La rivoluzione keynesiana: riassunto
Descrizione della teoria keynesiana, comprendenti gli aspetti fondamentali della stessa e le teoria generale dell'occupazione, interessi e moneta
LA RIVOLUZIONE KEYNESIANA
Nella storia delle crisi cui è andata soggetta l’economia capitalistica se ne ricorda in particolare una, assai prolungata e “virulenta”, manifestatasi sul finire degli anni ’20, che ha interessato tutti i Paesi a regime di mercato e che è stata significativamente definita come la Grande Depressione. All’indomani del tracollo del mercato borsistico di Wall Street si diffuse un’atmosfera di incertezza e di panico che minacciò di far precipitare l’America, vera patria del liberismo economico, nell’incubo della recessione.
In questo contesto altamente drammatico, che metteva in luce i limiti insiti nel sistema capitalistico, matura il pensiero rivoluzionario di John Maynard Keynes, economista inglese, artefice di una nuova impostazione, nettamente contrapposta a quella tradizionale della scuola classica e neoclassica destinata a fondare le basi della moderna concezione dell’interventismo statale.
TEORIA KEYNESIANA
Le fondamentali differenze fra lo schema keynesiano e quello classico-neoclassico si possono così riassumere:
- la teoria keynesiana adotta un approccio macroeconomico trattando le variabili economiche a livello aggregato, ossia riferendosi alla collettività nel suo complesso, mentre l’analisi neoclassica esaminava le singole unità economiche, studiando il comportamento del consumatore-tipo, del produttore-tipo, e così via;
- la teoria keynesiana distingue le variabili reali da quelle monetarie: le prime si rinfieriscono ai beni e servizi concretamente prodotti e distribuiti nel mercato, le seconde riguardano i diversi compensi monetari derivanti dalla produzione;
- la teoria keynesiana attribuisce un peso considerevole alla domanda aggregata, cioè alla quantità di beni e servizi che la collettività chiede al sistema, nella convinzione che la domanda condiziona l’offerta, e non è quindi vero – come sostenevano Say e i neoclassici – che l’offerta crea sempre i presupposti per il proprio totale assorbimento (teoria dei mercati o teoria degli sbocchi);
- la teoria keynesiana considera la situazione di pieno impiego delle risorse come l’eccezione, mentre la regola sarebbe rappresentata dalla sottoccupazione delle risorse. E’ questa una fondamentale differenza con le impostazioni sayana e neoclassica che ritenevano che il mercato, lasciato libero di operare, fosse in grado di assicurare l’equilibrio di piena occupazione, grazie ai meccanismi autoregolatori insiti nel sistema;
- la teoria keynesiana assegna allo Stato, o meglio alla pubblica amministrazione, un ruolo di primo piano per contrastare gli squilibri e contrastare le crisi connaturate al sistema economico.
Pur riconoscendo la superiorità del sistema capitalistico su ogni altro modello economico, dà di esso una valutazione alquanto critica Egli era convinto che il capitalismo, nel suo tumultuoso sviluppo, avesse generato sperequazioni e ingiustizie. Ai suoi occhi i detentori di ricchezza in quanto tale, i rentiers, coloro che mettono a disposizione capitali finanziari, lucrandone un compenso specifico, il saggio d’interesse, apparivano una categoria di soggetti sostanzialmente improduttiva.
Sulla base di queste considerazioni riteneva necessario che le autorità monetarie tenessero costantemente a freno i saggi d'interesse, per incoraggiare gli investimenti e favorire la dissoluzione della classe dei redditieri, determinando la "eutanasia sul potere oppressivo e cumulativo del capitalista di sfruttare il valore di scarsità del capitale".
LA CRITICA DI KEYNES
La critica di Keynes si appunta anche sulla "cattiva speculazione" che danneggia tanti piccoli risparmiatori e consente al cinico affarismo di spadroneggiare. Keynes è ritenuto a pieno titolo il teorico dell'intervento sistematico dello Stato nell'economia. Tuttavia, egli non è, né si considera, un socialista. E' anzi un liberal, nel senso anglosassone che assume questa espressione: crede fermamente nelle virtù del sistema capitalistico, ma è altrettanto fermamente convinto che l'economia di mercato vada sistematicamente integrato con l'azione dello Stato a sostegno della domanda globale per colmare il gap tra reddito effettivo e reddito potenziale al fine di evitare una cronica condizione di sottoccupazione delle risorse. La sua opera principale, in cui vengono postulati gli assunti della dottrina keynesiana, intitolata Teoria generale dell'occupazione, interesse e moneta (1936), fornì le linee guida cui si ispirarono le iniziative del New Deal promosso dal presidente americano Franklin Delano Roosevelt che riuscì a risollevare le sorti dell'America.
In sintonia con il pensiero di Keynes, il New Deal non è una forma di socialismo, né un tentativo di pianificazione: il suo scopo è quello di salvare dandogli razionalità e regole, il sistema capitalistico. Esso deve la sua importanza storica al fatto che, per la prima volta in Occidente, un governo in tempo di pace entra in modo sistematico nelle decisioni economiche.
Introducendo correttivi per superare i limiti del capitalismo e assegnando allo Stato un certo protagonismo nella vita economica, Keynes segna il momento di transizione dalla'ottica di finanza neutrale, propugnata dalle correnti classica e neoclassica, in base alla quale lo Stato doveva adempiere soltanto ai suoi essenziali compiti istituzionali (amministrazione della giustizia, difesa interna, difesa dei confini dall'ingerenza straniera), senza assumere decisioni economiche, adottando una politica di pareggio del bilancio, alla logica della finanza funzionale o interventista, che ritaglia allo Stato un posto di prim'ordine, attribuendo ad esso il compito di dirigere lo sviluppo economico ed esercitare una spesa pubblica in grado di aumentare la domanda, optando per una politica di disavanzo del bilancio (deficit spending) che, pur apparentemente gravosa, crea le premesse per l'espansione del sistema economico.
Approfondisci: