La produzione di Pascoli oltre a Myricae e Canti di Castelvecchio: Odi, Inni, Poemetti
Indice
1Primi poemetti e Nuovi poemetti
Mentre attendeva alle stesure di Myricae e alla composizione dei Canti di Castelvecchio, Pascoli pubblicò nel 1897 i Poemetti, poi successivamente divisi dall’autore in due distinte raccolte: Primi poemetti (1904) e Nuovi poemetti (1909).
Le liriche dei Primi poemetti raccontano le vita semplice di due sorelle contadine, Rosa e Viola ispirate quasi certamente alle sorelle del poeta, Ida e Maria. Le loro giornate trascorrono tranquille in una vita monotona, ripetitiva, attenta però alle cose umili, proprio come in Myricae.
C’è però un respiro narrativo molto più ampio perché Pascoli sceglie di scrivere i poemetti in terzine dantesche (a rima incatenata), con un maggiore caratterizzazione dei personaggi. È un sincero e appassionato omaggio alla semplice vita campestre, lontana da folla e schiamazzi della vita industriale, in cui è possibile ricostituire il nido familiare con i suoi più veri affetti.
I Nuovi poemetti costituiscono una prosecuzione dei Primi poemetti, riprendendo il tema della vita campestre, con in più il tema amoroso poiché si narrano le avventure di Rosa con il giovane Rigo fino al loro matrimonio. Lo stile è più alto e la struttura più articolata, travisando così quell’aura di semplicità che contraddistingueva la precedente raccolta.
Tra i Primi poemetti una delle poesie più famose è Digitale purpurea, pianta venefica, al centro del ricordo delle due educande in convento Ida e Maria, simbolo di un eros proibito.
Un’altra memorabile poesia è il poemetto Italy, che affronta il tema delle migrazioni: in questa poesia Pascoli gioca con i dialetti e l’inglese, in una composizione davvero geniale.
Vieni, poor Molly! Vieni! Dove sono
le nubi? In cielo non c’è più che poca
nebbia, una pace, un senso di perdono,
di quando il bimbo perdonato ha roca
ancor la voce; all’angolo degli occhi
c’era una stilla, e cade, mentre gioca.
Vieni, poor Molly! Porta i tuoi balocchi.
Dove sono le nubi nere nere?
Qualche lagrima sgocciola dai fiocchi
delle avellane, e brilla nel cadere.
2Poemi conviviali di Pascoli
Benedetto Croce amava molto questa raccolta che definì: «Un capolavoro di cultura umanistica». I Poemi conviviali sono 17 e sono poemetti intitolati in questo modo per la loro prima destinazione editoriale: la rivista “Il Convito” (infatti furono dedicati al suo editore Alfonso De Bosis). Furono editi successivamente nel 1904 e poi in una seconda e definitiva edizione nel 1905.
In questa raccolta – tra le più elaborate e complesse di Pascoli – sono ripresi personaggi e miti dell’antichità greca, romana e paleocristiana: la novità è nel modo in cui sono riproposti giacché vi si avvertono tutta la sensibilità e il fascino del Decadentismo. Gli eroi non sono ritratti nel loro splendore, ma colti nelle loro inquietudini, ossessioni, paure.
Pascoli cerca di evocare la grandezza e la solennità dell’esametro classico con l’utilizzo dell’endecasillabo sciolto e servendosi di un linguaggio aulico e ricercato creando un’eleganza fin troppo artificiosa al punto che dovette chiarire che queste poesie volevano essere un omaggio a chi non ama la poesia semplice delle Myricae. È una poesia che riprende il suo maestro Carducci per la lettura della storia alla luce della rivelazione cristiana e che si allinea a una sensibilità quasi dannunziana per lo sfoggio dell’artificio letterario.
Il personaggio che spicca su tutti è Ulisse, il cui poemetto occupa ben 24 canti. Infatti la classicità rappresenta per Pascoli una sorta di mitica infanzia del genere umano – vi si può scorgere l’influenza del filosofo Giambattista Vico e di Leopardi del pessimismo storico – a cui nei secoli è subentrata l’industrializzazione con il suo degrado.
Leggiamo un pezzettino di Alexandros, il poemetto dedicato al celebre condottiero Alessandro Magno:
Fiumane che passai! voi la foresta
immota nella chiara acqua portate,
portate il cupo mormorìo, che resta.
Montagne che varcai! dopo varcate,
sì grande spazio di su voi non pare,
che maggior prima non lo invidïate.
Azzurri, come il cielo, come il mare,
o monti! o fiumi! era miglior pensiero
ristare, non guardare oltre, sognare:
il sogno è l’infinita ombra del Vero.
3Odi e inni di Pascoli
È una raccolta del 1906. Qui Pascoli sceglie di cantare la patria e propone modelli civili, ispirandosi anche alla storia contemporanea (le campagne coloniali d’Africa) sulle orme di Carducci e di D’Annunzio. È una poesia d’occasione in cui l’appello alla fratellanza umana e alla giustizia sociale diventa una voce più di propaganda, moraleggiante e nazionalistica, come vediamo in questo esempio, un inno alla pace:
Lasciate alla Morte la messe
degli uomini! O popolo umano,
nei campi che il fato ti elesse,
tu mieti pensoso il tuo grano!
Non sangue, non lagrime! Il sangue
lasciatelo nelle sue vene!
Schiudete la carcere esangue,
sciogliete le ignave catene!
Lasciate la morte alla Morte!
Voi stando su l’orride porte
gridate: «Tu sei ciò ch’io sono!
fratello, io perdono!»
(Pace!, vv. 85-96)
4Canzoni di re Enzio, Poemi italici, Poemi del Risorgimento
Le Canzoni di re Enzio (1908-1909), i Poemi italici, i Poemi del Risorgimento (1913, cioè postumi) sono opere di ispirazione civile e patriottica: d’altronde siamo alle porte della prima guerra mondiale ed è un periodo molto complicato nel panorama europeo. L’ispirazione patriottica – come nel Romanticismo – propone un recupero delle grandi figure del passato e in particolare di quelle del Medioevo.
I poemi italici comprendono tre poemetti: Paolo Uccello, in cui è rievocata la figura del famoso pittore fiorentino, Rossini, dove si analizza un episodio della vita del noto compositore, Tolstoi, dedicato all’ideale di umanità del grande scrittore russo Lev Tolstoj.
I Poemi del Risorgimento si ispirano alla storia risorgimentale che Pascoli intendeva celebrare e che però non fece in tempo a terminare. Fu pubblicato dalla sorella Maria, accompagnato da questa lettera:
Perdonino i buoni amici e tutti i buoni, che leggeranno, l’insufficienza mia. E sopra tutti mi perdoni il dolce spirito, che mi è sempre accanto, se non so corrispondere degnamente alla sua fiducia. Ci metto tutta la mia buona volontà.
Castelvecchio, 30 aprile 1913. MARIA PASCOLI
Vediamo un esempio tratto dalle Canzoni:
Libertà! Posa il grido qual del rombo
d’un branco in cielo un cinguettìo rimane
minuto in terra. Sono tutti gli occhi
pieni d’una lontana visione.
È il Paradiso. Non vi son manenti
od arimanni. Ogni uomo è uomo. Ogni uomo
ha la sua donna, i figli suoi, la casa
sua. Sbalza lieto dai tuguri il fumo.
S’ode una voce ch’è nel cuore, e sembra
quella di Dio, quale s’udiva allora:
- Fa ciò che vuoi: non puoi voler che il bene! -
Fuori è il serpente e sibila notturno.
Fuori è il nemico, e vien alto come onda
che muore al lido. Avanti il Paradiso
resta il Cherub che v’era già: vi resta
a guardia della Libertà.
(La libertà, vv. 65-80)
5I Carmina. La poesia latina
I Carmina furono anch’essi pubblicati postumi, nel 1915. Sono tutte le poesie in latino che Pascoli aveva composto per il concorso di Amsterdam da lui vinto più volte: non a caso D’Annunzio lo riteneva «l’ultimo figlio di Virgilio». Ogni volta vinceva la medaglia d’oro, sbaragliando tutti gli avversari.
I Carmina comprendono 30 poemetti e 71 componimenti brevi in cui vediamo protagonisti personaggi semplici e umili – in accordo quindi con Myricae – per i quali il poeta mostra particolare interesse e partecipazione emotiva. Vediamone un esempio con traduzione dello stesso Pascoli:
Maeret homo de nocte sedens. Casa mane ruinam
parva dedit, paulo ante domus, vetus inde sepulcrum,
quippe ubi defossi iaceant mater, pater, uxor.
Quale sonat, perfracta rotis ubi glarea plaustri
exanimem subito per somnum exterruit aegrum,
500 tali cum strepitu tremor impulit oppida deinceps.
Momento fuit orbus homo: nunc suspicit astra.
At sapiens oblatus adest per caerula noctis.
«Heus viden,» inquit «homo, quantam modo feceris una
tu cladem caliga?» Caligae, velut immemor, ille
505 formicas visit truncis haerescere membris,
nam pede diruerat formicis forte domos et
colliculos aequarat arenosos. «Age porro
rursus» ait «licet ad caelum convertere visus».
Tum stellas volitare videt, videt undique caelum
510 scintillare, velut cum grandi in funere lictor
invertit taedam, fungos ut deterat atros.
Hic sapiens: «Necopinata nece tota vicissim
sub pedibus tibi gens, supra caput interit astrum.
Hem quid ais? Nec agi censes male nec bene tecum
515 siquod dissiliens astrum sublime fatiscat,
siqua teratur humi pedibus formica, nec autem
vivat homo refert cuiusquam necne, quod unum
quodque suus dolor est genus, atraeque omnia mortis,
mortis erunt quandoque supervolitantis in umbra».
520 Sic est: perfugium fraterno in corde doloris
unum est: ipse tibi cur intercludis? et illi
adfers, qui valeat tibi mox lenire, dolorem?
Quidve ita nomen adhuc humanum dissidet armis?
Non aliter pueros media inter proelia mater
525 opprimit et pugnos et strictos occupat ungues:
unus ubi geminos cubitum discedere iussos
lectulus excepit flentesque iraque tumentes,
iam vacuae circum tenebrae terroribus implent:
iam non singultant, lacrimis moderantur et irae,
530 mox sensim placidis pugnacia bracchia circum
dant collis et corda premunt oblita furoris.
[Traduzione dello stesso Giovanni Pascoli: L’uomo siede da tutta la notte, e piange: il piccolo abituro la mattina era crollato: poco prima era una casa, da gran tempo è un sepolcro, ché vi giacciono sotterrati la madre, il padre, la moglie. Qual suono fa la ghiaia triturata dalle ruote d’un carro (suono che a un tratto atterrisce e leva il respiro al malato che dormiva), con tale mugghio un tremore sospinse l’una dopo l’altra le città. In un attimo l’Uomo si trovò senza nessuno de’ suoi cari; ora alza gli occhi alle stelle. Ecco, gli è avanti il sapiente: egli lo vede al chiarore ceruleo della notte. Dice: «Vedi, o Uomo, che strage hai fatta or ora con uno de’ tuoi calzari?» Come trasognato, quello guarda e vede che alle scarpe sono attaccate formiche con le membra smozzicate: ché col piede aveva abbattuta una casa alle formiche e aveva spianato i loro collicelli di sabbia. «Or via,» esclama il sapiente «or puoi di nuovo volgere gli occhi al cielo!» Allora egli vede stelle sfilare, vede d’ogni parte scintillare il cielo, come quando, in un solenne funerale, gli accompagnatori capovolgono le fiaccole per levarne la nera moccolaia. E il sapiente: «Di morte improvvisa, a lor volta, sotto i piedi ti muore un popolo, sopra la terra ti muore un astro. Che dici tu? tu dici che a te non fa nulla, se in alto un astro schizza e va in polvere, se in terra una formica è calpestata. Ebbene a nessuno importa se l’Uomo viva o non viva, ché ogni genere è morso da un suo proprio dolore, e tutti gli esseri, presto o tardi, si troveranno all’ombra delle ali della morte: della morte che vola sul nostro capo. «Cosí è: vi è un solo rifugio per il nostro dolore: il cuore dei fratelli. E tu perché te lo impedisci da te? Perché rechi dolore a quello che di lí a poco potrebbe consolare il tuo? Perché la grande Nazione Umana è ancora in preda alla discordia e combatte tra sé? Non altrimenti la mamma sorprende i bimbi in mezzo a una rissa, e affrena i loro pugni, le loro unghie pronte all’offesa. Quando un letto solo ha accolto i due bimbi, mandati a nanna, i due bambini che ancora piangono gonfi d’ira, ecco le tenebre attorno, sebbene vuote li empiono di paura, ecco, non singhiozzano piú, frenano le lagrime e l’ira; di lí a poco si circondano pacificati il collo con le braccia pugnaci e accostano l’uno all’altro il cuore dimentichi della furia».]
6Il pluristilismo di Pascoli
Osservando tutta la produzione di Pascoli ci accorgiamo di quanto fu sperimentale nella lingua e nella metrica, saggiando tutte le possibilità della parola e del verso. Da un punto di vista stilistico, Pascoli e D’Annunzio sono le due esperienze che aprono tutta la poesia del Novecento. Tutti i poeti successivi hanno dovuto fare i conti con questi due poeti giacché il compito di un poeta è arricchire il lessico poetico e donarlo a chi viene dopo, come dice Eliot. Allora dobbiamo essere grati a questi due grandi poeti per il loro instancabile ed eccellente lavoro di scoperta poetica.
Indubbiamente lo sperimentalismo di Pascoli ci impedisce di incasellarlo in un unico genere: scrisse molte cose e tutte in forma diversa. Afferma Gianfranco Contini: «Pascoli, in conclusione, non si presenta come poeta rigorosamente rivoluzionario; ma se non è un dinamitardo perfettamente consequenziario è perché non l’ha voluto: e con questo non intendo significare che non l’abbia voluto nella sua coscienza psicologica, ma che egli rappresenta obiettivamente il tipo di un autore non rinchiuso entro i confini di un genere, bensì perennemente esorbitante da ogni genere, anche se questo genere fosse l’eresia; che non può essere il fedele ortodosso d’una chiesa, e neppure della chiesa dell’eresia.
Insomma non c’è in Pascoli nessun genere, nessun istituto letterario, nessuna tradizione attuale o virtuale allo stato puro: il temperamento di Pascoli è decisamente anticlassico (Gianfranco Contini, da Studi pascoliani, 1958). Anticlassico, ma erede e sviluppatore di quella classicità: Pascoli è forse il filtro attraverso cui il Novecento ha rielaborato la lezione dei poeti antichi.
7Pascoli e il suo rapporto con le donne
Le perdite familiari subite in giovanissima età, portano Pascoli a ricostruire un proprio nucleo familiare con le due sorelle rimaste, di 10 e 8 anni più giovani di lui, ma questo rapporto si rivela soffocante e dannoso.
Ida si allontana in malo modo sposandosi il 30 settembre 1985, ma la rottura con il fratello avviene per motivi finanziari e non affettivi: il poeta si sentiva sfruttato dalle pretese economiche dei due fidanzati e aveva paura di lasciare l’altra sorella senza un soldo.
Maria invece rimane legata a lui in maniera morbosa, arrivando a sabotare il suo fidanzamento con una cugina riminese, riferendogli falsi pettegolezzi sul suo modo di camminare. Giovanni rompe il fidanzamento, che fra l’altro aveva cercato di tenere segreto, e si rassegna a vivere da scapolo con la sorella Mariù.