Traduzione De divinatione, Cicerone, Versione di Latino, Libro 02; 01
Traduzione in italiano del testo originale in latino del Libro 02; parte 01 dell'opera De divinatione di Cicerone
DE DIVINATIONE: TRADUZIONE DEL LIBRO 02; PARTE 01
Mi sono chiesto e ho molto e lungamente riflettuto come avrei potuto giovare alla maggior parte dei miei concittadini, per non essere costretto in nessun caso a smettere di agire a vantaggio dello Stato;la soluzione migliore che mi venne in mente fu di render note ad essi le vie per raggiungere le più elevate attività dello spirito;credo di aver già ottenuto questo scopo con molti miei libri.Nell'opera intitolata Ortensio ho esortato i lettori, quanto più ho potuto, allo studio della filosofia; nei quattro Libri Accademici ho mostrato quale sia, a mio parere, l'indirizzo filosofico meno arrogante e più coerente ed elegante.E poiché la base della filosofia consiste nello stabilire qual è il sommo bene e il sommo male, ho chiarito a fondo questo argomento in un'opera composta di cinque libri, in modo da far comprendere che cosa ciascun filosofo sostenesse e che cosa gli obiettassero i suoi avversari.Nei libri delle Discussioni Tusculane, venuti sùbito dopo, altrettanti di numero, ho esposto ciò che soprattutto è necessario a raggiungere la felicità.Il primo di essi tratta del disprezzo della morte; il secondo del modo di sopportare il dolore fisico; il terzo del mitigare le afflizioni dello spirito; il quarto di tutte le altre perturbazioni dell'anima; il quinto affronta quell'argomento che più di tutti dà splendore alla filosofia, giacché dimostra che la virtù basta a se stessa per ottenere la felicità.Esposti quegli argomenti, ho portato a termine i tre libri Sulla natura degli dèi, nei quali questo problema è discusso da ogni punto di vista.E perché l'esposizione fosse completa e del tutto esauriente, ho intrapreso a scrivere questi due libri Sulla divinazione; se ad essi aggiungerò, come mi riprometto, un'opera Sul fato, tutto questo problema sarà stato trattato in modo da soddisfare anche i più esigenti.A questi libri, inoltre, vanno aggiunti i sei Sulla Repubblica, che scrissi quando reggevo il timone dello Stato: argomento fondamentale e appartenente anch'esso alla filosofia, già trattato amplissimamente da Platone, Aristotele, Teofrasto e da tutta la schiera dei Peripatetici.E che dire della Consolazione?Anche a me essa arreca qualche conforto; agli altri, del pari, credo che gioverà molto.Poco fa ho inserito il, libro Sulla vecchiezza, che ho dedicato al mio Attico; e siccome più che mai la filosofia rende l'uomo buono e forte, il mio Catone è da annoverare fra i libri filosofici. E se Aristotele e con lui Teofrasto, eccellenti sia per acume d'ingegno sia per facondia, aggregarono alla filosofia anche i precetti dell'arte del dire, ne risulta che le mie opere retoriche devono appartenere anch'esse alla schiera dei miei libri filosofici: vi apparterranno, dunque, i tre libri Dell'oratore, per quarto il Bruto, per quinto l'Oratore.A questo punto ero arrivato; al resto del lavoro mi accingevo, con animo alacre, col fermo proposito di non tralasciate alcun argomento filosofico la cui esposizione io non rendessi accessibile in lingua latina, a meno che qualche motivo più importante non si fosse frapposto.
Quale servizio maggiore o migliore, in effetti, io potrei rendere alla mia patria, che istruire e formare la gioventù, specialmente in questi tempi di corruzione morale in cui è talmente sprofondata da rendere necessario lo sforzo di tutti per frenarla e ridarle il senso dei dovere? Non m'illudo, beninteso, di poter raggiungere lo scopo, che non si può nemmeno pretendere, di indurre tutti i giovani a questi studi. Potessi indurvene anche pochi! La loro attività potrà pur sempre espandersi largamente entro lo Stato.Del resto, io mi considero remunerato della mia fatica anche da quelli che, già avanti negli anni, trovano conforto nei miei libri; dal loro desiderio di leggere trae sempre maggior ardore, di giorno in giorno, il mio desiderio di scrivere; e ho saputo che essi sono più numerosi di quanto io pensassi. anche una cosa magnifica, e un motivo di orgoglio per i romani, il non aver bisogno, per la filosofia, di opere scritte in greco; e questo risultato lo raggiungerò certamente, se riuscirò a portare a termine il mio progetto. A dire il vero, l'impulso a dedicarmi alla divulgazione della filosofia mi venne da un doloroso evento della patria: nella guerra civile non potevo né difendere lo Stato secondo il mio solito, né stare senza far nulla; e nemmeno trovavo qualcosa di meglio da fare, che fosse degno di me. Mi perdoneranno, dunque, i miei concittadini, o meglio mi saranno grati, se io, nel tempo in cui lo Stato era in potere di uno solo, non mi sono tenuto nascosto né mi sono perduto d'animo né mi son lasciato abbattere, né mi sono comportato come se fossi preso da ira verso l'uomo o verso i tempi, né, d'altra parte, ho adulato o ammirato la sorte altrui, in modo da sembrare pentito della sfortuna che mi ero procurato. Proprio questo, infatti, avevo imparato da Platone e dalla filosofia: che vi sono dei mutamenti naturali delle istituzioni politiche, per cui esse sono dominate talvolta da un gruppo di oligarchi, talaltra dalla parte popolare, in certe circostanze da un solo uomo.E poiché quest'ultimo caso era accaduto al nostro Stato, io, reso privo delle mansioni politiche di un tempo, ritornai a questi studi, sia per sollevare il più possibile l'animo dall'angoscia in cui mi trovavo, sia per rendermi utile ai miei concittadini in tutto ciò che potevo.Nei miei libri facevo le mie dichiarazioni di voto, pronunciavo i miei pubblici discorsi, consideravo la filosofia come un sostituto di quella che per me era stata l'amministrazione dello Stato.Ora, poiché si ricomincia a chiedere il mio parere su questioni politiche, è doveroso occuparsi di politica, anzi, ad essa bisogna rivolgere ogni pensiero ed ogni attività, riservando allo studio della filosofia solo il tempo che rimarrà libero dai compiti e dai doveri pubblici.Ma di questo parleremo più a lungo un'altra volta; ora ritorniamo alla discussione che avevamo intrapreso.Dopo che mio fratello Quinto ebbe detto sulla divinazione ciò che ho riferito nel libro precedente, e ci parve di aver passeggiato abbastanza, ci mettemmo a sedere nella biblioteca che vi è nel Liceo.E io dissi: Con impegno, Quinto, e da vero stoico hai difeso la dottrina degli stoici; e, con mio grandissimo piacere, ti sei servito di moltissimi esempi tratti da cose romane: esempi famosi e gloriosi.Io devo dunque rispondere alle cose che hai detto; ma in modo da non affermare nulla dogmaticamente, da porre sempre dei problemi, esponendo per lo più dei dubbi e diffidando di me stesso.Se, infatti, avessi da dire qualcosa di sicuro, anch'io, che nego l'esistenza della divinazione, mi comporterei come un indovino!E in verità mi fa impressione ciò che soprattutto era solito domandare Carneade: a quali oggetti si riferisce la divinazione.A quelli che si percepiscono coi sensi?Ma questi noi li vediamo, li udiamo, li gustiamo, ne sentiamo l'odore, li tocchiamo.C'è dunque in questi oggetti qualcosa che riusciamo a intuire mediante la previsione o l'esaltazione della mente anziché con le sole nostre facoltà naturali?O forse codesto presunto indovino, se fosse cieco come fu Tiresia, potrebbe dire quali cose sono bianche, quali nere, o, se fosse sordo, saprebbe distinguere le varie voci o le tonalità del canto?Dunque la divinazione non è applicabile a nessuna di quelle cose che sono oggetto di sensazione.D'altra parte, non c'è bisogno della divinazione nemmeno in ciò che è còmpito dell'attività intellettuale e pratica.Al capezzale dei malati non siamo soliti chiamare profeti o indovini, ma medici;né quelli che vogliono imparare a suonare la cetra o il flauto ne apprendono la tecnica degli arùspici, ma dai musicisti.Lo stesso ragionamento vale per le lettere e per tutte le altre materie che sono oggetto d'insegnamento.Credi forse che quelli che hanno fama di essere indovini siano capaci di dire se il sole sia più grande della terra o tanto grande quanto lo vediamo, e se la luna risplenda di luce propria o riflessa dal sole?quale movimento abbiano il sole e la luna?quali le cinque stelle che chiamiamo erranti?Quegli stessi che son ritenuti indovini non presumono di saper dire queste cose, né di pronunciarsi sulla verità o falsità delle nozioni acquisite mediante figure geometriche: queste son cose di pertinenza dei matematici, non dei profeti.Quanto, poi, alle questioni filosofiche, ce n'è forse qualcuna a cui qualsiasi indovino sia solito dare una risposta, o per cui venga consultato allo scopo di sapere che cosa sia bene, che cosa male, che cosa indifferente?No, sono questioni proprie dei filosofi.E ancora.
C'è qualcuno che consulta un arùspice su un dovere da compiere, quanto al modo di comportarsi coi genitori, coi fratelli, con gli amici, di usare il proprio denaro, di gestire una carica pubblica, di esercitare una funzione di comando?Per tali problemi ci si rivolge ai saggi, non agl'indovini.E ancora. Tra gli argomenti che sono trattati dai dialettici o dai filosofi della natura - se vi sia un mondo solo o più, quali siano i primi principii dell'universo dai quali ogni cosa deriva -, ce n'è qualcuno che possa essere risolto mediante la divinazione?No, la competenza in codeste cose spetta ai filosofi della natura. Come, poi, tu possa confutare il sofisma del mentitore, che in greco chiamano pseudómenos, o come possa controbattere il sorìte (che, se fosse necessario, si potrebbe chiamare in latino acervàle; ma non ce n'è bisogno: come la parola stessa filosofia e molte altre tratte dal greco, così sorìte è un termine divenuto abbastanza usuale in latino), anche queste cose, dunque, te le insegneranno i dialettici, non gli indovini.E poi? Quando si discute sulla migliore, costituzione politica, su quali leggi e quali usanze siano utili o inutili, si faranno venire dall'Etruria gli arùspici, o la decisione spetterà a personaggi politici di alto grado e a uomini scelti, esperti di scienza dello Stato?Ché se non esiste alcuna capacità divinatoria né riguardo alle cose sensibili, né a quelle di pertinenza delle varie tecniche, né a quelle che sono argomento di discussione filosofica, né a quelle che rientrano nell'ambito della politica, quale sia l'oggetto della divinazione non lo capisco proprio affatto.Una delle due: o la divinazione deve riguardare ogni cosa, o bisogna attribuirle un campo specifico di sua competenza.Ma né la divinazione riguarda ogni cosa (il ragionamento ce lo ha dimostrato), né si riesce a trovare un campo o un argomento di cui possiamo assegnarle la giurisdizione.Sta attento, dunque, se per caso non esista divinazione alcuna.C'è un verso greco assai diffuso che, quanto al significato, dice così: Chi prevederà bene, lo chiamerò il migliore indovino. Dunque un indovino sarà più bravo di un navigatore nelle previsioni del tempo, o diagnosticherà una malattia con più perspicacia di un medico, o deciderà in anticipo il modo di condurre una guerra meglio di un comandante? Ma ho notato, Quinto, che tu accortamente separi la divinazione sia dalle previsioni che potrebbero dipendere dall'abilità e dall'intelligenza, sia da tutto ciò che si potrebbe percepire mediante la sensazione o qualche tecnica particolare, e la definisci così: la predizione e il presentimento di quelle cose che sono dovute al caso.Ma, innanzi tutto, torni a imbatterti nelle stesse difficoltà: ché la previsione del medico, del navigante, del comandante di eserciti riguarda appunto eventi casuali.Dunque un arùspice o un àugure o un vaticinante o uno che ha fatto un sogno saprà prevedere la guarigione d'un ammalato, o la salvezza di una nave dal naufragio, o di un esercito da un agguato, meglio di un medico, di un navigatore, di un comandante?Eppure tu dicevi che non appartiene alle prerogative del divinatore nemmeno il prevedere, in base a certi indizi, l'imminenza dei venti o delle piogge (e a questo proposito hai recitato, mostrando buona memoria, alcuni brani dei miei Aratea),sebbene anche tali eventi siano casuali: si avverano, difatti, per lo più, non sempre.Qual è, dunque, o in che campo si esplica il presentimento degli eventi casuali, che tu chiami divinazione?Tutto ciò che si può prevedere con la pratica o col ragionamento o con l'esperienza o con l'ipotesi ritieni di doverlo attribuire non agli indovini, ma agli esperti.Non rimane, quindi, alla divinazione nient'altro che la profezia di quegli eventi fortuiti che non possono essere preveduti con alcuna pratica o con alcuna scienza; per esempio, se qualcuno avesse detto con molti anni di anticipo che Marco Marcello, quegli che fu console per tre volte, sarebbe perito in un naufragio avrebbe senza dubbio compiuto un atto di divinazione: ché non lo avrebbe potuto sapere per mezzo di alcun'altra pratica o scienza.La divinazione è dunque il presentimento di eventi di questo genere, dipendenti solamente dalla sorte.Può dunque esservi una previsione di quegli eventi riguardo ai quali non c'è nessuna ragione per cui debbano accadere?Che altro è, in realtà, la sorte, la fortuna, il caso, l'accadimento, se non il capitare, l'accadere di qualcosa che avrebbe anche potuto capitare e accadere altrimenti?Ma in che modo, dunque, si può presentire e predire quel che avviene alla ventura, per cieco caso e per volubilità della sorte?Il medico prevede l'aggravarsi di una malattia seguendo il filo di un ragionamento; e allo stesso modo il comandante prevede un agguato, il navigatore le tempeste; eppure anch'essi, non di rado, si sbagliano, pur non formandosi alcuna opinione senza una ragione ben precisa; così come il contadino, quando vede un olivo in fiore, ritiene che vedrà anche i frutti, non senza ragione; e tuttavia qualche volta si sbaglia.E se si sbagliano coloro che nulla dicono senza aver fatto qualche ipotesi e qualche ragionamento probabile, che cosa dobbiamo pensare delle profezie di quelli che predicono il futuro in base alle viscere, agli uccelli, ai prodigi, agli oracoli, ai sogni?Non voglio ancora dire quanto sia nullo il valore di questi segni: delle fenditure nel fegato delle vittime, del canto d'un corvo, del volo di un'aquila, del cader di una stella, delle grida degli invasati, delle sorti, dei sogni.Come si può prevedere che avverrà qualcosa che non ha alcuna causa né alcun sintomo che denoti il motivo per cui avverrà?Le eclissi di sole e di luna vengono predette con anticipo di molti anni da coloro che con calcoli matematici prendono nota del moto degli astri: essi predicono ciò che la necessità delle leggi di natura attuerà.In base al movimento regolarissimo della luna, comprendono in quale momento essa, trovandosi in opposizione al sole, entri nell'ombra della terra, che è un cono di oscurità, sicché è inevitabile che essa scompaia alla nostra vista, e in quale altro momento la luna medesima, passando sotto il sole e frapponendosi tra esso e la terra, oscuri la luce del sole ai nostri occhi, e in quale costellazione ciascuno dei pianeti si troverà in ciascun tempo, e, in ciascun giorno, quale sarà il sorgere e il tramonto di una costellazione.
Coloro che prevedono tutti questi fenomeni, tu sai quali ragionamenti compiano.Ma quelli che predicono a qualcuno che scoprirà un tesoro o che avrà un'eredità, quali indizi seguono?In quale legge di natura è insito che ciò avverrà?E se anche questi eventi e gli altri dello stesso genere sono soggetti a una necessità di natura, che cosa c'è, in fin dei conti, che si debba credere che avvenga per caso o per mero giuoco della sorte? Nulla è tanto contrario alla razionalità e alla regolarità quanto il caso, fino al punto che mi sembra che nemmeno la divinità abbia il privilegio di sapere che cosa accadrà per caso e fortuitamente.Se, infatti, la divinità lo sa, il fatto avverrà certamente; ma se avverrà certamente, il caso non esiste; il caso, invece, esiste; non è dunque possibile alcuna previsione di eventi fortuiti. Se poi neghi l'esistenza del caso, e dici che tutto ciò che avviene e che avverrà è fatalmente determinato ab aeterno, devi mutare la tua definizione della divinazione, che, a quanto dicevi, è il presentimento delle cose fortuite.Se nulla può avvenire, nulla capitare, nulla attuarsi tranne ciò che da tutta l'eternità è stato decretato che avverrà in un dato tempo, a che cosa si riduce il caso?E, tolto di mezzo il caso, quale spazio rimane alla divinazione, che, tu l'hai detto, è il presentimento delle cose fortuite? vero che dicevi anche che tutte le cose che avvengono o avverranno sono predeterminate dal destino.Certo, la parola stessa destino è una parola da vecchierelle, piena di spirito superstizioso; tuttavia tra gli stoici si parla spesso di codesto destino;di esso discuteremo un'altra volta; ora limitiamoci allo stretto necessario.Se tutto avviene per decreto del fato, a che mi serve la divinazione?Ciò che l'indovino predice, avverrà senza dubbio; sicché non so nemmeno che valore abbia il fatto che un'aquila distolse il nostro amico Deiòtaro dal proseguite un viaggio; se non fosse tornato indietro, tu dici, avrebbe dovuto dormire in quella stanza che nella notte seguente crollò, ed egli sarebbe morto sotto le macerie.Ma se era destinato che ciò accadesse, non sarebbe sfuggito a quella sciagura; se non era destinato, non vi sarebbe incorso.Quale aiuto, dunque, dà la divinazione, quale avviso utile possono darmi le sorti, le viscere, qualsiasi presagio?Se era destinato che nella prima guerra punica le due flotte romane andassero perdute, l'una per un naufragio, l'altra affondata dai cartaginesi, anche se i polli avessero dato ai consoli Lucio Giunio e Publio Claudio l'auspicio più favorevole di tutti, le flotte sarebbero egualmente andate perdute.Se invece, qualora si fosse obbedito agli auspicii, le flotte non sarebbero andate perdute, non è a causa del fato che andarono perdute, ma voi volete che tutto avvenga per decreto del fato; e allora la divinazione non vale nulla.E se era destinato che nella seconda guerra punica l'esercito romano fosse distrutto presso il lago Trasimeno, si sarebbe forse potuto evitare ciò, qualora il console Flaminio avesse dato retta a quei segni e a quegli auspicii che gli vietavano di attaccar battaglia? Dunque o l'esercito andò distrutto non per decreto del fato (ché il fato non si può mutare), o, se ciò avvenne per fato (e voi dovete certamente sostenere questa tesi), anche se Flaminio avesse obbedito agli auspicii, la sciagura sarebbe egualmente accaduta.Dov'è, dunque, codesta divinazione degli stoici?Se tutto accade per decreto del fato, essa non può in nessun modo consigliarci di essere più prudenti: ché, in qualsiasi modo avremo agito, accadrà, ciò nonostante, quel che deve accadere, se invece il corso degli eventi può essere deviato, il fato si riduce a nulla; e allora si riduce a nulla anche la divinazione, poiché riguarda gli eventi futuri; ma nessun evento futuro accadrà con certezza, se con qualche espiazione si può fare in modo che non accada.D'altronde, io credo che la conoscenza del futuro non ci sia nemmeno utile.Che vita sarebbe stata quella di Priamo, se fin da giovane avesse saputo che cosa gli sarebbe toccato da vecchio?Lasciamo da parte le leggende, vediamo fatti più vicini a noi.Nella Consolazione ho raccolto i più gravi casi di morte dei personaggi più famosi della nostra patria.
Ebbene, omettiamo i più antichi, ma credi che a Marco Crasso sarebbe stato utile, quando era al colmo della ricchezza e della fortuna, sapere che, dopo aver assistito all'uccisione di suo figlio Publio e alla distruzione del suo esercito, avrebbe dovuto egli stesso morire, al di là dell'Eufrate, con ignominia e disonore?O ritieni che Gneo Pompeo si sarebbe allietato dei suoi tre consolati, dei tre trionfi, della gloria acquistatasi con le più grandi imprese, se avesse saputo che, abbandonato da tutti in terra egiziana, sarebbe stato trucidato dopo la disfatta del suo esercito, e che dopo la sua morte sarebbero accadute cose che non riesco a rammentare senza piangere?E Cesare, se mediante la divinazione avesse saputo che in quel senato che per la maggior parte aveva riempito di suoi fedeli da lui nominati, nella curia di Pompeo, proprio dinanzi alla statua di Pompeo, sotto gli occhi dei suoi centurioni, sarebbe stato trucidato da eminentissimi cittadini, alcuni dei quali egli stesso aveva colmato di onori d'ogni sorta, e sarebbe rimasto lì al suolo, senza che al suo corpo non si avvicinasse non solo nessuno dei suoi amici, ma nemmeno dei suoi schiavi, - con quale angoscia avrebbe trascorso tutta la vita?Dunque il non sapere i mali futuri è certamente più utile che il saperli.Ché in nessun modo si può dire, e meno che mai lo possono gli stoici: Pompeo non avrebbe preso le armi, Crasso non avrebbe attraversato l'Eufrate, Cesare non avrebbe scatenato la guerra civile.Ciò vorrebbe dire che le loro morti non erano fissate dal fato. Ma voi sostenete che tutto accade secondo il fato: a niente, dunque, sarebbe servita ad essi la divinazione, e per di più avrebbero perduto ogni gioia nella loro vita anteriore alle disgrazie; che cosa, infatti, avrebbe potuto essere motivo di letizia per essi, al pensiero di come sarebbero morti? Sicché, da qualunque parte si rivolgano gli stoici, è inevitabile che tutta la loro abilità giaccia sconfitta.Se ciò che avverrà potrà avvenire in modi diversi, al caso bisogna riconoscere la supremazia; ma ciò che è casuale non può esser saputo in anticipo.Se invece è già stabilito ciò che avverrà riguardo a ogni cosa in ogni tempo, che sorta d'aiuto possono darmi gli arùspici, i quali, dopo aver detto che mi incombono eventi funestissimi, aggiungono, alla fine, che tutto potrà andar meglio se si compiranno riti di espiazione?Se nulla può accadere contro i decreti del fato, nulla può essere alleviato con cerimonie religiose.Lo ha inteso bene Omero, là dove ci mostra Giove che si lamenta di non poter strappare alla morte suo figlio Sarpedonte contro i decreti del fato.Uguale è il significato di quel verso greco che, quanto al significato, dice: Ciò che è decretato dal destino è più forte di Giove, il dio sommo. Il destino in generale mi sembra che sia giustamente deriso anche da un verso di un'Atellana; ma in faccende così serie non è il caso di scherzare.Concludiamo dunque la nostra argomentazione: se nessuno degli eventi che accadono per caso può essere previsto, poiché non possono avvenire sicuramente, non esiste alcuna divinazione; se invece gli eventi si possono prevedere, perché sono certi e predestinati, ancora una volta non esiste alcuna divinazione: l'hai detto tu, che la divinazione riguarda gli eventi casuali.
Ma questa io la considero come la prima sortita del mio ragionamento, come quella delle truppe armate alla leggera; ora veniamo ai ferri corti e proviamo se ci riesce di attaccare alle ali la tua argomentazione.Dicevi che vi sono due tipi di divinazione, l'uno artificiale, l'altro naturale; che il tipo artificiale consiste in parte nell'interpretazione, in parte nell'osservazione assidua; che il tipo naturale è quello che l'anima afferra o riceve dal di fuori, dalla divinità, dalla quale tutte le nostre anime attingono, ricevono, libano una parte.Tra i generi di divinazione artificiale li consideravi press'a poco questi: le predizioni degli scrutatori di viscere e di quelli che interpretano il futuro dai fulmini e dai prodigi, inoltre quelle degli àuguri e di chi spiega segni e òmina, e insomma collocavi a un dipresso in questa categoria tutte le profezie fatte mediante interpretazione.Il genere naturale, invece, opinavi che fosse prodotto e, per così dire, prorompesse o dall'esaltazione della mente o dall'anima svincolata dai sensi e dalle preoccupazioni durante il sonno.Hai poi fatto derivare la divinazione in generale da tre principii: dalla divinità, dal fato, dalla natura.Ma, non riuscendo a spiegare nulla di tutto ciò, ti sei difeso adducendo una mirabile quantità di esempi immaginarii.Quanto a questo modo di procedere, voglio anzitutto dirti che non ritengo degno di un filosofo avvalersi di testimonianze che possono essere o vere per puro caso, o false e inventate in mala fede; con argomentazioni e con ragionamenti bisogna dimostrare per qual motivo ciascuna cosa è quello che è: non in base a meri eventi, e soprattutto a eventi ai quali mi è lecito non prestar fede.Incominciamo dall'aruspicìna, che io ritengo si debba osservare per il bene dello Stato e della religione professata da tutti - ma qui siamo soli, e possiamo ricercare la verità senza procurarci l'odio di alcuno, io specialmente che dubito riguardo alla maggior parte delle cose -. Esaminiamo, se sei d'accordo, innanzi tutto le viscere; è dunque possibile convincere qualcuno che quei presagi, che, dicono, sono indicati dalle viscere, siano stati appresi dagli arùspici con assidua osservazione? Quanto assidua è stata codesta osservazione?Per quanto tempo la si è potuta fare?O in che modo le singole osservazioni furono confrontate tra l'uno e l'altro arùspice, per stabilire quale parte delle viscere fosse nemica, quale familiare, quale fenditura denotasse un pericolo, quale un beneficio?Forse gli arùspici etruschi, quelli di Elide, gli egizi, i cartaginesi confrontarono tra loro queste osservazioni?Ma una cosa simile, a parte il fatto che non è potuta accadere, non si può nemmeno immaginare; vediamo, infatti, che gli uni interpretano gli indizi delle viscere in un modo, gli altri in un altro: non esiste una dottrina comune a tutti. E certamente, se nelle viscere c'è qualche potere che sia in grado di rivelarci il futuro, questo potere dev'essere necessariamente collegato con la natura, o determinato in qualche modo dalla volontà degli dèi e da una forza divina.Ma con la natura, così immensa e splendida, che pervade tutto l'universo e ne regola tutti i movimenti, che cosa può avere in comune non dico il fiele di un pollo (eppure non manca chi dice che i fegati dei polli forniscono i presagi più ingegnosi), - ma il fegato o il cuore o il polmone di un toro ben pasciuto che cos'ha di congiunto con la natura, sì da poter indicare il futuro?'