Traduzione De officiis, Cicerone, Versione di Latino, Libro 01; 03
Traduzione in italiano del testo originale in Latino del Libro 01; parte 03 dell'opera De officiis di Marco Tullio Cicerone
DE OFFICIIS: TRADUZIONE DEL LIBRO 01; PARTE 03
Or bene, la comunanza del sangue lega gli uomini con la benevolenza e l'amore. E davvero una gran cosa avere le stesse mernorie degli avi, compiere gli stessi riti sacri, avere in comune i sepolcri. [Ma fra tutte le forme di società, la più nobile e la più salda è quella che nasce quando uomini virtuosi, affini per carattere, si stringono fra loro di sincera e profonda amicizia; perché quell'onestà, di cui parlo spesso, ha un potere tale che, se la scorgiamo anche in altri, allora ci tocca il cuore, e ci rende amici di colui nel quale crediamo di trovarla. E benché ogni virtù ci attragga a sé e ci faccia amare coloro nei quali sembra che essa risieda, tuttavia la giustizia e la liberalità sono quelle che producono più specialmente questo effetto. [E niente è più atto a destare amore e a stringere i cuori che la somiglianza dei costumi nelle persone dabbene: quando due uomini hanno gli stessi interessi e le stesse aspirazioni, allora avviene che ciascuno dei due ami l'altro come se stesso, e si avvera quello che Pitagora vuole nell'amicizia, che, cioè, di più anime si faccia un'anima sola]. Grande è ancora quella unione che nasce da vicendevole scambio di benefici: finché questi sono reciproci e graditi, una salda alleanza lega tra loro benefattori e beneficati. Ma quando avrai ben considerato ogni cosa con la mente e col cuore, vedrai che fra tutte le forme di società la più importante e la più cara è quella che lega ciascuno di noi allo Stato. Cari sono i genitori, cari i figliuoli, cari i parenti e gli amici; ma la patria da sola comprende in sé tutti gli affetti di tutti. E quale buon cittadino esiterebbe ad affrontare la morte per lei, se il suo sacrifizio dovesse giovarle? Tanto più esecrabile, dunque, è la crudeltà di codesti facinorosi che, con ogni sorta di scelleratezze, fecero strazio della loro patria, e a nient'altro furono e sono intenti che a distruggerla dalle fondamenta. Ma, se si vuole fare una gara e un confronto per sapere a chi dobbiamo rendere maggior ossequio, abbiano il primo posto la patria e i genitori, ai quali noi dobbiamo i più grandi benefici; vengano subito dopo i figliuoli e tutta la famiglia, che tiene fisso lo sguardo in noi soli e in noi soli trova il suo unico rifugio; seguano poi i parenti che sono in buona armonia con noi, i parenti coi quali noi abbiamo per lo più in comune anche la sorte. Perciò gli aiuti necessari alla vita si devono principalmente a questi che ho nominato; ma la comunanza e l'intimità del vivere, i consigli, i discorsi, le esortazioni, i conforti, talora anche i rimproveri, hanno il loro massimo valore nell'amicizia, e amicizia dolcissima è quella originata dall'affinità di carattere.
Ma, nell'adempimento di tutti questi doveri, dobbiamo guardare a ciò di cui ciascuno ha maggior bisogno, e a ciò che ciascuno anche senza di noi può o non può conseguire. Così non sempre ai gradi degli obblighi sociali corrispondono quelli delle circostanze, e ci son certi servigi che è doveroso prestare ad alcuni piuttosto che ad altri. Così, per esempio, nel tempo della raccolta, aiuterai più sollecitamente il vicino che non il fratello o l'amico; per contro, se si discute una lite in tribunale, difenderai il parente o l'amico piuttosto che il vicino. [Queste e altre simili considerazioni si debbono fare in ogni sorta di beneficenza, e si deve acquistar molta pratica, per diventar buoni calcolatori dei doveri, e vedere, sommando e sottraendo, quale ne sia il residuo, onde comprendere l'entità del nostro debito verso ciascuno]. Ancora come i medici, i generali, gli oratori, pur avendo bene appreso le regole teoriche, non possono conseguir nulla che meriti gran lode senza l'esperienza e la pratica, così, regole e precetti sulla rigorosa osservanza dei doveri, se ne impartiscono, come appunto sto facendo io, ma la vastità e la varietà della cosa richiedono anche esperienza e pratica. E così credo d'aver chiarito abbastanza in che modo, da quei principi che si fondano sul diritto dell'umana convivenza, derivi l'onestà, da cui dipende a sua volta il dovere. Ma bisogna pur riconoscere che, delle quattro virtù che io ho esposto innanzi e da cui procedono l'onestà e il dovere, la più splendida è certamente quella che risiede in un animo grande ed elevato, il quale disprezza i beni esteriori. Ecco perché, quando si tratta di fare un rimprovero a qualcuno, ci corrono subito alle labbra parole come queste: Voi, o giovani, avete un cuore di donna; quella fanciulla, invece, ha un cuore d'eroe, o come queste altre: 0 Salmacide (= effeminato), prenditi il bottino, che non ti costa né sudore né sangue. All'opposto, quando si tratta di lodare, tutte quelle azioni che furono compiute con grandezza e fortezza d'animo, noi le esaltiamo, non so come, con voce più alta e più chiara. Di qui, quella larga messe di esempi che offrono ai maestri d'eloquenza le battaglie di Maratona, di Salamina, di Platea, delle Termopili, di Leuttra; di qui quella gloria onde risplendono i nostri eroi: Orazio Coclite, i Decii, Gaio e Publio Scipione, Marco Marcello e innumerevoli altri; ma soprattutto il popolo romano, meraviglioso campione di magnanimità. Inoltre mette in chiara luce il nostro amore per la gloria delle armi il fatto che anche le statue noi le vediamo generalmente in abito militare. Ma quella grandezza d'animo che si manifesta nei pericoli e nelle difficoltà, se manca di giustizia e combatte, non per il pubblico bene, ma per i suoi particolari interessi, è in colpa: perché l'egoismo non solo è estraneo alla virtù, ma piuttosto è proprio della brutalità, che esclude e respinge ogni gentilezza umana.
Pertanto gli Stoici ben definiscono la fortezza, quando affermano che essa è quella virtù che combatte in difesa della giustizia. Nessuno, perciò, che abbia conseguito fama di fortezza con inganni e con malizia, ha mai ottenuto una vera gloria: non c'è onestà se non c'è giustizia. Bellissima, dunque, quella frase di Platone: Non solo quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso, non dal bene comune, ma da un suo personale interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza. Noi vogliamo pertanto che gli uomini forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni impostura: qualità queste che scaturiscono dall'intima essenza della giustizia. Ma è ben penoso vedere come in seno a questa elevatezza e grandezza d'animo nasca assai facilmente l'ostinazione e un'eccessiva bramosia di primato. A quel modo che, come scrive Platone, lo spirito pubblico degli Spartani non ardeva che d'amor di vittoria, così, quanto più uno eccelle per grandezza d'animo, tanto più agogna d'essere il primo, o piuttosto il solo fra tutti. D'altra parte, quando si è posseduti dal desiderio di essere superiore a tutti, è ben difficile mantenere l'equità, che è il principale attributo della giustizia. Onde avviene che gli ambiziosi non si lasciano vincere, né da buone ragioni, né da alcuna autorità di diritto e di leggi; ed ecco emergere per lo più nella vita pubblica corruttori e partigiani, che altro non vogliono se non acquistare quanta più potere è possibile, ed essere superiori nella forza piuttosto che pari nella giustizia. Ma quanto più è difficile, tanto più è bella la moderazione: non c'è momento della vita che possa sottrarsi all'imperativo della giustizia. Forti e magnanimi, adunque, si devono stimare non quelli che fanno, ma quelli che respingono l'ingiustizia. E la vera e sapiente grandezza d'animo giudica che quell'onestà, a cui tende soprattutto la natura umana, sia riposto non nella fama, bensì nelle azioni, e perciò non tanto vuol sembrare quanto essere superiore agli altri. In verità, chi dipende dal capriccio d'una folla ignorante, non deve annoverarsi fra gli uomini grandi. D'altra parte, l'animo umano, quanto più è elevato, tanto più facilmente è spinto a commettere azioni ingiuste dal desiderio della gloria; ma questo è un terreno assai sdrucciolevole, perché è difficile trovare uno che, dopo aver sostenuto fatiche e affrontato pericoli, non desideri, come ricompensa delle sue imprese, la gloria. Generalmente la fortezza e la grandezza dell'animo si manifestano principalmente in due modi: l'uno consiste nel disprezzo dei beni esteriori, posto il principio che l'uomo non deve né ricercare né desiderare né ammirare cosa alcuna che non sia onesta e decorosa, e non deve sottostare, né ad alcun uomo, né ad alcuna passione, né ad alcun evento di fortuna; l'altro modo (ove tu sia in quella disposizione dello spirito che ora ho detto), consiste nell'operare bensì azioni grandi e soprattutto utili, ma anche straordinariamente difficili, e piene di travagli e di pericoli, come per la vita, così per molte cose che servono alla vita.
Di questi due modi, tutto lo splendore e tutta la magnificenza, aggiungo anche tutta l'utilità, tutto questo è nel secondo; ma la vera causa efficiente della grandezza d'animo è nel primo: in questo risiede l'intima ragione che fa gli animi veramente grandi e superiori alle cose umane. E appunto questa forza morale si riconosce- dicevo - per due contrassegni: giudicare buono solo ciò che è onesto e l’essere liberi da ogni passione. In verità, se il giudicare meschine quelle cose che ai più sembrano straordinarie e magnifiche, e quindi disprezzarle con fermo e costante proposito è proprio d'un animo forte e grande, senza dubbio il sopportar quelle cose che sembrano penose, quelle che, numerose e varie, accadono nella travagliata e tempestosa vita umana, in modo che tu non ti discosti per nulla dallo stato naturale dell'uomo, per nulla dalla dignità del sapiente, questo è proprio di un animo solido e di una grande fermezza. D'altra parte, non sarebbe ragionevole che chi non si lascia abbattere dalla paura, si lasciasse abbattere dalla cupidigia, e chi si è mostrato invincibile alla fatica, si lasciasse vincere dal piacere. Bisogna perciò evitare queste contraddizioni, e rifuggire anche dall'avidità del denaro: non c'è cosa che dimostri grettezza e bassezza d'animo quanto l'amor delle ricchezze; al contrario, nulla è più onesto e più nobile del disprezzo verso il denaro, se non lo possiedi; se lo possiedi, impiegarlo in una benefica elargizione. Bisogna anche guardarsi, come ho già detto, da uno sfrenato desiderio di gloria, perché ci toglie la libertà dello spirito, quella libertà che gli uomini magnanimi devono conquistare e difendere con forza. D'altra parte, non bisogna neppure aspirare ai supremi poteri, o, per meglio dire, talvolta conviene non accettarli, talora anche deporli. Sia l'animo tuo sgombro da ogni passione, non solo dalla cupidigia e dalla paura, ma anche, e specialmente, dalla tristezza, dalla eccessiva allegria e dalla collera, perché tu abbia quella tranquilla serenità che porta con sé fermezza e soprattutto dignità. Molti sono e molti furono quelli che, aspirando a questa tranquillità di cui parlo, rinunziarono ai pubblici uffici per cercare un rifugio nella pace d'una vita appartata: fra questi troviamo celebratissimi filosofi, veri principi del sapere, e certi uomini austeri e autorevoli che non seppero adattarsi ai capricci del popolo o dei potenti; e non pochi di essi passarono la vita in campagna, trovando il loro piacere nella cura del loro patrimonio. Tutti costoro non ebbero altro ideale che questo: vivere da re: vale a dire, non aver bisogno di nulla, non obbedire a nessuno e godere di quella libertà, che consiste nel vivere come si vuole. Ora, benché questo ideale sia comune agli ambiziosi, avidi di potenza, e agli spiriti pensosi, amanti della quiete, gli uni non credono di poterlo conseguire se non con l'aiuto di grandi ricchezze, gli altri invece col ritenersi soddisfatti della loro fortuna. E in questo, a dir vero, non si può dar torto né agli uni né agli altri; mentre, però, la vita degli uomini appartati e tranquilli è più facile e sicura, e meno gravosa o dannosa agli altri, più utile invece all'umano genere, e più adatta a conferire splendore e grandezza, è la vita di coloro che si consacrano al governo dello Stato e al compimento di grandi imprese.
Perciò si può forse concedere di non occuparsi dello Stato a quelli che, dotati di singolare ingegno, si dedicano agli studi, e a quelli che, impediti o dalla malferma salute o da qualche altra più grave causa, si ritraggono dalle cure dello Stato, cedendo ad altri il potere e la gloria di amministrarlo; ma a quelli che non hanno nessun motivo del genere, credo che non solo siano poco meritevoli di approvazione, ma anzi meritevoli di colpa, se adducono il pretesto di nutrire disprezzo per quelle cose che i più ammirano, cioè i comandi militari e le cariche civili: è vero che sarebbe difficile non approvare il loro proposito, in quanto dichiarino di non tenere in nessun conto la gloria; ma il male è che essi hanno tutta l'aria di temere, insieme alle fatiche e alle noie, anche i contrasti e gl'insuccessi, come una specie di disonore e d'infamia. Ci sono alcuni che, in casi del tutto opposti, non eccellono per troppa coerenza: disprezzano con estrema energia il piacere e nel dolore si abbattono; non si curano della gloria e si avviliscono per l'infamia; e anche in tali contraddizioni sono incoerenti. Quelli, però, a cui natura elargì attitudini e mezzi per governare, devono, senz'alcuna esitazione, cercare di ottenere le magistrature e partecipare al governo: non c'è altro modo perché lo Stato si regga e la grandezza d'animo si manifesti. D'altra parte, quelli che vogliono entrare nella vita pubblica, devono, non meno, anzi forse più dei filosofi, armarsi di fortezza e di disprezzo dei beni esteriori come vado dicendo da tempo, e anche di tranquilla serenità d'animo, se pur vogliono vivere, non già in affannosa inquietudine, ma con dignitosa fermezza. Il che riesce tanto più facile ai filosofi, quanto meno essi, nella loro vita, offrono aperto il fianco ai colpi di fortuna, e quanto minori sono i loro bisogni; e anche perché, se qualche avversità li colpisce, non possono cadere con tanta rovina. Perciò, non senza ragione, più vigorosi slanci dell'animo e più generoso desiderio d'operare si accendono in colui che sta al governo che non negli uomini appartati e tranquilli; e perciò tanto più l'uomo di Stato deve armarsi di grandezza d'animo e serbarsi libero da ogni affanno. D'altra parte, chiunque s'accosta agli affari pubblici, si guardi bene dal considerar soltanto l'onore che gliene possa derivare, ma badi anche d'avere le forze adatte a realizzare i suoi progetti. E anche in questa considerazione, si guardi da due pericoli: dal disperare senza ragione per fiacchezza d'animo e dall'aver troppa fiducia in se stesso per smaniosa ambizione. Del resto, in ogni sorta d'impresa, prima di mettersi all'opera, occorre una diligente preparazione. Generalmente si crede che le imprese di guerra abbiano maggior importanza che le opere di pace: questa opinione deve essere corretta. E' ben vero che molti, in ogni tempo, cercarono occasioni di guerra per solo desiderio di gloria, e ciò per lo più accade in persone di grande animo e di grande ingegno, tanto più se hanno attitudine all'arte militare e istintivo desiderio di guerreggiare; ma, se vogliamo giudicare secondo verità, la storia ci offre molti esempi di azioni civili ancor più grandi e più belle delle imprese guerresche.
Si lodi pure a buon diritto Temistocle; sia pure il suo nome più illustre di quello di Solone, e si chiami Salamina a testimonianza d'una famosissima vittoria, per anteporla al provvedimento col quale Solone per la prima volta istituì l'Areopago; ma questo provvedimento è da giudicarsi non meno luminoso di quella vittoria: questa non giovò che una sola volta, quello invece gioverà in ogni tempo allo Stato. E' questo consesso che custodisce le leggi d'Atene; è questo che preserva le istituzioni degli avi. E mentre Temistocle non potrebbe vantarsi d'aver giovato in nulla all'Areopago, Solone avrebbe invece ogni ragion di dire che egli giovò a Temistocle, in quanto la guerra fu condotta per consiglio di quel senato che Solone aveva istituito. Lo stesso può dirsi di Pausania e di Lisandro, le cui imprese, pur avendo ampliato, come si crede, l'impero agli Spartani, tuttavia non si possono neppure lontanamente paragonare con le leggi e gli ordinamenti di Licurgo; anzi, proprio in virtù di questi, essi ebbero eserciti più disciplinati e più agguerriti. Secondo il mio parere, Marco Scauro, al tempo della mia fanciullezza, non era inferiore a Gaio Mario, e così Quinto Catulo, al tempo della mia attività politica, non era da meno di Gneo Pompeo: poco valgono gli eserciti in campo, se non c'è il buon consiglio in patria. E lo stesso Africano, uomo e generale veramente unico, distruggendo Numanzia, non giovò allo Stato più di quel che giovò, nel medesimo tempo, Publio Nasica, cittadino privato, uccidendo Tiberio Gracco. Si dirà che quest'azione non rientra solo nella ragione politica, ma riguarda anche la militare, in quanto fu compiuta con la forza delle armi; ma appunto quest'uso della forza avvenne per deliberazione civile e senza intervento dell'esercito. Ottima è quella mia sentenza, contro la quale, a quel ch'io sento, si scagliano i soliti maligni e gl'invidiosi: Cedano l'armi alla toga, ceda l'alloro del capitano alla gloria del cittadino. Per tralasciare altri casi, quando io reggevo il timone dello Stato, forse le armi non cedettero alla toga? Mai lo Stato corse più grave pericolo e mai godette più sicura pace. Con tanta prontezza, in virtù dei miei provvedimenti e della mia vigilanza, caddero da se stesse le armi dalle mani di temerari e facinorosi cittadini. Quale impresa così grande, dunque, fu mai compiuta in guerra? Quale trionfo di capitano può paragonarsi con questo di magistrato? Lascia, Marco, figlio mio, lascia che io me ne vanti con te, poiché spetta a te ereditare questa mia gloria ed emulare queste mie azioni. Certo è che un uomo, colmo di gloria militare, Gneo Pompeo, mi fece l'onore di affermare alla presenza di molti che invano egli avrebbe riportato il suo terzo trionfo se, per le mie benemerenze patriotticlie, egli non avesse avuto una patria, ove trionfare. Le prove di fortezza che si danno in pace non sono dunque inferiori alle prove che si danno in guerra; ché anzi quelle richiedono maggiore fatica maggiore impegno di queste.
In conclusione, quella particolare onestà che noi cerchiamo in un animo grande ed elevato, deriva dalle forze dello spirito, non già da quelle del corpo. Il corpo bisogna esercitarlo, e disporlo in maniera che possa obbedire ai consigli della ragione, sia nel disbrigo degli affari, sia nel sopportare la fatica. Insomma, quell'onestà, che con tanta cura andiamo cercando, risiede tutta nell'attività dello spirito e, principalmente, nel pensiero. E, a questo riguardo, recano non minor vantaggio al bene comune coloro che, come magistrati, presiedono allo Stato, di coloro che, come capitani, attendono alla guerra. Il fatto è che spesso, per l'avveduto consiglio dei magistrati, le guerre, o non furono intraprese, o furono condotte a termine; talvolta furono anche dichiarate, come fu dichiarata per consiglio di Marco Catone la terza guerra punica, quella guerra in cui trionfò la sua autorevole volontà pur dopo la sua morte.