanimate, come procelle, tempeste, naufragi, distruzioni, incendi, poi quelli causati dalle belve, colpi, morsi, assalti. Ma tutti questi accidenti sono come ho detto piuttosto rari. Ma stragi di eserciti come recentemente di tre frequenti uccisioni di generali, come poco fa di quel sommo ed eccezionale uomo, inoltre l'odiosità della folla e a causa di ciò le frequenti espulsioni di cittadini meritevoli, le disgrazie, le fughe e, d'altra parte, gli avvenimenti favorevoli, le cariche civili, i comandi militari, le vittorie, benché siano fortuite, tuttavia non possono accadere né in un, caso né nell'altro senza i mezzi e le intenzioni degli uomini. Assodato questo si deve dire in qual modo possiamo risvegliare e attrarre gli interessi degli uomini verso il nostro utile.
Se il discorso sarà troppo lungo, lo si confronti con la grandezza dell'utile; così, forse, parrà anche troppo breve. Qualsiasi servigio l'uomo presti all'uomo per aumentarne il prestigio e la dignità, o è reso per benevolenza amandosi qualcuno per qualche motivo, o a fine di onore, allorché si osserva il valore di qualcuno e lo si ritiene degno della miglior fortuna possibile; oppure lo si fa a qualcuno in cui si ha fiducia, e così si crede di ben provvedere ai propri interessi, o a qualcuno la cui potenza incute timore, o, invece, a qualcuno da cui ci si aspetta qualche favore come quando i re e i demagoghi promettono qualche elargizione, o, da ultimo, uomo può essere attratto dal lucro e dalla mercede, motivo, invero, quanto mai vergognoso ed abietto sia per chi si faccia prendere da esso, sia per chi tenti di ricorrervi. E' male, difatti quando si ottiene col denaro quello che si dovrebbe ottenere con la virtù. Ma poiché questo mezzo è talvolta necessario, dirà in quale modo ci si debba servire di esso, dopo aver parlato di quelle azioni che sono più vicine alla virtù. Inoltre gli uomini si sottomettono al volere e al potere di un altro uomo per più d'un motivo. Sono spinti a ciò o dalla benevolenza o dalla grandezza dei benefici, o dalla superiorità del rango sociale o dalla speranza di ottenere qualche utile o per paura d'essere costretti ad obbedire con la violenza o allettati dalla speranza d'un donativo e da varie promesse o, infine, indotti dal denaro, come spesso abbiamo visto nel nostro Stato. Fra tutti questi mezzi nessuno è più adatto a difendere e a conservare il potere dell'essere amati e nessuno è più contrario dell'essere temuti. Benissimo, infatti, dice Ennio: odiano colui che temono, e colui che ciascuno odia desidera che perisca. Si è visto poco tempo fa, se prima non lo si sapeva, che nessun potere può resistere all'odio di molti. E non solo di questo tiranno, che la città sopportò, pur oppressa dalle sue armi, la morte dimostra quanto l'odio degli uomini valga a far cadere in rovina, ma anche la fine simile degli altri tiranni, quasi nessuno dei quali riuscì a sfuggire ad una simile morte. La paura, difatti, è una cattiva sorvegliante di un prolungato dominio, mentre la benevolenza è fedele custode e lo fa durare addirittura in eterno. Coloro che esercitano il comando opprimendo i cittadini con la forza, impieghino pure la crudeltà, come i padroni nei confronti degli schiavi, se non possono governarli in nessun altro modo; ma quelli che, in una libera città, si preparano a farsi temere, raggiungono il massimo della follia. Benché le leggi siano conculcate dalla potenza di un uomo e la libertà sia intimidita, tuttavia sia le une che l'altra emergono di quando in quando o in taciti giudizi o nelle elezioni segrete per qualche carica.
Più penetranti sono i morsi della libertà perduta che non di quella costantemente mantenuta. Accogliamo questa considerazione, che ha una vastissima applicazione e non vale solo per l'incolumità dei cittadini, ma soprattutto per la ricchezza e la potenza, e cioè di tener lontano il timore e conservare la benevolenza dei cittadini. Così con grandissima facilità otterremo ciò che vorremo sia negli affari privati che nella vita pubblica. Giacché coloro che vogliono essere temuti, necessariamente devono essi stessi, a loro volta, a temere quegli stessi dei quali dovrebbero essere temuti. E che: Possiamo noi comprendere da qual tormentoso timore veniva di solito assalito il famoso Dionigi il Vecchio, che temendo il rasoio del barbiere si bruciava da sé la barba con un tizzone ardente. E che, con quale animo pensiamo che sia vissuto Alessandro di Fere. Costui come si legge pur amando molto la propria moglie, Tebe, tuttavia quando dal banchetto si recava nella sua stanza ordinava ad un barbaro, addirittura tatuato come è scritto al modo dei Traci, di andare avanti con la spada sguainata e si faceva precedere da alcuni sgherri, incaricati di perquisire gli scrigni della donna e di accertarsi che non fosse nascosta un'arma tra le vesti. O infelice, che riteneva più fedele un barbaro tatuato che la propria moglie. E non si sbagliò: fu ucciso per mano della moglie, per sospetto d'infedeltà. Non c'è, in verità, alcuna forza di potere tanto grande che possa resistere a lungo sotto l'oppressione del timore. Ne è testimone Falaride, la cui crudeltà è rimasta famosa sopra tutti; costui non morì a causa di un agguato come l'Alessandro che ho or ora ricordato non per mano di pochi come quel nostro tiranno; ma tutta la popolazione di Agrígento si sollevò contro di lui. E che. I Macedoni non abbandonarono Demetrio e passarono tutti insieme dalla parte di Pirro. E che Forse che gli alleati non si distaccarono subito dagli Spartani, che comandavano con maniere ingiuste, e se ne stettero oziosi spettatori della disfatta di Leuttra. In un tale argomento ricordo più volentieri gli esempi stranieri che i nostri. Tuttavia per tutto il tempo che l'impero romano si resse sui benefici e non sulle offese, si conducevano le guerre o in difesa degli alleati o per lo Stato, e il loro esito era o mite o necessario; il senato era il porto e il rifugio dei re, dei popoli e delle nazioni, e i nostri magistrati e generali si sforzavano di ottenere la maggior gloria da questo solo, se avessero difeso le pro vince e gli alleati con giustizia e lealtà. Perciò quello si poteva chiamare con maggiore verità patrocinio del mondo che impero. A poco a poco già da tempo avevamo attenuato questa consuetudine e questa condotta, ma dopo la vittoria di Silla essa scomparve del tutto; cessò, infatti, di apparire ingiusto ogni danno contro gli alleati, dopo che erano state commesse crudeltà tanto grandi verso i cittadini.
Nel caso di Silla, dunque, una vittoria poco onesta tenne dietro ad una causa onesta. Infatti egli osò dire, vendendo dopo aver piantato l'asta nel foro i beni di onesti cittadini, ricchi e, pur sempre, cittadini, che egli vendeva il suo bottino. Gli tenne dietro uno che, per un'empia causa, con una vittoria ancor più turpe, non solo vendeva i beni dei singoli cittadini, ma comprendeva sotto un unico diritto di sciagura tutte le provincie e le regioni. Perciò, tormentate e devastate le nazioni straniere, abbiamo visto come esempio del perduto impero, portare nel trionfo l'effigie di Marsiglia e trionfare su quella città, senza la quale i nostri generali non avrebbero mai potuto riportare il trionfo delle guerre transalpine. Potrei ricordare, inoltre, molte scelleratezze commesse contro gli alleati, se il sole ne avesse visto qualcuna più indegna di questa sola. A ragione, dunque, siamo colpiti; se non avessimo lasciate impunite le disoneste azioni di molti, non sarebbe mai toccata ad uno solo una così grande sfrenatezza; ma da costui l'eredità del patrimonio giunse a pochi, della cupidigia a molti disonesti. Non mancheranno mai il germe e il motivo delle guerre civili finché gli uomini perversi ricorderanno quell'asta sanguinosa e spereranno in essa; l'aveva vibrata Publio Silla mentre era dittatore un suo parente, e dopo trentasei anni non si ritrasse da un'asta ancor più scellerata; quell'altro Silla, che in quella prima dittatura era stato scrivano, in questa fu questore urbano. Da ciò si può comprendere che le guerre civili non mancheranno mai, allorché si propongono tali premi. Perciò solamente le mura della città rimangono in piedi e perdurano, ed esse pure, ormai, col timore di estremi crimini, ma la repubblica l'abbiamo interamente perduta. E se tali mali poterono accadere al popolo romano per un ingiusto esercizio del potere, che cosa devono aspettarsi i singoli cittadini. Pur essendo evidente che la forza della benevolenza sia grande, quella della paura debole, resta da trattare con quali mezzi possiamo conseguire nel modo più facile quell'affetto che noi vogliamo, insieme con l'onore e la lealtà. Non tutti ne abbiamo ugualmente bisogno: deve essere proporzionato al modo in cui ciascuno regola la propria vita, se gli sia necessario l'esser amato da molti o da pochi. Si tenga ben fermo questo suggerimento, che è il primo ed il più importante, e cioè di avere la familiarità e la fedeltà degli amici che ci amano e ci ammirano. Questo è sicuramente il solo aspetto in cui non ci sia molta differenza tra gli uomini grandi e quelli mediocri: ambedue se lo devono procurare nella stessa misura. Non tutti, forse, hanno bisogno allo stesso modo dell'onore, della gloria e della benevolenza dei cittadini, ma tuttavia, se qualcuno è provvisto di queste qualità, esse l'aiutano sensibilmente a procurarsi, oltre a tutto il resto, le amicizie. Dell’amicizia si è parlato in un altro libro che si intitola Lelio; ora parliamo della gloria, sebbene anche su questo argomento ci siano due miei libri, ma ne accenniamo dal momento che giova moltissimo nell'occuparsi dei più alti affari.
La suprema e perfetta gloria consta di tre elementi: se la moltitudine ci ama, se ha in noi fiducia, se, insieme con l'ammirazione, ci stima degni di un qualche onore. Orbene per dirla in breve e semplicemente suscitiamo nella moltitudine questi sentimenti quasi con quegli stessi mezzi coi quali li facciamo nascere nelle singole persone. Ma vi è anche un altro accesso alla simpatia della folla, per poter esercitare una certa influenza sull'animo di tutti. In primo luogo tra quei tre aspetti di cui ho parlato vediamo i consigli che riguardano la benevolenza; questa, invero, la si guadagna soprattutto coi benefici, in secondo luogo essa è mossa dalla volontà di beneficare, anche se, per caso, il risultato non corrisponda; l’amore della folla, invero, è suscitato in maniera profonda dalla stessa fama e dall'opinione di generosità, beneficenza, giustizia e lealtà e da tutte quelle virtù che riguardano la mitezza di costumi e l'affabilità. Infatti, poiché quella stessa virtù, che chiamiamo onesto e conveniente, ci piace per se stessa e commuove l'animo di tutti con la sua natura ed il suo aspetto esteriore, e soprattutto quasi brilla tra quelle virtù che ho ricordato, proprio per questa ragione la natura stessa ci spinge ad amare coloro nei quali, secondo noi, esistono quelle virtù. Queste, invero, sono le cause più importanti dell'affetto; possono esisterne, inoltre, parecchie più lievi. Due qualità possono far sì che si abbia fiducia: l'esser stimati in possesso della saggezza congiunta con la giustizia. Infatti abbiamo fiducia in quelli che riteniamo più perspicaci di noi e crediamo capaci di prevedere il futuro e di risolvere una situazione, quando essa si verifichi e si sia giunti ad un momento critico, e di poter prendere una decisione in base alle circostanze; questa, secondo gli uomini, è la vera ed utile saggezza. In verità negli uomini giusti e leali, cioè nei galantuomini, si ripone tanta fiducia da non nutrire nei loro confronti nemmeno il sospetto di frode e di offesa. Perciò pensiamo di poter affidare con tutta sicurezza a questi la nostra salvezza, i nostri beni ed i nostri figli. Di queste due qualità necessarie ad ispirare fiducia ha maggior valore la giustizia, poiché anche senza saggezza essa ha sufficiente prestigio; invece la saggezza senza giustizia non vale ad ispirar fiducia. Quanto più uno è astuto e furbo, tanto più è inviso e sospetto perché gli manca la fama dell'onestà. Per questo motivo la giustizia congiunta all'intelligenza potrà quanto vorrà nell'ispirar fiducia; la giustizia senza la saggezza potrà molto, mentre la saggezza senza la giustizia non varrà niente. Qualcuno potrebbe meravigliarsi del fatto che, mentre tutti i filosofi affermano e d'altra parte anch'io ho sostenuto tale tesi che chi ha una virtù le possiede tutte, ora le separi così, come se qualcuno potesse esser giusto, senza essere nello stesso tempo saggio; ma altro è quella sottigliezza usata quando si definisce accuratamente in una discussione filosofica proprio la verità, altro è quella adoperata quando tutto il discorso si modella in base alle esigenze dell'opinione comune.
Perciò noi ora parliamo, in questo passo, come la gente comune, e alcuni li chiamiamo coraggiosi, altri onesti, altri saggi. Si devono usare termini popolari e comuni nel parlare dell'opinione comune; allo stesso modo si comportò Panezio. Ma ritorniamo al tema che ci eravamo proposti. Dei tre aspetti riguardanti la gloria, il terzo era costituito dal fatto che noi siamo giudicati dagli uomini degni di onore e, nello stesso tempo, di ammirazione. Gli uomini, dunque, ammirano in generale quelle qualità che ritengo grandi e superiori ad ogni loro pensiero; in particolare, poi, se osservano nei singoli individui delle qualità inattese. Perciò essi guardano con ammirazione, e innalzano con grandissime lodi, quegli uomini nei quali pensano di individuare eccellenti e singolari virtù, mentre guardano con commiserazione e disprezzano quelli che, secondo il loro giudizio, non hanno alcuna virtù, alcun coraggio ed alcuna energia. Ma non disprezzano tutti coloro dei quali non hanno stima. Infatti non disprezzano affatto quelli che ritengono disonesti, calunniatori, ingannatori e pronti a far offese, ma ne hanno una cattiva opinione. Perciò, come ho detto prima, vengono disprezzati quelli che non sono come si dice né per sé né per altri, i quali non lavorano, non sono operosi, non s'interessano di nulla. Sono invece ammirati quelli che, secondo l'opinione comune, superano gli altri in virtù e sono scevri d'ogni macchia morale e da quei vizi, ai quali gli altri non possono opporre una facile resistenza. Infatti i piaceri, dolcissimi tiranni, allontanano dalla virtù l'animo della maggior parte degli uomini e, avvicinandosi le fiaccole dei dolori, i più si atterriscono fuor di misura; la vita, la morte, le ricchezze, la povertà sconvolgono profondamente tutti gli uomini. Che disprezzano con animo nobile e superiore queste cose, in un senso e nell'altro, e quando si presenta loro un'impresa nobile ed onesta, e li attira a sé e quasi li rapisce interamente, allora chi non ammira lo splendore e la bellezza della virtù. Il disprezzo di queste cose suscita grande ammirazione; soprattutto la giustizia, l'unica virtù in base alla quale gli uomini sono chiamati onesti, appare straordinaria alla folla: e non a torto. Infatti non può essere giusto chi teme la morte, il dolore, l'esilio o chi antepone alla giustizia il contrario di queste cose. Ammirano soprattutto colui che rimane imperturbabile di fronte al denaro, e ritengono che l'uomo, in cui questa virtù sia stata accertata, abbia superato la prova del fuoco. Perciò la giustizia riunisce tutti e tre gli aspetti che ho sopra esposti per il conseguimento della gloria, ed anche la benevolenza perché vuol giovare a moltissimi e per il medesimo motivo la fiducia e l'ammirazione, perché disprezza e trascura quei beni verso i quali i più, eccitati da un desiderio sfrenato, sono trasportati. Secondo il mio parere, ogni maniera e ordine di vita ha bisogno dell'aiuto degli uomini, in primo luogo perché si abbia con chi poter parlare familiarmente; il che è difficile, se tu non hai l'aspetto di un uomo onesto.
Dunque anche all'uomo solitario e che trascorre la vita in campagna è necessaria la fama di uomo giusto, e tanto più per il fatto che, se non l'avrà, verrà considerato ingiusto non essendo protetto da alcun aiuto sarà offeso molte volte. Ma anche a coloro che vendono, comprano, prendono e danno in affitto e sono occupati in trattative commerciali, la giustizia è necessaria per trattare gli affari, ed è così grande la sua potenza, che neppure quanti si pascono di scelleratezze e misfatti possono vivere senza una sua porzione, sia pur minima. Chi, infatti, ruba o strappa qualcosa ad un membro della banda di ladri cui appartiene, deve abbandonare il suo posto in quella banda; ma colui che è detto capo dei pirati, qualora non distribuisse il bottino in parti uguali, o sarebbe ucciso dai suoi compagni o verrebbe abbandonato. Che anzi si dice che esistano delle leggi proprie dei briganti, alle quali essi obbediscono ed ottemperano. Così per la sua giusta divisione del bottino il brigante illirico Barduli di cui parla Teopompo ebbe grande potenza, e di gran lunga superiore fu quella del lusitano Viriato, di fronte al quale cedettero anche i nostri eserciti ed i nostri generali; ne fiaccò la potenza Gaio Lelio, detto il Sapiente, da pretore, e ne diminuì la ferocia, reprimendola tanto da lasciare ai suoi successori una facile guerra. Dunque, dal momento che è tanto grande la forza della giustizia che anche rafforza ed aumenta la potenza dei briganti, quanto grande penseremo che sia la sua forza nell'applicazione delle leggi, dei tribunali, in uno Stato ordinato. Secondo me, non solo presso i Medi, come dice Erodoto, ma anche presso i nostri antenati sembra che, per godere della giustizia, si creassero re uomini di onesti costumi. Ma poiché la moltitudine in miseria era oppressa da quelli che avevano maggiori ricchezze, essa cercava aiuto presso qualcuno superiore per valore, il quale, proteggendo dalle offese i più deboli, ristabilita l'equità, reggeva con uguale legge i cittadini più potenti ed i più umili. E lo stesso motivo per cui si crearono i re determinò la costituzione delle leggi. Si è sempre ricercato un diritto equo, che altrimenti non sarebbe un diritto. Se il popolo lo conseguiva da un solo uomo, giusto ed onesto, se ne stava tranquillo; ma poiché questo accadeva raramente, si elaboravano leggi che parlassero sempre con una sola e medesima voce a tutti. E' chiaro che di solito si sceglievano per il governo uomini la cui fama di giustizia fosse ben grande presso la moltitudine.se vi si aggiungeva il fatto che essi godevano anche fama di uomini prudenti, non vi era niente che gli uomini non pensassero di poter conseguire sotto la loro guida. La giustizia è da conservare e da rispettare con ogni mezzo, sia per essa stessa altrimenti non sarebbe giustizia che per la grandezza del nostro onore e della nostra gloria. Ma come c'è un mezzo non solo per cercar denaro, ma anche per investirlo in modo da coprire le spese continue non solo quelle necessarie, ma anche quelle di lusso, così la gloria si deve ricercare e sfruttare in modo ragionevole.
E' vero che Socrate diceva, con parole assai famose, che la via più breve e quasi la scorciatoia per la gloria è quella di comportarsi in modo da essere tali, quali si voglia esser stimati. Ma sbagliano in maniera molto grave quanti credono di poter ottenere una gloria duratura con la simulazione e con un vano ostentare, non solo con discorsi falsi, ma anche con l'aspetto esteriore. La vera gloria pone salde radici ed anche si accresce; ogni finzione cade rapidamente come i fiori delicati e non vi può essere alcuna simulazione duratura. Vi sono moltissimi esempi nell'uno e nell'altro caso, ma per brevità ci accontenteremo di quello di una sola famiglia. Si loderà Tiberio Gracco, figlio di Publio, fino a quando durerà il ricordo della romanità; ma i suoi figli da vivi non riscuotevano l'approvazione dei buoni e da morti sono nel novero degli uccisi a giusta ragione. Colui che, dunque, vorrà ottenere la vera gloria di giustizia adempia i doveri della giustizia. E nel libro precedente si è detto quali siano. Ma per sembrare tali quali siamo con la maggior facilità, benché in ciò stesso sia l'efficacia più grande, e cioè nell'essere quelli che vorremmo apparire agli occhi degli altri, tuttavia si devono dare alcuni consigli. Se qualcuno sin dalla giovinezza ha un qualche titolo di celebrità e di rinomanza o ricevuto dal padre e questo è il tuo caso credo o mio Cicerone o per qualche fortunata circostanza, ha f issi su di sé gli occhi di tutti; s'indaga nei suoi riguardi, che cosa faccia, come viva e, come se si trovasse nella luce più piena, così non vi può essere alcuna sua parola o fatto oscuro. Quelli, invece, la cui prima età, per gli umili e oscuri natali, trascorre totalmente ignorata da parte degli uomini, non appena incominciano ad esser giovani dovranno prefiggersi grandi scopi e perseguirli con onesto zelo: e ciò faranno con animo tanto più fermo, poiché quella età non solo non suscita invidia, ma anzi li favorisce. La prima raccomandazione per un giovane che aspira alla gloria consiste, dunque, nel potersi segnalare nelle imprese di guerra: e cosi molti emersero al tempo dei nostri antenati; quasi sempre, infatti, si conducevano guerre. Ma la tua giovinezza incappò in quella guerra, in cui una fazione ebbe troppa scelleratezza, ma l'altra poca fortuna. Tuttavia in quella guerra, poiché Pompeo ti aveva posto a capo di un'ala dell'esercito, ti procurasti lodi da parte di quel sommo uomo e dell'esercito combattendo a cavallo, tirando giavellotti e sopportando ogni fatica militare. E, invero, la tua gloria cadde insieme con la repubblica. Ma io non ho intrapreso questa mia trattazione proprio per te, ma per tutti, in generale. Ritorniamo, perciò, al nostro argomento. Come in ogni altra attività le opere dello spirito sono molto superiori a quelle del corpo, così quelle imprese che ci prefiggiamo con l'ingegno e la ragione, sono più gradite di, quelle compiute con la forza fisica.
Il primo passo, dunque, verso la gloria parte dalla moderazione, unita al sentimento di pietà verso i genitori e alla benevolenza verso i propri familiari. Assai facilmente si fanno riconoscere, e nel modo migliore, quei giovani che si sono affidati ad uomini famosi e sapienti e che hanno buona cura dello Stato; se li frequentano, suscitano l'opinione nel popolo, che diventeranno simili a quelli che proprio essi si sono scelti come modelli. L’essere stato nella famiglia di Publio Mucio servì come raccomandazione al giovane Publio Rutilio nel crearsi fama di onestà morale e sapienza giuridica. Invero Lucio Crasso, ancora adolescente, non mutuò la sua grandissima gloria da qualche parte, ma se la procurò da solo con quella sua requisitoria nobile e gloriosa; e, proprio in quell'età, in cui coloro che si esercitano sogliono ottenere lodi come sappiamo di Demostene in quell'età, dunque, Lucio Crasso dimostrò nel foro di esser già ottimamente capace di ciò che poteva realizzare anche allora in privato con lode. Essendo due le specie di discorsi, di cui l'uno è familiare, l'altro oratorio, non vi è dubbio che il discorso oratorio abbia maggiore efficacia nel procurar la gloria è quello che chiamo eloquenza; ma è difficile a dirsi quanto la cordialità e l'affabilità del parlare concilino gli animi. Esistono delle lettere di Filippo ad Alessandro, di Antipatro a Cassandro e di Antigono al figlio Filippo, tutti e tre uomini assai avveduti tale, infatti, è la tradizione; in esse consigliano di guadagnare alla benevolenza gli animi della folla con un parlare affabile e di ammansire i soldati con un parlare lusinghiero. Quei discorsi solenni che si pronunziano davanti al popolo suscitano spesso la gloria di tutti; è grande, infatti, l'ammirazione per chi parla con facondia e sapienza, e coloro che l'ascoltano lo credono più intelligente e sapiente degli altri. Se vi è nell'orazione una certa gravità mista a moderazione, non vi può esser nulla di più ammirevole, e tanto più se quelle qualità si riscontrano in un giovane. Ma poiché vi sono più generi di cause, che richiedono l'eloquenza, e molti giovani nel nostro Stato hanno conseguito la gloria parlando davanti ai giudici, al popolo e al senato, la più grande ammirazione è rivolta all'eloquenza giudiziaria; due sono le sue specie, d'accusa e di difesa, delle quali, benché sia più degna di lode la difesa, tuttavia molto spesso suscita l'approvazione anche l'accusa. Ho parlato poco fa di Crasso; lo stesso fece Marco Antonio da giovane. Anche l'eloquenza di Publio Sulpicio trasse lustro da un'accusa, quando chiamò in giudizio quel sedizioso e pericoloso cittadino Gaio Norbano. Tuttavia questo non si deve fare spesso, né mai se non in difesa dello Stato, come nel caso di quelli di cui ho parlato prima, o per vendicarsi, come nel caso dei due Luculli, o per difendere altri, come nella mia causa in difesa dei Siciliani e come fece Giulio in difesa dei Sardi, nel caso di Albucio.
Anche nell'accusa contro Manio Aquilio apparve chiara l'operosità di Lucio Fufio. Si accusi, dunque, una sola volta o, almeno, non spesso. Se invece, c'è qualcuno che debba ricorrere più spesso all'accusa, lo faccia come servizio per la patria; non si deve riprendere, difatti, il punire di frequente i suoi nemici. Tuttavia ci vuole misura, perché ci si fa la fama di uomo crudele o piuttosto nemmeno di uomo, nel mettere molti in pericolo mortale. E' pericoloso per se stessi ed anche infamante procurarsi la nomea di accusatore; ciò toccò a Marco Bruto, nato da nobilissima famiglia e figlio di quello che fu tra i migliori esperti di diritto civile. Si deve anche diligentemente osservare questo precetto morale, di non chiamar mai in giudizio capitale un innocente: questa azione non può mai esser compiuta senza un'intenzione colpevole. Che cos'è tanto inumano quanto il rivolgere l'eloquenza, data dalla natura per la salvezza degli uomini e per la loro protezione, alla rovina e al danno delle persone oneste. E, come si deve evitare una tale macchia, ugualmente non dobbiamo farci scrupolo di difendere qualche volta un colpevole, purché non sia uno scellerato ed un empio: lo vuole il popolo, lo ammette la consuetudine e lo sollecita anche il sentimento d'umanità. Il giudice deve seguire sempre il vero nelle cause, avvocato talvolta difendere anche il verosimile, pur se è meno vero; non l'avrei osato scrivere, soprattutto trattando di argomenti filosofici, se non fosse identica l'opinione di Panezio, il più serio degli Stoici. Ma soprattutto le difese procurano gloria e gratitudine, e tanto maggiore, se talora accada di venire in aiuto di qualcuno, che sembra essere assediato ed oppresso dalle ricchezze di un potente, come feci io e molte altre volte e ancora adolescente contro la potenza di Lucio Silla in difesa di Sesto Roscio Amerino; questa orazione, come sai, resta tutt'ora. Ma, esposti i doveri dei giovani che servono a conseguire la gloria, si deve poi parlare della beneficenza e della generosità. Ne esistono due tipi: o si reca sollievo ai bisognosi con qualche azione o col denaro. E' più facile quest'ultima cosa, soprattutto per un uomo ricco, ma la prima è più nobile, più splendida, più degna di un uomo forte ed illustre. Benché in entrambe vi sia la volontà generosa di far del bene, tuttavia l'una azione scaturisce da uno scrigno, l'altra dalla virtù; inoltre l'elargire mettendo mano al patrimonio familiare esaurisce la fonte stessa della beneficenza: cosi la beneficenza sopprime la beneficenza stessa: quanto più tu ne fai, tanto meno te ne puoi servire nei confronti di molte persone. Coloro che, invece, saranno generosi con l'opera, cioè con la virtù e lo zelo, quante più persone avranno beneficato, tanto più troveranno collaboratori nel far del bene; inoltre per l'abitudine di beneficare saranno più preparati e quasi più esercitati a legare a sé molti coi benefici.
Con parole assai elette Filippo, in una lettera, accusa il figlio Alessandro di volersi procurare la benevolenza dei Macedoni con i donativi: Quale calcolo, diamine, ti indusse a tale speranza, sì da farti credere che ti saranno fedeli quelli che tu hai corrotto col denaro. Oppure agisci in modo che i Macedoni sperino di avere in te non il loro re, ma il loro dispensiere e fornitore. Disse bene dispensiere e fornitore, perché è vergognoso per un re; meglio ancora il fatto di aver definito corruzione il donativo: infatti colui che lo accetta diventa peggiore ed anche più pronto ad aspettarsela sempre. Questo dice Filippo al figlio, ma noi dobbiamo giudicarlo un consiglio valido per tutti. Perciò non c'è dubbio che quella beneficenza che consta dell'opera e dello zelo è più onesta e si estende più ampiamente e può giovare a più persone. Tuttavia talvolta si devono fare delle elargizioni e questo genere di beneficenza non si deve del tutto evitare, e spesso bisogna far parte delle proprie sostanze a persone bisognose e meritevoli, pur con diligenza e moderazione. Molti hanno dilapidato i loro patrimoni col donare sconsideratamente. Che cosa c'è di più stolto del fare di tutto per non poter compiere più a lungo ciò che si farebbe volentieri. E le estorsioni tengono dietro alle elargizioni; quando a forza di dare si incomincia ad aver bisogno, si è costretti a porre mano ai beni altrui. Così, pur volendo esser benefici per procacciarsi la benevolenza, non si ottiene tanto l'affetto di quelli ai quali si è elargito, quanto l'odio di quelli ai quali si è tolto. Perciò non bisogna, certo, chiudere a chiave il proprio patrimonio, si che non lo possa aprire la beneficenza, né deve essere tanto dischiuso da divenire accessibile a tutti; si adotti una misura, che sia proporzionata alle proprie possibilità economiche. Dobbiamo senza dubbio ricordarci di ciò che, ripetuto assai spesso dai nostri uomini, è entrato ormai nell'uso proverbiale: il donare non ha fondo. Infatti quale misura potrebbe esserci, quando quelli che vi sono abituati ed altri ancora desiderano la stessa cosa. Vi sono, in genere, due classi di donatori, i prodighi ed i generosi; i prodighi elargiscono il loro denaro in banchetti, distribuzioni di carne e giuochi di gladiatori, nell'allestimento di spettacoli di caccia, in tutti quei divertimenti che lasceranno un breve ricordo o addirittura nessun ricordo; invece i generosi riscattano coi loro mezzi finanziari i prigionieri dai briganti o si accollano i debiti degli amici o li aiutano nel sistemare le figlie o danno loro delle sovvenzioni per acquistare un patrimonio o aumentarlo. Perciò mi meraviglio di quel pensiero che è venuto in mente a Teofrasto nel suo libro sulle ricchezze, in cui ha detto molte cose egregiamente, ma è assurdo questo: è largo, infatti, di lodi per la magnificenza e lo sfarzo delle feste popolari e ritiene frutto delle ricchezze la possibilità di tali allestimenti.
A me, invece, quel frutto della generosità di cui ho fornito pochi esempi sembra molto più grande e sicuro. Con quale maggiore serietà e verità Aristotele ci mette in guardia perché non ammiriamo questi sperperi di denaro, che non hanno altro scopo che adescare il popolo. Dice infatti che se degli assediati dal nemico fossero costretti a comprare un quartino d'acqua al prezzo d'una mina, sulle prime questo ci sembrerebbe incredibile e tutti si meraviglierebbero, ma, ripensandoci, farebbero una concessione alla necessità; noi, invece, non ci meravigliamo affatto di questi eccessivi sprechi e infinite spese, tanto più che così non veniamo incontro ad alcune necessità, e non si accresce la nostra dignità, e quel gran divertimento della moltitudine per breve ed esiguo tempo, ed è goduto dalla gente di rango più basso, in cui, insieme con la sazietà, si spegne anche il ricordo del piacere. E conclude anche giustamente: Questo fa piacere ai fanciulli alle donnicciole, agli schiavi e a quegli uomini liberi assai simili agli schiavi; ma dall'uomo serio, che riflette con fermo giudizio su ciò che accade, non possono essere in alcun modo approvate. Capisco, comunque, che nella nostra città ormai radicato, sin da tempo antico, l'esercizio in maniera assai splendida della carica di edile da parte degli uomini più illustri. Perciò Publio Crasso, ricco di nome e di sostanze, adempi al suo compito di edile con il massimo splendore, e poco dopo, con grandissima magnificenza, Lucio Crasso insieme a Qiunto Muoio, il più moderato di tutti gli uomini; poi Gaio Claudio, figlio di Appio, e in seguito molti, i Luculli, Ortensio e Silano; ma Publio Lentulo, durante il suo consolato, superò tutti i predecessori; lo imitò Scauro; ma con la maggiore magnificenza svolse il suo compito il nostro Pompeo, durante il suo secondo consolato; ma in tutte queste cose tu vedi quale sia il mio pensiero. Tuttavia bisogna anche evitare il sospetto di avarizia. Al ricchissimo Mamerco il rifiuto dell'edilità procurò la sconfitta nelle elezioni per il consolato. Perciò se il popolo richiede un'elargizione, anche se gli uomini onesti non la desiderano, e tuttavia l'approvano, si deve concedere solamente in base alle proprie possibilità economiche, come ho fatto io stesso, specie ogni qualvolta con un donativo popolare si mira a raggiungere uno scopo più importante e più utile, come, or non è molto, i banchetti imbanditi lungo le vie, a titolo di donativo, recarono grande onore ad Oreste. E neppure si imputò a biasimo di Marco Seio il fatto che vendette al popolo, durante una carestia, un moggio di grano per un asse: così si liberò d'una grande e antica odiosità popolare e con una spesa onesta, dal momento che era edile, e nemmeno eccessiva. Ma poco tempo fa ebbe grandissimo onore il nostro Milone, che rintuzzò gli assalti e i furori di Publio Clodio con gladiatori assoldati per conto dello Stato, la cui salvezza dipendeva dalla mia.
Il motivo dell'elargizione è la necessità o l'utilità. Anche nei riguardi di esse la regola migliore è quella del giusto mezzo. Lucio Filippo, figlio di Quinto, uomo di grande ingegno e famoso sopra tutti, soleva vantarsi di aver conseguito tutte quelle cariche che sono ritenute le più importanti senza alcuna elargizione. Lo stesso affermava Cotta e cosi Curione. Anch'io potrei vantarmi in qualche modo di questo; infatti in rapporti all'importanza delle cariche che ottenni con pieno suffragio, proprio nell'anno consentito dalla legge per me il che non toccò a nessuno di quelli che ho or ora citato, fu abbastanza esigua la spesa per l'edìlità. Anche più giuste sono quelle spese di pubblica utilità, come le mura, gli arsenali, i porti, gli acquedotti; benché sia più piacevole quel denaro che si dà quasi in mano, tuttavia queste opere saranno più gradite in futuro. Nel biasimare i teatri, i portici, i nuovi templi, agisco con più ritegno a causa di Pompeo, ma gli uomini saggi non approvano, come lo stesso Panezio, che io ho molto seguito in questi libri, senza però tradurlo, e Demetrio Falereo, che biasima Pericle, il primo dei Greci, per il fatto che profuse tante denaro in quei famosissimi propilei. Ma di tutto questo argomento si è trattato a lungo in quei libri che ho scritto Sulla repubblica. L’intero sistema di tali elargizioni è, dunque, in se stesso dannoso, ma necessario a seconda delle circostanze, ed anche allora deve essere commisurato alle capacità economiche e regolato in base al giusto mezzo. Invece in quell'altro genere di elargizione che parte dalla generosità non dobbiam adottare un'unica regola nelle diverse occasioni. Altra è la condizione di colui che è schiacciato da una sciagura, altra è quella di colui che cerca di migliorare senza trovarsi in alcuna avversità. La beneficenza dovrà essere più sollecita verso i disgraziati, a meno che non saranno degni per caso della loro disgrazia. Tuttavia verso quelli che vogliono essere aiutati, non per evitare la rovina, ma per ascendere ad un grado superiore, non dobbiamo essere in alcun modo avari, ma dobbiamo usare un oculato giudizio nella scelta degli uomini capaci. Assai saggiamente dice Ennio: Giudico malefici i benefici mal collocati. Dal beneficio, dato ad un uomo onesto e grato si ricava doppio frutto e dall'individuo stesso e anche dagli altri. Se si tiene lontana l'avventatezza, la generosità è qualità graditissima, ed i più la lodano con tanto maggior zelo, per il fatto che la bontà dei cittadini più ragguardevoli diventa il rifugio comune di tutti. Ci si deve adoperare sì da concedere al maggior numero di persone possibili i benefici, il cui ricordo si trasmetta ai figli ed ai posteri, perché non sia loro lecito essere ingrati. Tutti odiano colui che è immemore del beneficio, pensano che quell'offesa nell'abbandonare la generosità sia rivolta anche contro loro stessi, e che l'ingrato sia il nemico comune degli umili.
Inoltre questa generosità è utile anche allo Stato, il riscattare i prigionieri dalla schiavitù, l'arricchire i poveri; che appunto questo fu, di solito, il comportamento del nostro ordine, lo vediamo scritto, con abbondanza di esempi, nell'orazione di Crasso. Preferisco, dunque, di gran lunga questa consuetudine di generosità alla concessione di donativi; il primo tipo è proprio degli uomini seri e grandi, il secondo quasi di adulatori del popolo che, per così dire, solleticano col piacere la frivolezza della massa. Converrà esser munifici nel dare e nell'esigere evitare la rigidezza e così esser giusti ed accomodanti nel trattare ogni tipo d'affare, nel vendere e nel comprare, nel dare e nel prendere in affitto, negli affari di vicinato e di confine, cedendo a molti molte cose dei proprio di ritto e tenendosi lontani dalle liti per quanto sia lecito e non so se un po' di più di quanto sia lecito. Infatti non solo, è generoso, ma talvolta anche fruttuoso rinunziare un po', talora, al proprio diritto. Si deve aver cura dei patrimonio familiare, in quanto è scandaloso lasciarlo cadere in rovina, ma lo si deve curare in modo da tener lontano ogni sospetto d'ingenerosità e di avarizia: il poter essere generosi senza spogliarsi del proprio patrimonio è, certamente, il frutto più grande del denaro. Teofrasto loda, a giusta ragione, l'ospitalità. E assai decoroso, pure secondo il mio parere, che le case degli uomini insigni siano aperte ad ospiti insigni, ed è anche motivo di lustro per lo Stato che gli stranieri non manchino in Roma di questo genere di liberalità. E' peraltro anche assai utile per coloro che vogliono onestamente acquistare un gran nome, avere molto credito e favore presso i popoli stranieri per mezzo degli ospiti. Teofrasto scrive che Cimone in Atene era ospitale anche verso i suoi compaesani Laciadi; infatti aveva impartito istruzioni ed ordini ai suoi fattori che qualunque Laciade capitasse nella sua tenuta fosse rifornito di ogni cosa. Quei benefici che si fanno non con donazioni, ma con la nostra opera, tornano a vantaggio di tutto lo Stato e dei singoli cittadini. Infatti l'assistere nei processi, il consigliare e giovare a quanti più è possibile con questo tipo di scienza riguarda molto l'aumento delle ricchezze e della popolarità. Perciò molte sono le insigni applicazioni dei nostri antenati, e tra queste il fatto che furono sempre in grandissimo onore la conoscenza e l'interpretazione del diritto civile, cosi ben ordinato; i principali cittadini, prima di questo sconvolgimento dei tempi, ne conservarono sempre il privilegio; ora come le cariche, come tutti i gradi della dignità, cosi è stato soffocato lo splendore di questa scienza, e questo con infamia tanto maggiore, per il fatto che ciò è avvenuto proprio nel tempo in cui era in vita una persona che avrebbe vinto facilmente, colla sua conoscenza giuridica, tutti i predecessori, ai quali era già pari in onore. Questo aiuto torna gradito a molti e adatto a legare gli uomini coi benefici.
A tale scienza è assai affine, ma più grave più gradita e più elegante, la capacità di parlare. Infatti che cosa supera l'eloquenza o nell'ammirazione degli uditori o nella speranza che fa nascere nei bisognosi, o nella gratitudine di coloro che sono stati difesi. Giustamente anche, dunque, i nostri antenati assegnarono a questa attività il primo posto in dignità tra le occupazioni civili. Ampie possibilità di beneficare e di difendere si aprono all'uomo facondo, che facilmente si addossa la fatica e che, secondo il patrio costume, difende le cause di molti di buon grado e gratuitamente. L’occasione mi spingerebbe a deplorare in questo passo l'interruzione, per non dire la morte, dell'eloquenza, ma temo che sembri che io mi lamenti di qualcosa che mi riguarda di persona. Ma tuttavia possiamo osservare quali oratori siano ormai morti, come siano pochi quelli promettenti, ancor meno quelli dotati delle capacità necessarie, e quanti, invece, posseggano solo la presunzione. Poiché non tutti possono e neppure molti essere giuristi o oratori, è giusto, tuttavia, giovare a molti con la propria opera, chiedendo benefici raccomandandoli ai giudici, ai magistrati, vigilando sui loro interessi, sollecitando quelli stessi che sono consultati o che difendono; quanti fanno ciò conseguono grandissima riconoscenza e la loro attività ha un campo vastissimo. Non si deve ammonire ché la cosa è evidente di star attenti a non offendere alcuni, quando vogliono aiutare altri. Spesso danneggiano chi non devono o chi non conviene danneggiare; se sono imprudenti, si tratta di trascuratezza, se sono consapevoli, allora si tratta di sconsideratezza. Ci si deve scusare presso le persone offese senza volerlo, in qualsiasi modo è possibile, dicendo loro che si è stati costretti a compiere ciò che si è fatto e non si sarebbe potuto agire in modo diverso; e con ogni altro aiuto e servigio bisognerà ricompensare quel torto, che sembrerà essersi commesso. Ma poiché nell'aiutare gli uomini si soliti guardare o ai costumi o alla fortuna, facile a dirsi e così si dice generalmente che nel collocare un beneficio si considerano i costumi degli uomini, non la loro fortuna. E' un parlare onesto; ma chi è, in fin dei conti, che non anteponga, nel dare il suo aiuto, alla causa di un uomo eccellente ma povero la gratitudine di un uomo fortunato e potente. Verso colui dal quale, a parer nostro, ci potrà derivare una più pronta e rapida ricompensa, la nostra volontà è, in genere, più propensa. Ma si deve riflettere più attentamente sulla natura dei casi. Certamente quel povero, se è un uomo onesto, anche se non può restituire il beneficio può, senza dubbio, avere gratitudine. Opportunamente disse, chiunque sia stato: Chi ha denaro non l'ha restituito, colui che l'ha restituito non l'ha più; invece la gratitudine, chi l'ha contraccambiata la prova e chi la prova l'ha contraccambiata. Invece coloro che si ritengono ricchi, onorati, felici non vogliono neppure sentirsi obbligati da un beneficio; che anzi pensano di a ver dato un beneficio, pur avendone essi stessi ricevuto uno grandissimo; e anche sospettano che si chieda loro o da loro si attenda qualche cosa e giudicano alla stessa stregua della morte l'esser ricorsi ad un patrocinio o l'essere chiamati col nome di clienti.
Ma quel povero, qualunque beneficio gli sia stato fatto, ritiene che si sia considerata la sua persona, non la sua fortuna, e si sforza di sembrare riconoscente non solo verso colui che l'ha beneficato, ma anche verso quelli da cui s'attende benefici che ha bisogno di molti, e non accresce a parole la sua opera, se per caso ne compie qualcuna, ma anzi la sminuisce. Bisogna considerare anche questo, che se tu hai difeso un uomo ricco e fortunato, la riconoscenza resta in lui solo o al massimo, nei suoi figli; se, invece, hai difeso una persona povera ma tuttavia onesta e modesta, tutti gli uomini non disonesti, e ve ne sono molti fra il popolo, vedono in te una difesa preparata per loro. Perciò ritengo che sia meglio collocare un beneficio presso i buoni che presso i dotati di fortuna. Bisogna, in genere, adoperarsi per soddisfare persone di ogni classe sociale, ma se si dovrà scegliere, certamente bisognerà seguire l'esempio di Temistocle; avendogli chiesto un tale se dovesse dare la figlia in sposa ad un uomo onesto ma povero o ad un uomo ricco ma meno onesto, rispose: Preferisco, in verità, un uomo che manchi di denaro, anziché il denaro che manchi di un uomo. Ma a causa dell'ammirazione per le ricchezze si corrompono e depravano i costumi; ma la grandezza di esse in che riguarda ciascuno di noi. Forse giova a colui che le possiede, e neppure sempre; ma ammettiamo che giovi: sia pure, ma in qual modo potrà essere più onesto. Che se sarà anche un galantuomo, le sue ricchezze non dovranno impedire che gli si faccia del bene, purché non ne siano la ragione; ogni giudizio riguardi non quanto ciascuno sia ricco, ma quali siano le sue qualità morali. L’ultimo consiglio nel dare benefici e nel rendere servigi è di non fare nulla contro l'equità e nulla a favore dell'ingiustizia; il fondamento di un continuo favore e di una fama perpetua è la giustizia, senza la quale non può esistere nulla degno di lode. E poiché si è trattato di quel genere di benefici che riguardano le singole persone, si deve, poi, discutere di quelli che riguardano tutto l'insieme dei cittadini e lo Stato. Di questi stessi alcuni riguardano tutti i cittadini, altri i singoli, e questi sono anche più graditi. In genere ci si deve adoperare, per quanto possibile, per l'una e l'altra categoria, e, se non è possibile, perché si provveda anche alle singole persone, ma in modo tale che ciò o giovi o almeno non sia d'ostacolo allo Stato. Grande fu la distribuzione di grano di Gaio Gracco: vuotava, perciò, l'erario; moderata quella di Marco Ottavio, tollerabile per lo Stato e necessaria alla plebe, salutare, dunque, per i cittadini e per lo Stato. In primo luogo chi governa uno Stato dovrà badare a che ciascuno conservi il proprio patrimonio e non sia adoperata una decurtazione dei beni privati per opera dello Stato.
Si comportò in modo pericoloso Filippo durante il suo tribunato, proponendo la legge agraria, che, tuttavia, egli permise facilmente che fosse abrogata, dimostrandosi in questo molto moderato; ma come nella sua attività disse molte cose in modo gradito al popolo, così fu dannosa quella sua affermazione: Non ci sono nelle città duemila persone che abbiano una proprietà. E' un discorso criminale, che porta al livellamento dei beni; quale peste può esser più rovinosa di questa. Soprattutto per questo motivo, cioè per conservare le proprietà, si sono costituiti gli Stati e le città. Infatti gli uomini si fossero riuniti in società per l'impulso della natura, tuttavia cercavano la protezione delle città nella speranza di difendere i propri averi. Si deve fare in modo che non si applichino tasse il che presso i nostri antenati accadeva spesso per la scarsezza dell'erario e la frequenza delle guerre, e perché ciò non accada bisognerà prendere provvedimenti molto tempo prima. Se invece una qualche necessità di un tale contributo si presenterà ad uno Stato preferisco fare questa supposizione per un altro Stato piuttosto che per il nostro, e, del resto, non parlo solo del nostro, ma di ogni Stato, ci si dovrà adoperare a che tutti capiscano che si devono sottomettere alla necessità, se vogliono essere salvi. Anche tutti quelli che governeranno uno Stato dovranno provvedere a che ci sia abbondanza dei generi necessari per il sostentamento. Non è necessario trattare come si soglia e si debba provvedere a procurarseli: è stato sufficiente l'avervi accennato. Il punto principale nella cura d'ogni affare e nell'amministrazione d'ogni pubblico ufficio è l'evitare anche il minimo sospetto di avidità. Oh, se la sorte disse il Sannita Gaio Ponzio mi avesse riservato per quei tempi, e fossi nato allora, quando i Romani cominciarono ad accettare doni. Non avrei tollerato più a lungo che essi mantenessero il dominio. E non si sarebbero dovuti attendere neppure molti secoli, perché ora anche questo male è entrato nel nostro Stato; e perciò sono ben lieto che Ponzio sia vissuto piuttosto allora, se veramente egli ebbe una così grande energia morale. Non sono ancora trascorsi centodieci anni da quando Lucio Pisone propose la legge contro i delitti dì concussione, mentre prima non ce n'era stata alcuna; ma dopo, in verità, tante furono le leggi e le più recenti anche più severe, tanti i colpevoli, tanti i condannati, tanto grave la guerra italica scoppiata per la paura dei processi, e tante le spoliazioni e le estorsioni degli alleati, essendo state abrogate le leggi ed i tribunali, che siamo salvi per la debolezza degli altri, non per il nostro valore. Panezio loda l'Africano per il fatto che fu disinteressato. Ma perché mai. In lui ci furono altre doti maggiori; la lode di integrità non è solo propria di quell'uomo, ma anche di quei tempi. Paolo s'impadronì di tutto il tesoro dei Macedoni, che era enorme, e versò nell'erario tanto denaro che il bottino di un solo generale permise di mettere fine alle tasse.
Ma egli non portò niente a casa sua, tranne il ricordo eterno del nome. L’Africano imitò il padre, e, abbattuta Cartagine, non fu per niente più ricco. E che. Colui che fu suo collega nella pretura, Lucio Mummio, forse che diventò più ricco dopo aver distrutto sin dalle fondamenta una città ricchissima. Preferì abbellire l'Italia piuttosto che la sua casa; benché, abbellita l'Italia, la sua stessa casa mi sembra più ornata. Nessun vizio, dunque, è più vergognoso per riportare il discorso là donde si è allontanato, dell'avidità, soprattutto nei capi e negli amministratori di uno Stato. Considerare, difatti, lo Stato come fonte di guadagno non solo è vergognoso, ma anche scellerato ed empio. Perciò quell'oracolo proferito da Apollo Pizio, e cioè che Sparta non sarebbe perita per nessun'altra causa se non per l'avidità, mi sembra che sia stato predetto non solo per gli Spartani, ma anche per ogni popolo ricco. Coloro che sono a capo di uno Stato non possono con alcun altro mezzo procacciarsi più facilmente la benevolenza della moltitudine che con l'integrità morale e la moderazione. Quelli, invero che vogliono essere popolari e sollevano, perciò, o la questione agraria, per scacciare i proprietari dai loro possessi, o pensano che si debbano condonare i debiti dì denaro ai debitori, sconvolgono le fondamenta dello Stato, in primo luogo la concordia, che non può sussistere quando si strappa agli uni e si condona denaro agli altri; in secondo luogo l'equità, che è eliminata completamente se non è lecito a ciascuno avere il suo. Ciò, infatti, costituisce la caratteristica specifica come ho già detto prima di una città e di uno Stato, che ciascuno abbia libero e tranquillo possesso dei propri averi. In questa rovina dello Stato essi non conseguono neppure quella popolarità che si aspettano. Infatti è loro nemico colui al quale i beni sono stati strappati; colui al quale è stato elargito, finge anche di non aver mai voluto accettare, e soprattutto nel caso del condono dei debiti nasconde la sua gioia, perché non sembri che egli non era stato in grado di pagarli. Ma colui che ha ricevuto l'ingiustizia, la ricorda e porta ben manifesto il suo risentimento, e, se sono più quelli ai quali è stato dato ingiustamente di quelli ai quali si è tolto ingiustamente, non per questo hanno più forza. Queste cose non si giudicano dal numero, ma dalla gravità