Questione della lingua italiana: dalle origini al rinascimento
Indice
1La nascita del volgare e le tre Corone
La questione della lingua, che viene risolta non senza polemiche da Manzoni nello stesso secolo dell'Unità d'Italia, ha origini antiche, risalenti a quel medioevo in cui chi scriveva e parlava in volgare inizia a porsi il problema di definire una lingua comprensibile ed utilizzabile dal maggior numero di persone.
I volgari si diffondono e acquistano importanza con il bisogno di notai, mercanti e artigiani di comunicare tra loro con una lingua agile e quotidiana, il più possibile simile a quella parlata e che possa essere compresa con immediatezza. Il problema del primo volgare era la sua assoluta incertezza, e la necessità per coloro che lo usavano di definirlo sotto ogni punto di vista, dalla scrittura alla grammatica.
Mentre il latino, quello medievale, continuava ad essere usato e percepito come una lingua dotta negli ambienti ecclesiastici e nelle università: il confronto tra le due lingue non lasciava per scontato alcun esito, e per secoli il volgare sarà percepito come lingua umile e inferiore.
Presto il volgare viene utilizzato anche per opere di respiro letterario. Le prime prove vengono dalle composizioni di carattere religioso che trovano nel Cantico delle Creature di Francesco d'Assisi una prima grande realizzazione e, a sud, dalle liriche della Scuola siciliana che arrivano a Guido Guinizzelli e alla generazione degli stilnovisti, cui appartiene anche Dante Alighieri, la prima delle cosiddette “tre corone” della lingua italiana.
L'impatto di Dante, Petrarca e Boccaccio sulla cultura italiana è immenso: le loro opere non solo riscuotono un successo ed una diffusione immediati, ma definiscono fin da subito dei modelli capaci di imporsi efficacemente anche al di fuori dei confini toscani.
1.1Il De vulgari eloquentia
La prima riflessione sulla lingua al fine di definire modelli per il suo utilizzo viene fatta da Dante nel De Vulgari eloquentia, opera in due libri (scritta in latino!) rimasta incompiuta. La tesi dantesca è espressa nel secondo libro: è necessario definire un volgare illustre, che sia cioè comprensibile ed elegante, ma non essendoci volgari adatti (neanche il toscano), lo si può modellare sugli esempi dati dalla letteratura e, in particolare, da autori come il Guinizzelli, Guido Cavalcanti, Cino da Pistoia e Dante stesso.
Quest’opera, destinata ad essere dimenticata per quasi due secoli fino alla riscoperta fattane dal Trissino agli inizi del Cinquecento, ha la virtù di anticipare quelli che sono i nodi principali della questione della lingua italiana: il suo essere una lingua essenzialmente letteraria, e la necessità di doverla rendere una lingua d’uso.
2La novità dell’Umanesimo fiorentino
Il medioevo italiano è segnato dalla particolare centralità di Firenze che raggiunge il suo apice con l’affermarsi della signoria medicea nel Quattrocento, il secolo dell’Umanesimo che ha nella corte fiorentina i suoi maggiori esponenti: è da quest’ambiente che emergono le riflessioni più innovative attorno al problema della lingua.
Una delle voci più autorevoli è quella di Leon Battista Alberti, che nel proemio al III libro Della famiglia formula l’idea di un volgare di livello alto, «ornato» e «copioso» in grado di competere con il latino per nobiltà, forma e struttura, e che poteva essere usato per trattare argomenti seri ed importanti in modo che fossero comprensibili al maggior numero possibile di persone.
L’Alberti si fa così promotore del volgare e scrive saggi di matematica e arte, e persino una Grammatica della lingua toscana scritta con l’intenzione di dimostrare che anche il volgare poteva avere una forma ordinata come il latino.
Questa politica di innovazione linguistica viene perseguita anche da altri elementi della corte fiorentina come Cristoforo Landino e lo stesso Lorenzo de’ Medici. Il Magnifico, con un’operazione a metà strada tra la ricerca letteraria e quella politica, compila la cosiddetta Raccolta aragonese, un regalo al re di Napoli in cui sono riuniti tutti i maggiori esempi di composizione poetica toscana dagli autori pre-danteschi fino ai quattrocenteschi: obiettivo dell’operazione era mostrare la ricchezza e l’autorevolezza della lingua fiorentina e ribadirne la centralità nel panorama italiano.
Landino invece dimostra la validità del volgare utilizzandolo per tradurre opere latine come la Naturalis historia di Plinio: un saggio di difficile lettura e ricco di tecnicismi ma scelto proprio per dimostrare la ricchezza e la versatilità del fiorentino.
2.1La lingua di Koinè
Se la poesia aveva modelli diversi e di valore, la prosa poteva guardare al solo Boccaccio che non poteva essere un riferimento per i testi d’uso quotidiano o per i trattati scientifici: il problema era quindi di definire un modello di prosa volgare per ciascun ambito specifico, ovviando al problema della penuria di modelli e alla varietà dei diversi volgari regionali.
Una risposta emerge nell’ambito delle corti signorili che potenziano le loro cancellerie nell’ottica della cura dei rapporti diplomatici tra i vari regni. La necessità di trovare una lingua comune, ed il fatto che i cortigiani che si occupano delle cancellerie si spostassero spesso di corte in corte portando con sé i loro bagagli culturali, porta alla formazione di una sorta di volgare di koinè, cioè una lingua scritta comune in cui i tratti più marcatamente regionali vengono progressivamente eliminati allo scopo di favorire la comprensione immediata.
3Il Cinquecento
Nel XVI secolo il volgare si afferma definitivamente come lingua, non solo grazie ad autori come Ariosto e Tasso, ma anche alle opere di Machiavelli e Guicciardini, autori di trattati storico-politici che certificavano definitivamente la capacità di trattare argomenti elevati. Insieme alla definitiva affermazione del volgare comincia in maniera consapevole il dibattito attorno all’uso della lingua.
Fondamentali in questo senso sono le Prose della volgar lingua (1525) di Pietro Bembo: si tratta di un dialogo in tre libri, l’ultimo dei quali contiene una grammatica italiana, in cui l’autore indica i modelli linguistici non nel fiorentino parlato ai suoi tempi, ma in quello letterario del Trecento di cui Petrarca e Boccaccio sono i massimi esponenti per la poesia e la prosa; questa impostazione, determinante per i futuri sviluppi del dibattito, è detta anche classicista, in quanto basata sugli esempi degli scrittori “classici” del volgare.
I modelli fissati da Bembo sono lontani dalla varietà data dalle espressioni popolari e dalla vivacità del parlato: sul piano letterario questo significò il rifiuto di Dante come modello, dato che la sua Commedia era infarcita di espressioni popolaresche, e su quello pratico la fine della lingua di koinè, anch’essa giudicata eccessivamente eterogenea, e che continuò ad essere usata dagli scriventi meno colti.
3.1Le tesi antibembiane
Le tesi antibembiane sono sostanzialmente due. La prima è detta cortigiana, e propone la centralità della lingua d’uso e della corte in quel particolare momento storico. I suoi fautori avevano come riferimento il fiorentino contemporaneo parlato alla corte dei Medici, che doveva però essere raffinato alla corte papale di Roma, città cosmopolita e centro politico e religioso dell’intera Europa, che quindi non soffriva i particolarismi regionali.
La seconda è la cosiddetta tesi italiana di Gian Giorgio Trissino; questi è il riscopritore del De vulgari eloquentia dantesco e, partendo da quest’opera, negò il primato della lingua toscana letteraria, sposando invece la tesi dantesca della varietà linguistica composta del meglio delle espressioni letterarie italiane.
3.2Il ruolo delle Accademie
Nel Cinquecento si affermano accademie linguistiche che tentano di definire la lingua italiana discutendone i problemi teorici e normativi. Celebri sono la padovana Accademia degli infiammati e l’Accademia della Crusca, tuttora esistente, che sviluppano il dibattito attorno ai nodi principali che si erano definiti nei decenni precedenti: l’alternativa tra una lingua letteraria classica di stampo bembiano ed una più incline al parlato che, pur partendo dal fiorentino, fosse sensibile ed aperta alle influenze degli altri volgari italiani.
Esempio di come fossero questi i fuochi della discussione è dato anche dall’Hercolano di Benedetto Varchi (1570) che, partendo da posizioni bembiane, arriva ad affermare la centralità del fiorentino parlato invece dei modelli classici.
3.3L'Accademia della crusca e la questione della lingua
L'Accademia della Crusca è un'istituzione linguistica italiana che ha avuto un ruolo importante nella nel “risolvere” il tema della lingua italiana. Fondata nel 1583 a Firenze, l'Accademia prende il nome dalla "crusca," cioè la parte inutile e scartata del grano, simboleggiando l'idea di separare la lingua "pura" dalla "crusca" delle contaminazioni linguistiche.
Uno dei principali obiettivi dell'Accademia era stabilire le regole grammaticali e lessicali per l'italiano, al fine di creare una comune lingua nazionale. Questa era una risposta al desiderio di avere un'alternativa alla lingua predominante nei testi letterari e amministrativi dell'epoca, che spesso erano scritti in latino o in dialetti locali.
La questione della lingua era legata al dibattito sulla purità linguistica e sulla necessità di avere una lingua standard per scopi culturali, scientifici e amministrativi. L'Accademia della Crusca promosse l'uso del toscano come modello per l'italiano standard e contribuì a stabilirne le basi grammaticali e lessicali.
Uno degli strumenti principali creati dall'Accademia era il "Vocabolario degli Accademici della Crusca," un dizionario che raccoglieva le parole della lingua italiana e forniva definizioni e spiegazioni. La prima edizione del dizionario fu pubblicata nel 1612 e divenne un riferimento importante per la lingua italiana.
Tuttavia, la questione della lingua standard non fu priva di controversie. L'Accademia della Crusca ebbe divergenze di opinioni con altri studiosi e accademie linguistiche su varie questioni, come l'adozione di nuovi termini o l'accettazione di parole straniere. Inoltre, il dibattito sulla lingua si estendeva anche a questioni di identità regionale e nazionale.
Nonostante le controversie, l'Accademia della Crusca svolse un ruolo significativo nel promuovere la standardizzazione della lingua italiana e nel contribuire alla formazione della lingua nazionale moderna. Anche oggi, l'Accademia continua a operare come un'importante istituzione che promuove lo studio e la preservazione della lingua italiana.
3.4Ascolta il podcast sulla questione della lingua italiana
Ascolta su Spreaker.-
Domande & Risposte
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Cos'è la questione della lingua italiana?
Un dibattito nato in ambito letterario sul problema di quale fosse la lingua più giusta da utilizzare nella penisola italiana.
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Quali sono gli autori più noti che hanno affrontato la questione della lingua?
Dante Alighieri, Leon Battista Alberti, Pietro Bembo, Gian Giorgio Trissino, Niccolò Machiavelli, Benedetto Varchi e Alessandro Manzoni.
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Qual era la posizione di Manzoni sulla questione della lingua italiana?
Manzoni riponeva la propria fiducia nel fiorentino vivo ma non in quello parlato dalla classe contadina bensì in quello della classe colta. Frutto delle sue teorie sono I promessi sposi.