Nessuno era obbligato a frequentare, eppure molti erano presenti alle lezioni sia fisicamente che mentalmente. Si discuteva, si imparava, ci si confrontava con la vita e con il mondo; quando la scuola non esisteva ancora, andarci significava crescere, diventare uomini migliori.
I grandi filosofi sono nati così. Nessuno era obbligato a seguire un insegnante piuttosto che un altro, semplicemente un maestro campava di quello se aveva seguito, cioè se era ritenuto e percepito valido. Intendiamoci, le lezioni non dovevano essere necessariamente piacevoli (e di fatti molte non lo erano, erano “dure”); tuttavia se si riusciva a far nascere nello studente l’amore per la materia o se gli studenti ottenevano un risultato che per loro valesse gli sforzi, allora in quel caso (e solo in quello) si veniva premiati. Poi qualcosa è cambiato.
La società si è evoluta e frequentare una scuola è diventata pratica obbligatoria. D’un tratto gli insegnanti vennero pagati e riconosciuti come tali indipendentemente dalla propria bravura. Si chiama “massificazione del prodotto”. Nel momento in cui qualcosa diventa obbligatorio, non occorre più che sia “desiderabile”, per essere “vendibile”. Quindi, se chi eroga quel servizio non si preoccupa più di “venderlo” ma viene semplicemente “pagato” per svolgere un “lavoro”, la qualità di quel lavoro (che, nel nostro caso specifico, consiste nel far nascere l’amore della materia insegnata, non nell’insegnarla solamente) non conta, quello che conta è che venga venduto il più in fretta possibile al maggior numero possibile di “acquirenti”.
La scuola moderna nasce per massificare l’istruzione in modo da renderla virtualmente ed inoppugnabilmente fruibile a tutti, sacrificandone la qualità. Infatti i modelli che prende a prestito non vengono dalla filosofia o dalla scienza, bensì dall’economia2. (…) Dai monasteri e dagli ordini di clausura (ma ancor più dalle gerarchie lavorative) sono state modellate le lezioni: ascoltare in religioso silenzio senza poterne discutere col compagno di banco.
La scuola attuale è strutturata sull’eco di metodi antichi: la campanella che scandisce l’orario è la stessa che scandiva i turni dei minatori e delle fabbriche pre-sindacali, il professore non è più mentore ma un capo che punisce chi non svolge il lavoro assegnatogli come si deve. Dal momento che la scuola non era più tenuta a far innamorare di se stessa, chi gestiva il processo di massificazione ricorse alla via più facile e primitiva: il dolore e la punizione. Usando la paura, il senso di colpa, la vergogna; punendo chi non studia, chi non fa compiti a casa, chi non segue le regole. Facendo odiare allo studente tutte quelle azioni che naturalmente avrebbe compiuto per imparare. Associando dolore e fatica al concetto di crescita.
Questo modo di insegnare, violento ed antiquato, è il feticcio della scuola dei nostri nonni, che sono stati educati a suon di bacchettate e sberle. Naturalmente, da quelle prime scuole le cose si sono evolute e da quella che idealmente (ma neanche poi tanto) abbiamo definito “scuola dei nonni” siamo passati ad una scuola un po’ più giovane, potremmo definirla la “scuola dei genitori” in virtù del gap generazionale che intercorre con l’attuale. Come tra la ghigliottina e l’iniezione letale, la differenza per i nostri genitori è stata solo apparente. Il boia si lavava le mani prima di sollevare l’ascia ed il sapone diventava il metro di misura della civiltà.
Ma mentre per le fabbriche le cose sono almeno in parte cambiate, le lotte studentesche degli anni sessanta ed i loro studenti capelloni si sono premurati di modificare la forma, affinché la sostanza restasse esattamente così com’era. Interpretando alla rovescia “Avere o Essere” di Eric Fromm, si batterono per il sei politico ottenendo, piuttosto che una sufficiente cultura, una “cultura della sufficienza”. E dal momento che Forma e Sostanza non viaggiano mai separate, alla storia non è mancato il senso dell’ironia né ad alcuni quello dell’ipocrisia: quegli stessi studenti che abolirono le pedane sotto le cattedre affinché si parlasse tutti allo stesso livello, sono oggi insegnanti che fanno abuso della loro autorità, nel tentativo di sopperire alla propria mancanza di autorevolezza. Ora non è più così. O meglio, non del tutto. Qualcosa sta cambiando. Quello che stiamo vivendo è un periodo di transizione nel quale vige, almeno in teoria, una “coscienza pedagogica”.
Studi approfonditi e scrupolose ricerche di una vita (ad opera di appassionati e seri studiosi3, non mie…) hanno crocefisso la scuola padrona, coi suoi schiaffi e le sue “bacchettate”, indicando modelli orientati alla persona. Il problema però, come per molte teorie rivoluzionarie, è che si tratta di cose spiegate male e capite peggio, mai approfondite (difficilmente a chi insegna piace studiare…) ed il risultato è una squallida imitazione di pessima fattura.
(Tratto da “30 e Lode Senza Studiare” Castelvecchi Editore 2007)