Publio Ovidio Nasone: vita e poetica
Indice
1Ovidio (43 a.C. - 18 d.C.), il poeta della trasformazione
«In natura nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma», enuncia il celebre postulato della legge della conservazione della massa nella meccanica classica di Antoine-Laurent de Lavoisier. Trasformazione perenne, senza soluzione di continuità, dove tutto è provvisorio, ogni forma può sostituirsi a un’altra rivelandosi nuova in ogni momento. È un ottimo spunto per inquadrare il mondo di Ovidio in cui è la poesia a essere quella massa sotterranea che può trasformarsi in qualunque cosa.
Il poeta è l’artefice dell’eterna trasformazione delle immagini e delle parole attraverso le due più importanti figure retoriche: la metafora e la similitudine. In questo senso, Ovidio è stato il cantore del divenire.
Nelle Metamorfosi, ma anche negli Amores, ha cantato la trasformazione, lo studio ora del sentimento ora del corpo e spesso della relazione tra questi elementi. Dotato di un talento straordinario, è uno dei poeti che ha più influenzato la storia della letteratura occidentale ispirando altri celebri scrittori come Lucano, Apuleio, Dante, Stevenson fino, e non può mancare, a Kafka.
2Ovidio: una vita sopra le righe macchiata dall’esilio
Ovidio nacque a Sulmona, in Abruzzo, nel 43 a.C. da famiglia appartenente al rango equestre. Trasferitosi a Roma dove si recò col fratello (31 a.C.) e dove studiò grammatica e retorica presso insigni maestri, come Arellio Fusco e Porcio Latrone – e dopo viaggi di studio in Grecia e Asia minore – rinunciò alla carriera politica per dedicarsi alla poesia. Fu qualcosa di irrinunciabile: lui stesso afferma et quod temptabam dicere versus erat, ossia «ciò che tentavo di dire lo dicevo in versi».
Entrato nel circolo di Messalla Corvino – antico detrattore di Augusto e poi suo tiepido sostenitore – ottenne subito successo con la sua prima raccolta di elegie: gli Amores. Seguirono le Heroides, quindi l’Ars amatoria, accompagnata dai Remedia amoris e dai Medicamina faciēi feminĕae, quest’ultimo un trattato sul trucco delle donne.
Fra l’1 e l’8 d.C. si dedica alla poesia eziologica con i Fasti sul modello di Callimaco e, in seguito, al poema mitologico che è anche il suo indiscusso capolavoro: i Metamorphoseon libri XV.
Nell’8 d.C., mentre tutto sembra ruotare a suo vantaggio, avvenne la clamorosa condanna alla relegatio a Tomi, sul mar Nero (Pontus Euxinum). A differenza dell’exilium, Ovidio non perse i diritti di cittadino e non subì la confisca dei beni. Fu, però, costretto a rimanere isolato in una terra selvaggia e inospitale, dove tutto c’era tranne che la Pax Augusta, quanto mai lontana, avvertita come l’invenzione di un furbo tiranno.
Il povero Ovidio non poteva denunciare apertamente l’ingiusta punizione subita altrimenti avrebbe aggravato la sua situazione. Rimase lì, consolato appena dalla letteratura, nella più cupa tristezza, sino alla morte.
Le ragioni di tale punizione restano oscure: Ovidio allude nei Tristia a duo crimina, carmen et error. Quanto al carmen è certo che la sua poesia licenziosa fosse sgradita al regime che propagandava la restaurazione dei boni mores (i buoni costumi) della tradizione: l’Ars amatoria in particolare è quasi un manuale per adulteri.
Per quanto riguarda l’error, la teoria più accreditata è che il poeta sia rimasto coinvolto in uno scandalo di corte con protagonista Giulia, la nipote, piuttosto dissoluta, dell’imperatore. La pena non gli fu condonata né da Augusto, né dal suo successore Tiberio, malgrado le implorazioni ricorrenti nelle elegie composte a Tomi (cioè, nei Tristia e nelle Epistulae ex Ponto). Rimase a Tomi fino alla morte, nel 18 d.C.
3Opere di Ovidio
Gli Amores sono suddivisi in tre libri e comprendono 50 componimenti dedicati a una donna chiamata Corinna. Ritornano qui i temi tipici dell’elegia amorosa: la militia amoris, il servitium amoris, il lamento per l’infedeltà della donna, la gelosia, la soggezione alla domina, i riferimenti mitologici. Ma in lui si avverte la mancanza di una partecipazione passionale, la vicenda amorosa sembra un gioco divertente, l’elegia un brillante esercizio letterario teso alla ricerca di effetti sorprendenti, quando non paradossali.
Una variante del genere elegiaco sono le Heroides, un’opera costituita da 21 lettere divise in due gruppi: 15 sono scritte da eroine mitiche ai rispettivi mariti o amanti, 6 sono scambi epistolari fra tre coppie mitiche. Si tratta in genere di componimenti in cui le donne, rivendicando la propria fedeltà e ricordando il passato felice, lamentano o la lontananza o il tradimento del proprio marito o amante.
Un poemetto in distici che si sviluppa in tre libri è l’Ars amatoria, con cui il poeta, atteggiandosi a praeceptor amoris, intende insegnare ad uomini (nei primi due libri) e a donne (nel terzo libro) le tecniche della seduzione amorosa.
Per l’uomo si tratta di una specie di caccia: la donna è una preda che va cercata nei teatri, nei templi, nei conviti, e va “catturata” facendo ricorso a tutti gli espedienti necessari. Facendole la corte e lusingandola con tenacia si vincerà la sua resistenza, perché la libido della donna è senza limiti ed in realtà essa vuole ciò che finge di rifiutare.
Viceversa alle donne che vogliono piacere agli uomini si danno consigli sulla cura della persona (acconciatura, vestiti, trucco) e sul comportamento: la donna deve essere allegra e disponibile, deve saper danzare e cantare, soprattutto deve farsi desiderare, fingendo resistenza alle profferte dell’uomo.
L’amore diventa così un frivolo gioco mondano, fatto di galanterie e abili schermaglie, il cui obiettivo è il piacere sessuale (spes Veneris) a prescindere da ogni sincera passione. Si capisce dunque come tale opera potesse non piacere al regime, che voleva restaurare i buoni costumi della tradizione: Ovidio – pur proponendo un enfatico elogio del principe nel primo libro – contrappone esplicitamente la rusticitas degli avi al cultus, cioè alla raffinata eleganza, dello stile di vita moderno che lui dichiara di prediligere.
Di poco successivo è il poemetto, sempre in distici, Remedia amoris, con cui il praeceptor amoris diventa il medicus che prescrive i rimedi necessari per guarire dalla “malattia”, e quindi dalle sofferenze d’amore. Per citare Ovidio, «la mano che ha inferto la ferita è ora quella che dona la cura».
Dunque bisognerà fare il contrario di quello che si è insegnato precedentemente: non frequentare i suddetti luoghi d’incontro, preferire la campagna alla città, dedicarsi allo sport, ai viaggi; più specificamente, concentrarsi sui difetti della puella di cui si è innamorati. Ovidio è un medico del mal d’amore, come tanti amici nostri quando ci innamoriamo senza essere ricambiati o rompiamo una relazione.
Del contemporaneo Medicamina faciēi feminĕae (“I cosmetici femminili”) ci restano un centinaio di versi contenenti consigli e ricette per creme di bellezza.
Con i Fasti Ovidio si dedica alla poesia eziologica, che aveva come grande modello gli Aitia di Callimaco e come riferimento romano il IV libro delle elegie di Properzio. L’intento è quello di spiegare l’origine delle festività, delle celebrazioni religiose, dei loro nomi (appunto, i dies fasti) mescolando storia e leggende, narrando aneddoti e vicende dell’antichità. Si tratta dunque di una poesia erudita, secondo il gusto alessandrino, per la quale il poeta utilizza svariate fonti (sia l’opera storica di Livio, sia l’imponente opera antiquaria di Varrone Reatino).
Con le due raccolte di poesie scritte in esilio (5 libri di Tristia e 4 di Epistulae ex Ponto), Ovidio adotta l’elegia nel senso originario di “poesia del lamento”, esprime tutto il suo dolore per la sventura capitatagli, la nostalgia per la patria lontana e per le persone care, implora il perdono dell’imperatore (prima di Augusto, poi di Tiberio, ma senza risultato).
Al periodo dell’esilio appartiene anche un poemetto in distici elegiaci, Ibis, ad imitazione di un omonimo componimento di Callimaco. Si tratta di un lunga invettiva, sostenuta da eruditi riferimenti mitologici, contro un avversario di cui viene taciuto il nome.
Di attribuzione incerta è invece un frammento di 130 esametri, intitolato Halieutica, sui pesci e sull’arte della pesca.
4Le Metamorfosi di Ovidio: temi e stile
Ìn nova fèrt animùs mutàtas dìcere fòrmas
còrpora: dì, coeptìs (nam vòs mutàtis et ìllas)
àdspiràte meìs primàque ab orìgine mùndi
àd mea pèrpetuùm deducìte tèmpora càrmen
(Ovidio, Metamorfosi, I.1-4)
[L’estro mi spinge a narrare di forme mutate in corpi nuovi: o dèi, seguite (anche queste trasformazioni furono pure opera vostra) con favore la mia impresa e fate che il mio canto si snodi ininterrotto dalla prima origine del mondo fino ai miei tempi]
Eccoci davanti alla grande opera di Ovidio, quella che gli ha dato fama immortale: le Metamorfosi, o Metamorphoseon libri XV, poema in XV libri appunto, in esametri, con cui il poeta abbandona l’elegia per comporre «un canto continuo (carmen perpetuum), dalla prima origine del mondo sino ai tempi miei». È un poema epico, però non di genere eroico, ma mitologico (come la Teogonia di Esiodo). Non è un’opera con un protagonista e con una vicenda unitaria svolta in un determinato arco temporale: non si tratta di narrare la guerra di Troia, il ritorno di Ulisse o le vicende di Enea.
L’epica riguarda il processo stesso della trasformazione, come abbiamo accennato in precedenza: è una narrazione che inizia dal Caos primitivo (così è anche in Esiodo), si sviluppa attraverso una serie di generazioni mitiche e giunge fino all’età contemporanea con l’apoteosi di Cesare e la celebrazione di Augusto. Su questo impianto, cronologicamente piuttosto generico, si innesta la successione dei miti di trasformazione (più di 250), connessi l’uno all’altro con giunture frutto di abili, ma artificiosi espedienti.
Ovidio sfrutta anche l’episodio della meta-narrazione, cioè del “racconto a cornice”, in cui si inserisce un racconto nel racconto, per cui i personaggi di storie narrate dal poeta diventano a loro volta narratori di altre storie. Con il libro XII si giunge all’età della guerra di Troia, seguono il viaggio di Enea e le leggende relative alle origini di Roma.
Nell’ultimo libro ben 400 versi sono dedicati al discorso che Pitagora rivolge al re Numa Pompilio: non solo gli predice l’avvento di Cesare e la sua divinizzazione (si trasformerà in una cometa), ma anche gli espone la teoria della metempsicosi (trasmigrazione delle anime) e teorizza la metamorfosi come principio universale, secondo cui ogni forma di vita muta continuamente in una forma nuova. Dice Pitagora:
“nihil est toto, quod perstet, in orbe.
cuncta fluunt, omnisque vagans formatur imago;
ipsa quoque adsiduo labuntur tempora motu,
non secus ac flumen…” (XV, 177-180).
“Non c’è niente che persista in tutto il mondo. Tutto scorre, e incerta si forma ogni immagine; il tempo stesso scivola via con moto continuo, non diversamente da un fiume”.
Dunque la metamorfosi è il fondamentale principio unificatore del poema, principio esplicato nei miti narrati, ma anche verità filosofica, riconosciuta nella vita dell’universo. Di tante trasformazioni che potremmo presentare, credo sia opportuno scegliere quella di Apollo e Dafne per la bellezza e per il suo intrinseco significato.
Viribus absumptis expalluit illa citaeque
victa labore fugae spectans Peneidas undas
'fer, pater,' inquit 'opem! si flumina numen habetis,
qua nimium placui, mutando perde figuram!'
[quae facit ut laedar mutando perde figuram.]
vix prece finita torpor gravis occupat artus,
mollia cinguntur tenui praecordia libro,
in frondem crines, in ramos bracchia crescunt,
pes modo tam velox pigris radicibus haeret,
ora cacumen habet: remanet nitor unus in illa.
Hanc quoque Phoebus amat positaque in stipite dextra
sentit adhuc trepidare novo sub cortice pectus
conplexusque suis ramos ut membra lacertis
oscula dat ligno; refugit tamen oscula lignum.
cui deus 'at, quoniam coniunx mea non potes esse,
arbor eris certe' dixit 'mea! semper habebunt
te coma, te citharae, te nostrae, laure, pharetrae.
(Metamorfosi, I, 543-559).
[Priva di forze impallidì e, vinta dalla fatica della fuga a precipizio, guardando le acque del Peneo, disse: “Aiutami, padre: se voi fiumi avete potere divino, distruggi, mutandolo, il mio corpo, che troppo è piaciuto”. Finita appena la preghiera, un pesante torpore le invade le membra, il dolce petto si ricopre di fibra sottile, i capelli si allungano in fronde, le braccia in rami; i piedi, prima tanto veloci, aderiscono a immobili radici, una cima prende il posto del volto, le resta soltanto la bellezza. Anche così Apollo l’ama e, poggiata la destra sul tronco, sente ancora trepidare il petto sotto la nuova corteccia e, abbracciati i rami come fossero membra; bacia il legno, ma il legno rifiuta i baci. Le disse il dio: “Poiché non puoi essere mia moglie, sarai almeno il mio albero; te avrò sempre, o alloro, sui capelli, sulla cetra, sulla mia faretra”]
Celebri le parole di Italo Calvino nelle Lezioni americane riferite al poema di Ovidio: Calvino esalta la leggerezza e la vivacità espressiva del poeta, capace di rendere sempre in modo plastico tutto ciò che sta accadendo. La leggerezza è un modo di vedere il mondo. Di grande importanza è poi il quindicesimo e ultimo libro delle Metamorfosi in cui parla Pitagora, il filosofo, che celebra la metamorfosi cosmica, il divenire come principio fondamentale dell’universo dove nulla si distrugge, ma muta perpetuamente. In questo senso ci colpisce anche l’apologia del mangiare vegetariano che si innesta alla perfezione nel sentire l’universo come un tutto in movimento. Nei versi finali il poeta celebra Augusto, signore della terra, e gli augura lunga vita; per se stesso e per il proprio poema prevede orgogliosamente l’immortalità.
“Iamque opus exegi, quod nec Iovis ira nec ignis
nec poterit ferrum nec edax abolere vetustas.
Cum volet, illa dies, quae nil nisi corporis huius
ius habet, incerti spatium mihi finiat aevi:
parte tamen meliore mei super alta perennis
astra ferar, nomenque erit indelebile nostrum,
quaque patet domitis Romana potentia terris,
ore legar populi, perque omnia saecula fama,
siquid habent veri vatum praesagia, vivam.”
(Metamorfosi, XV, 870-79)
[Ormai ho compiuto l’opera che non potrà cancellare né l’ira di Giove, né il fuoco, né il ferro, né il tempo che corrode. Venga quando vorrà quel giorno che ha giurisdizione solo sul mio corpo e ponga fine al tempo incerto della mia vita: salirò tuttavia per sempre con la parte migliore di me alle stelle e il mio nome sarà indistruttibile; e fin dove si estende la potenza romana sulle terre assoggettate, reciteranno i miei versi le labbra del popolo ed io, grazie alla fama, se hanno qualcosa di vero le profezie dei poeti, vivrò per tutti i secoli.]
Alla straordinaria inventiva si associa un’abilità quasi virtuosistica nel descrivere le metamorfosi, tanto negli aspetti spettacolari quanto nei connessi risvolti psicologici: il mutamento – che è quasi sempre passaggio dalla condizione umana a quella animale o vegetale – è rappresentato soprattutto nel momento in cui il protagonista sperimenta la perdita della facoltà di movimento e (o di comunicazione). Altrettanto notevole è l’abilità linguistica, che si manifesta in vari modi nella descrizione di quelle vicende paradossali: si va dalla frase fulminea e precisa al raffinato gioco di parole.
Le Metamorfosi sono un’opera grandiosa per la concezione e per la ricchezza di personaggi e per le sue storie stupefacenti. Sono in fondo la grande celebrazione della poesia, una sostanza, una creta, di cui è composto tutto il cosmo e che lega tutti in modo indissolubile.
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Domande & Risposte
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Chi è stato Ovidio?
Un poeta romano tra i maggiori esponenti della poesia elegiaca.
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Cosa ha scritto Ovidio?
Metamorfosi, Amores, Heroides, Ars amatoria, Remedia amoris, Medicamina faciēi feminĕae, Fasti, Tristia, Epistulae ex Ponto, Ibis e Halieutica.
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A quale genere letterario appartengono le opere di Ovidio?
Poesia elegiaca, dramma, letteratura latina.