Traccia svolta Scienze Umane, opzione economico sociale | Seconda prova maturità 2019

Traccia svolta di scienze umane per l'opzione economico-sociale della seconda prova di maturità 2019. Tema e domande di comprensione del testo

Traccia svolta Scienze Umane, opzione economico sociale | Seconda prova maturità 2019
istock

TRACCIA SVOLTA SCIENZE UMANE OPZIONE ECONOMICO SOCIALE PRIMA PARTE

Guarda la traccia ufficiale

Da molto tempo si parla di crisi economica e si prospettano ipotesi, sia teoriche che pratiche, per uscire dalla crisi e ripensare le forme della produzione, del consumo, della condivisione di beni, materiali e simbolici, anche alla luce dell’emergenza ecologica e climatica. Non sempre però queste ipotetiche soluzioni si rivelano auspicabili o realizzabili. Spesso, il sistema economico-produttivo si mostra capace di recuperare e in qualche modo snaturare anche le migliori alternative.

È il caso, ad esempio, della sharing economy. Tra la fine degli anni Novanta e i primi anni Zero, anche a causa dei tagli alle politiche di welfare, era emerso un forte interesse nei confronti del Terzo Settore, della responsabilità sociale delle aziende e del no-profit. Prendevano piede, così, diverse iniziative innovative, alcune basate su forme di scambio non monetario (es. la banca del tempo), altre sull’accorciamento delle filiere produttive e la riduzione delle intermediazioni commerciali tra produttori e acquirenti (es. il commercio equo e solidale).

Più recentemente, grazie anche alla rivoluzione digitale, questo ricco bagaglio di esperienze di economia della condivisione sembra essere stato scansato a favore di un riutilizzo perverso della condivisione nel quadro di una classica economia del profitto. È questa la tesi critica di Vincenzo Comito, che nel suo recente saggio L’economia digitale, il lavoro, la politica, mette in luce i rischi della sharing economy, nella quale la “condivisione” sembrerebbe ridursi al mero contatto con una piattaforma digitale in vista di un tradizionale scambio economico fra servizi e denaro. C’è ben poco di condivisibile – nel duplice senso del termine – in simili servizi, i quali, peraltro, rimangono di proprietà di pochi. Non a caso, si parla anche di capitalismo delle piattaforme, in riferimento a strutture come Google, Amazon, Facebook.

A fronte del rischio di uno snaturamento della “condivisione” vera e propria, bisogna quindi puntare più in alto, promuovere una vera e propria rivoluzione culturale che non cada nella trappola del sistema economico-produttivo, sempre pronto a trasformare l’utopia in business. È questa l’idea di Serge Latouche e della sua “decrescita felice”. La decrescita parte da un’analisi realistica e disillusa della situazione e riconosce nel principio della crescita economica – quale che sia la forma politica che di volta in volta la sostiene (democrazia, dittatura, governi di destra, di sinistra) – il nodo fondamentale da aggirare. La rottura con il principio della crescita è indispensabile per poter tornare a immaginare uno scenario autenticamente alternativo.

Ecco perché, pur sottolineando il carattere politico della decrescita, Latouche ne valorizza anche l’aspetto utopico. La definisce una “utopia concreta”, ovvero un’utopia – una speranza, un auspicio – che va in cerca delle condizioni oggettive della sua realizzazione, che cerca di tradursi concretamente in azione, a livello locale e globale. Come ricorda Latouche, citando Ernst Bloch, senza questo accento utopico, «c’è soltanto la gestione amministrativa degli uomini e delle cose», ovvero – per citare un altro grande pensatore della rottura con il passato, Walter Benjamin - «l’organizzazione del pessimismo».

Se non è questo che auspichiamo per il futuro nostro e delle generazioni a venire, siamo realisti, esigiamo l’impossibile!

TRACCIA SVOLTA SCIENZE UMANE OPZIONE ECONOMICO SOCIALE SECONDA PARTE

  1. Quali sono le potenzialità e i limiti presenti nelle forme di welfare?

Le politiche di welfare indicano l’insieme di iniziative statali in difesa del cittadino e a supporto dei bisogni materiali e simbolici della popolazione (es. assistenza sanitaria, pensione, istruzione). Nato in Germania verso la fine dell’800 e sviluppatosi successivamente nel Regno Unito, a partire dal Rapporto Beveridge del 1942, il concetto di welfare è andato modificandosi nel tempo, anche in riferimento alle diverse aree geografiche e culturali.

Guardando al prelievo fiscale come valore di riferimento, possiamo distinguere diverse forme di welfare: a) il modello socialdemocratico, sviluppato in area scandinava, implica una copertura totale a costo di un’elevata pressione fiscale; b) il modello conservatore, seguito dai principali Stati dell’Europa continentale, tende alla tutela del lavoratore, più che del cittadino, attraverso un intervento sussidiario, che sostiene le comunità ma non si sostituisce ad esse, imponendo una pressione fiscale media; c) il modello liberale prima, neoliberista poi, caratteristico dei Paesi anglosassoni, prevede invece una scarsa pressione fiscale, ma è totalmente a carico dell’individuo.

Guardando al prelievo fiscale come valore di riferimento, possiamo distinguere diverse forme di welfare: a) il modello socialdemocratico, sviluppato in area scandinava, implica una copertura totale a costo di un’elevata pressione fiscale; b) il modello conservatore, seguito dai principali Stati dell’Europa continentale, tende alla tutela del lavoratore, più che del cittadino, attraverso un intervento sussidiario, che sostiene le comunità ma non si sostituisce ad esse, imponendo una pressione fiscale media; c) il modello liberale prima, neoliberista poi, caratteristico dei Paesi anglosassoni, prevede invece una scarsa pressione fiscale, ma è totalmente a carico dell’individuo.

Nel complesso, a fronte della crisi delle politiche di welfare dovute alla scarsità delle risorse e agli sprechi economici, sono due gli indirizzi di policy che si fronteggiano riguardo alle tematiche assistenziali, da una parte l’indirizzo neoliberale che professa l’arretramento dello Stato a favore di una maggiore libera iniziativa individuale, soprattutto economica, dall’altra l’indirizzo neostatalistico, che mira ad accentuare e l’intervento pubblico seppure in una prospettiva di risparmio e razionalizzazione economica. Purtroppo, questi due modelli stentano ad armonizzarsi, valorizzando le rispettive potenzialità (iniziativa individuale, assistenza pubblica) e minimizzando i rispettivi limiti (invadenza del mercato, scarsa sostenibilità economica), per operare in vista di un vero e proprio universalismo sociale.

  1. Quale è l’importanza del Terzo Settore nello sviluppo del territorio?

Agendo come attore intermedio rispetto allo Stato e al mercato, il Terzo Settore, che riguarda l’iniziativa privata a indirizzo sociale, ovvero senza scopo di lucro (es. volontariato, cooperative sociali, no-profit) si inserisce nelle crepe delle politiche di welfare favorendo la crescita di relazioni di mutuo supporto e soccorso e la formazione di comunità. In questo senso, il Terzo Settore può svolgere un compito fondamentale nello sviluppo del territorio (detto anche sviluppo locale) promuovendo cambiamento socio-economico in quartieri, città e località (semi)rurali e agendo come veicolo di capacitazione di individui e gruppi che abitano le diverse realtà territoriali interessate.

Si tratta in gran parte di uno sviluppo umano e relazionale, che ha a che fare con l’espressione della libertà di individui e gruppi non solamente in senso negativo (libertà da), ma anche in senso positivo (libertà di), secondo le teorie del capability approach (Sen, Nussbaum).

  1. Come è possibile valorizzare il territorio pur nel contesto dell’economia globale?

Per diverso tempo, tra gli anni Novanta e gli anni Zero, si è temuto che il processo di globalizzazione, inteso come incremento dell’interconnessione economica e tele-comunicativa tra gli Stati Nazione, producesse un livellamento e un appiattimento culturale che, sul medio e lungo periodo, avrebbe esposto le culture locali e territoriali al rischio sparizione. Rapidamente questa interpretazione del fenomeno ha lasciato il posto a una comprensione più articolata della globalizzazione, che tenesse conto anche della vivacità espressiva delle culture locali e della loro plasticità, ovvero della capacità di adattarsi, rinnovandosi, in un orizzonte sempre più interconnesso.

È emersa così la nozione di “glocale” (glocal), che pone l’accento sulla valorizzazione delle risorse territoriali, materiali e simboliche, all’interno di un’arena comunicativa ed economica di scala globale. È in quest’ottica che possono essere interpretati alcuni fenomeni culturali ibridi, come le “comunità immaginate” (Anderson) tipici dei fenomeni migratori, non riducibili unicamente all’asse verticale Sud/Nord del mondo. Un altro modo di valorizzare il territorio in un contesto globale pone, invece, l’accento sulla dimensione ecologica delle realtà territoriali e sull’impatto che l’azione locale ha su fenomeni di scala, come ad esempio nel recente strike for climate change.

Un consiglio in più