Storia e significato del confino. L'esperienza dei confinati durante il fascismo
Indice
1Cos’è il confino? Introduzione
Il confino è stata una misura di prevenzione repressiva utilizzata durante il Regno d’Italia, che è consistita nell’allontanare dal suo ambiente “naturale” un soggetto ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico ed isolarlo in una località remota sotto il controllo degli organi di polizia, secondo l’idea che in tal modo lo si rendesse inoffensivo per il resto della società e si potessero prevenirne eventuali attività considerate come criminali.
Sebbene le sue origini giuridiche risalgono al periodo liberale, l’utilizzo del confino è legato soprattutto alla dittatura fascista, che modificando l’impostazione iniziale lo utilizzò ampiamente, a partire dal 1926, come misura di repressione del dissenso politico e sociale nei confronti del regime stesso.
Nel corso del ventennio, in maniera arbitraria, furono migliaia gli antifascisti - e non solo - condannati a vivere isolati dal resto della società, lontani dalle proprie famiglie e dai propri ambienti di appartenenza.
Il confino fascista fu una delle armi “silenziose” del regime per puntellare la dittatura, oltre che un ulteriore colpo allo Stato di diritto proprio della democrazia, visto il suo presupposto di detenere degli individui senza una vera imputazione e un giusto processo.
Tuttavia molte delle esperienze e delle difficoltà comuni vissute dai confinati durante la detenzione saranno importanti nel creare una base di relazioni, collaborazioni e proposte condivise finalizzate a combattere il fascismo e abbattere la dittatura.
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Qual è la differenza tra esilio e confino?
- Il confino è una specie di esilio interno, cioè all’interno la propria nazione. Tra il 1926 ed il 1943 il regime fascista usò il confino come strumento di prevenzione e di repressione nei confronti dei dissidenti.
- L’esilio, invece, è una pena che viene pagata attraverso l’espulsione di un cittadino dalla propria Patria e può avere carattere temporaneo oppure a vita.
2Le origini del confino: l’Italia liberale
La prima introduzione della misura del confino nell’ordinamento italiano risale al 1863: per contrastare il fenomeno del brigantaggio venne varata la “legge Pica” - dal nome del suo ideatore - una legge speciale che introduceva, insieme ad altre misure drastiche, l’obbligo di domicilio coatto in una determinata località per soggetti sospettati di pericolosità per l’ordine pubblico.
Come detto la legge nasceva come risposta al grave problema del brigantaggio ed era inizialmente pensata come una legge speciale da attuare solo per un periodo limitato.
Con il codice Zanardelli del 1889 le misure più arbitrarie previste dalla legge Pica vennero in parte attenuate: nel nuovo codice la pena del domicilio coatto era confermata, ma i soggetti colpiti dal provvedimento avevano maggiori garanzie dal punto di vista legale, potendo essere giudicati da una serie di organi giudiziari e non soltanto in base al semplice sospetto di pericolosità per l’ordine pubblico.
Il sistema prevedeva una iniziale ammonizione per i soggetti ritenuti pericolosi, che in caso avessero reiterato comportamenti fuori dalla legge sarebbero stati puniti con il confinamento.
3Il confino politico durante il fascismo
La pratica del confinamento di soggetti ritenuti pericolosi cambia però radicalmente con l’avvento del fascismo al potere.
Il regime dittatoriale di Mussolini intende affermare se stesso e la propria ideologia illiberale con due potenti strumenti: se da una parte c’è la propaganda, che quotidianamente indottrina la popolazione ad aderire ai valori del regime, dall’altra c’è la repressione di qualunque forma o comportamento che sia considerato ostile all’ideologia fascista.
E’ in questa ottica che fin dall’inizio la dittatura concepisce e sviluppa una serie di istituti giuridici pensati per reprimere il dissenso politico e sociale.
Il maggior numero di leggi finalizzate alla repressione vengono varate a partire dal 1926, quando il regime decide di sopprimere definitivamente le libertà democratiche: con le “Leggi fascistissime” del 1926, oltre alla chiusura dei partiti e della stampa ostili al regime, viene creato il “Tribunale speciale per la difesa dello Stato”, un organo straordinario incaricato di imputare e condannare quanti ritenuti pericolosi per la propria attività politica contraria alla dittatura.
A fianco all’istituzione del Tribunale speciale, sempre nel 1926, viene varato una nuova legge sulla pubblica sicurezza, che modificava in maniera sostanziale l'istituto del confinamento.
Il nuovo testo a opera del Ministro dell’interno Federzoni, modificando le leggi del periodo liberale, introduceva il “confino di polizia”: il nuovo strumento era esplicitamente pensato per colpire preventivamente quanti ritenuti predisposti o sospetti di attività politica contraria alla dittatura.
Il nuovo istituto prevedeva che i soggetti ritenuti sovversivi potessero essere condannati a risiedere in una determinata località, sotto sorveglianza, da uno a cinque anni eventualmente prorogabili; il semplice sospetto di attività antifascista, anche in assenza di reati commessi, era sufficiente a motivare e giustificare il provvedimento di confinamento.
La volontà dietro l’adozione del “confino di polizia” è evidente: il regime intendeva isolare gli oppositori dal resto della società, deportandoli in luoghi remoti e costringendoli a vivere ai margini della vita pubblica in una condizione umiliante per l’individuo e in assenza di garanzie legali sulla propria condizione.
Oltre che per la condotta politica e i reati comuni, il confino venne inoltre utilizzato contro qualsiasi categoria ideologicamente indesiderata al fascismo, come ad esempio omosessuali ed ebrei, colpevoli solamente delle proprie inclinazioni in materia di sessualità o religione. In tutto si stima che dal 1926 al 1943 furono oltre 12.000 i soggetti per vari motivi colpiti dal provvedimento.
4L’esperienza di vita al confino
Le maggiori località utilizzate per il confinamento furono le isole, come quelle siciliane di Pantelleria, Ustica e Favignana, insieme a quelle della costa pontina di Ponza e Ventotene, adatte allo scopo per il loro essere difficilmente accessibili.
Mentre Mussolini, con lugubre ironia, definiva il confinamento in questi luoghi come una “vacanza al mare” per gli oppositori, l’antifascista Carlo Rosselli descriverà la sua permanenza forzata nell’isola siciliana di Lipari come “una cella senza muri, tutta cielo e mare”; sarà tra i pochi a riuscire ad evadere dal confino tramite una avventurosa fuga nel luglio del 1929;
per la gran parte degli altri confinati la speranza di fuggire rimarrà un desiderio destinato a non avverarsi.
Nei fatti la vita dei confinati era sottoposta a rigide regole di condotta e a forti limitazioni: dopo essere stati deportati in catene al confinato venivano sottratti i documenti civili, sostituiti da un libretto con le generalità per la durata della permanenza.
Le limitazioni riguardavano la libertà degli spostamenti, permessi solo in determinati orari e percorsi e sempre sotto sorveglianza; era inoltre vietato allacciare una qualunque relazione con gli abitanti del posto se non per lo stretto necessario.
I confinati si trovavano a vivere insieme in grandi dormitori comuni, spesso fatiscenti, in condizioni igienico-sanitarie il più delle volte precarie; ogni comunicazione da e verso l’esterno era inoltre sottoposta a una rigida censura.
Nonostante il regime fascista ritenesse efficace lo strumento del confino per reprimere il dissenso e mortificare la personalità degli oppositori, questo mostrerà con il tempo i suoi limiti.
L’intellettuale comunista Antonio Gramsci, arrestato nel 1926 e confinato a Ustica per 44 giorni, riuscirà in quel breve periodo a organizzare corsi storico-letterari per gli altri confinati, un esempio di come la solidarietà comune di quanti si trovavano nella medesima condizione e la resilienza individuale al confinamento riuscivano spesso ad avere il sopravvento sugli scopi per cui il confino era stato creato, e a dare vita a esperienze inedite di collaborazione.
Chi furono gli intellettuali mandati al confino? Nei 54 campi per l’internamento in Italia si stima che siano stati reclusi 141.800 persone tra cui Gramsci, Leone Ginzburg con la moglie Natalia, Cesare Pavese, Carlo Levi, Curzio Malaparte, gli ex Presidenti della Repubblica Sandro Pertini e Pietro Nenni e molti altri.
Trovandosi nella medesima condizione di confinati ad affrontare le stesse difficoltà di vita gli oppositori del regime fascista, anche se di opposte sensibilità politiche, troveranno il modo di creare relazioni tra loro, dialogare e elaborare strategie per combattere il fascismo e idee e proposte per il futuro:
è il caso di Ernesto Rossi e Altiero Spinelli, che nei giorni della loro permanenza a Ventotene nel 1941 redigeranno il “Manifesto di Ventotene”, un importante documento che poneva le basi di una Europa democratica, pacifista e federalista, esatta antitesi della retorica militarista e nazionalista propagandata dal regime.
Nelle esperienze individuali e collettive dei confinati è possibile rintracciare molte delle basi della successiva Resistenza al nazifascismo: con la caduta del regime nel 1943 molti dei confinati ritroveranno la libertà ed entreranno a far parte dei gruppi partigiani;
con la fine della guerra e la nascita della Repubblica Italiana, il confino verrà definitivamente abolito perché in contrasto con i valori democratici della Costituzione, che all’articolo 13 sancisce l’assoluta inviolabilità della libertà personale se non nei casi espressamente previsti dalla legge.