Storia dell'alfabetizzazione in Italia dal 1861 in poi
Indice
1L'Italia e l'italiano: una questione politica
Alla vigilia dell’Unità d’Italia il livello di alfabetizzazione nei diversi stati della Penisola è assai vario ma comunque, tendenzialmente assai basso; su un piano statistico, gli stati del Centro-Nord registrano una percentuale di alfabetizzati maggiore rispetto alle regioni del Sud, e tra questi è lo Stato Pontificio a manifestare un particolare stato di arretratezza; mentre nel confronto di genere sono gli uomini ad essere più alfabetizzati rispetto alle donne.
Sul piano sociale i ceti maggiormente alfabetizzati sono quelli nobiliari, quelli ecclesiastici e quelli artigianali e mercantili; questi ultimi, storicamente, hanno sempre avuto un ruolo particolare ed importante nell’innovazione economica e sociale italiana, un ruolo che non è venuto meno nemmeno sul piano linguistico:
costretti dal loro lavoro a dover fare di conto e a dover leggere, comprendere, scrivere e firmare contratti e ricevute, artigiani e mercanti sono sempre stati avvezzi sia all’uso dei numeri che dell’alfabeto, dando anche vita a linguaggi settoriali e a modi di comunicazione propri dei vari ambiti produttivi.
Tuttavia, in un Paese la cui economia è ancora in larghissima parte agricola, gli strati sociali di alfabetizzati rappresentano comunque una minoranza.
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A complicare la situazione italiana contribuisce la fortissima frammentazione politica e i diversissimi approcci dei governi regionali al problema dell’istruzione: anche sotto questo aspetto il mosaico di realtà politiche dell’Italia preunitaria compone un quadro in cui predomina l’arretratezza rispetto ai sistemi d’istruzione di cui, negli stessi anni, si stavano dotando gli altri stati europei.
Unica eccezione era il Piemonte, che sotto la guida illuminata del conte di Cavour, si era aperto alle novità provenienti dalle nazioni più avanzate d’Europa e aveva messo in atto un robusto processo di ammodernamento che coinvolgeva l’economia, i metodi di governo e anche le politiche di scolarizzazione.
Un ulteriore ostacolo al processo di scolarizzazione e alfabetizzazione del Paese, una volta raggiunto l’obiettivo politico dell’Unità d’Italia, era dato dalla varietà linguistica della Penisola.
Fin dal medioevo i diversi stati regionali, il cui retaggio era in molti casi arrivato fino alle soglie dell'epoca contemporanea, avevano dato vita a forme linguistiche autonome, che si sono espresse sia sul piano letterario che nell'uso quotidiano, creando in questo modo particolarismi e tradizioni linguistiche spesso fortemente dissonanti tra loro e, nonostante per secoli si fossero fatte diverse proposte per arrivare a un modello linguistico utilizzabile su tutta la Penisola, nessuna di esse era risultata convincente.
L'ottica di uno stato unitario e moderno, però, esigeva che ci fosse un linguaggio uniforme, insegnato, compreso e parlato su tutto il territorio nazionale.
1.1La lingua italiana tra Manzoni e Ascoli
Negli anni attorno all'Unità, la questione della lingua era tutt'altro che risolta, e proprio in quel periodo si scontrano due grandi visioni, quella di Manzoni e quella di Graziadio Isaia Ascoli.
Ascoli è un eminente linguista e glottologo che si scaglia contro l'idea di una lingua omogenea imposta dall'alto e che non tiene conto della storia italiana, del suo particolarismo e della sua ricchezza culturale.
Secondo il suo punto di vista l'omogeneità e il livellamento linguistico dovevano essere raggiunti in maniera graduale, e potevano essere raggiunti solo con un miglioramento delle condizioni sociali complessive dell'intera nazione; in questo modo la classe intermedia avrebbe dato vita a quella cultura capace di dare vita a una lingua vivace e non piatta, realmente rappresentativa delle diverse tradizioni di un Paese storicamente fondato da molteplici patrie.
Ascoli, con la sua proposta, critica fortemente quella che si stava imponendo come la strada prescelta dal nuovo Regno dell'Italia riunita, cioè quella basata sul modello manzoniano.
Nella stesura quarantana dei suoi Promessi sposi lo scrittore piemontese individua nel fiorentino a lui contemporaneo la lingua migliore a livello stilistico per portare a termine la sua opera.
In seguito, divenuto senatore del Regno d'Italia, Manzoni presenta una Relazione al ministro dell'istruzione Emilio Broglio in cui propone esplicitamente l'uso del fiorentino d'uso quotidiano parlato dai ceti colti dell'alta società cittadina, spogliato di latinismi, provincialismi e arcaismi come la lingua da prendere a modello per essere diffusa su tutto il territorio nazionale attraverso la capillare opera della scuola pubblica.
2La scuola dell'obbligo
Al netto delle pur importantissime questioni linguistiche, al momento dell'Unità il neonato Regno d'Italia si trova davanti una nazione in larghissima parte analfabeta.
Nel 1859 il governo del Regno di Sardegna approva la legge Casati, dal nome di Gabrio Francesco Casati, il ministro dell'istruzione che l'aveva promossa, che riformò il sistema scolastico del regno piemontese sul modello del sistema prussiano, e che in seguito all’unificazione venne estesa a tutto il territorio italiano.
Nel tentativo di rendere l’istituzione scolastica effettivamente funzionante la legge Casati prevedeva un obbligo scolastico di due anni, tuttavia non era prevista alcuna sanzione per le famiglie che non avessero mandato i loro figli a scuola, cosa che rendeva quell’obbligo assai poco incisivo.
Questa lacuna venne colmata nel 1877 dalla legge Coppino, la prima riguardante la scuola promulgata nel Regno d’Italia, che elevò gli anni dell’obbligo da due a tre e istituì delle precise sanzioni per chi avesse eluso l’obbligo; anche in questo caso però, nonostante le buone intenzioni dei legislatori, gli effetti non furono quelli sperati, anche a causa della gestione dell’istruzione che, benché disciplinata a livello statale, era poi effettivamente amministrata dai singoli comuni che spesso non riuscivano a garantire una buona organizzazione scolastica e uno stipendio consono agli insegnanti.
A questa situazione prova a porre rimedio la legge Daneo-Credaro del 1911 con la quale lo stato assume l’effettivo controllo dell’istruzione primaria: in questo modo l’organizzazione della scuola primaria diventava a tutti gli effetti un onere dello Stato che, d’altro canto, poteva effettivamente controllare la frequenza scolastica; nonostante l’impegno delle istituzioni queste misure non hanno l’impatto desiderato sia perché vengono rese effettive a ridosso dell’inizio della Prima Guerra Mondiale, sia perché il loro impatto fu minimo sulle scuole del Mezzogiorno.
Nel biennio 1921 il ministro dell’Istruzione Orso Mario Corbino promosse l’Opera contro l’analfabetismo, un’iniziativa statale indirizzata sia ai ragazzi indigenti, cui forniva libri e altro materiale scolastico o perfino d’abbigliamento (in molti casi mancavano anche le scarpe!) per facilitarne l’ingresso e la frequenza scolastica, sia agli adulti con l’istituzione di scuole serali e festive che conciliassero il lavoro con l’istruzione primaria nel tentativo di abbattere i livelli di analfabetismo anche tra i lavoratori.
Un altro importante contributo al processo di alfabetizzazione arriva dalla formazione di un apparato burocratico esteso su tutto il territorio nazionale che, adottando ovunque le medesime forme linguistiche, impone ai cittadini d’imparare la lingua per potersi correttamente rapportare con le istituzioni mentre, d’altro canto, la creazione di uffici appositi dà l’avvio alla formazione di linguaggi settoriali specifici.
2.1La riforma Gentile
I primi decenni del Regno d’Italia si caratterizzano, comunque, per una crescita degli alfabetizzati costante ma molto lenta, un processo che con conosce una certa accelerazione sotto il fascismo, comunque non determinante.
Un ruolo importante in quest’accelerazione lo ha senz’altro la robusta riforma dell’istruzione che, attraverso diversi decreti regi, viene promossa dal ministro e filosofo Giovanni Gentile e che prevedeva l’elevazione dell’obbligo scolastico ai quattordici anni di età, cioè fino alla fine del ciclo della scuola media.
In questo modo si ebbe una svolta decisa rispetto alle politiche di alfabetizzazione precedentemente adottate.
3Il dopoguerra e l'alfabetizzazione di massa
Uno dei principali motivi della scarsa efficacia delle politiche scolastiche mirate all'alfabetizzazione era la diffusa povertà e perciò la necessità, per le famiglie, d'impegnare quanto prima i figli in lavori manuali pur di elevare il reddito famigliare.
Il periodo di boom economico che seguì la fine della seconda guerra mondiale rappresentò un momento fondamentale per la vita del Paese e un momento di progresso sia sul piano economico che su quello sociale; l'avanzamento delle industrie, soprattutto al centro-nord produsse un diffuso benessere che favorì la frequenza scolastica, avviando così un processo virtuoso di alfabetizzazione finalmente di massa, un processo che si può dire che si racchiuda negli anni '60: è infatti in questo decennio che s'innescò quel circuito progressivo che portò le percentuali di analfabetismo a cifre trascurabili.
Ma ci furono anche notevoli altri fattori che contribuirono alla sconfitta dell'analfabetismo in Italia, come ad esempio la diffusione di mass-media come la televisione.
In questi primi anni la TV di Stato promosse programmi destinati all'apprendimento e all'alfabetizzazione degli adulti, cioè di quanti non erano in grado per motivi di lavoro di frequentare una scuola; un famoso caso di trasmissione televisiva educativa è Non è mai troppo tardi, programma destinato al pubblico televisivo adulto e analfabeta che consisteva in vere e proprie lezioni a distanza:
Alberto Manzi, conduttore e autore della trasmissione, teneva delle vere e proprie lezioni a distanza in cui, con l'aiuto di video, grafiche e disegni, insegnava i rudimenti della lettura e della scrittura; il programma andò in onda sull'allora primo (nonché unico!) canale della Rai dal 1960 fino al 1968, anno in cui la frequenza di massa alla scuola dell'obbligo stava risolvendo il problema; si calcola che, grazie alle lezioni televisive di Manzi, quasi un milione e mezzo di italiani adulti sia riuscito a conseguire la licenza elementare.
3.1Pasolini e il neo-italiano
L'ultima metà di Novecento registra anche notevoli cambiamenti anche dal punto di vista linguistico: i mass-media, le migrazioni da sud a nord, la scuola di massa e la diffusione del lavoro industriale uniformano finalmente la lingua italiana.
Tuttavia intellettuali come Pasolini danno una lettura estremamente pessimista del nuovo italiano che si sta diffondendo, in particolare, per lo scrittore friulano, questa nuova lingua è essenzialmente pratica e priva di una capacità astrattiva e letteraria, meno articolata e più povera di quella fino ad allora parlata.
Sebbene il giudizio pasoliniano sia indubbiamente duro e poco generoso è altrettanto indubbio che le sue riflessioni partano da un cambiamento reale e profondo della lingua dal secondo dopoguerra in poi, e le sue osservazioni hanno dato il via ad una serie di dibattiti sulle forme del neo-italiano che non si sono ancora concluse.