Il principio di legalità: spiegazione

Il principio di legalità: spiegazione della riserva di legge, del principio di tassatività, di retroattività e di analogia in materia penale

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Il principio di legalità: spiegazione

Il principio di legalità: spiegazione
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Condizioni generali. La disposizione dell'art. 1 c.p., prevedendo che "nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente preveduto come reato dalla legge" codifica il c.d. principio di legalità il quale trova riconoscimento e garanzia nella Costituzione all'art. 25: "nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

Viene accolta così la concezione formale di legalità, per la quale reato è soltanto ciò che è previsto come tale dalla legge, anziché la concezione sostanziale, fatta propria dagli ordinamenti di tipo assolutistico come quello nazista e bolscevita, secondo la quale è reato qualsiasi fatto socialmente pericoloso, anche se non previsto dalla legge.

Il principio di legalità, di matrice illuministica e di origine non strettamente penalistica ma eminentemente politica, è quindi, connaturale con gli ordinamenti democratici, in quanto tutela l'individuo contro gli eventuali abusi dello Stato.

La traduzione in termini giuridico-penali del fondamento politico del principio di legalità risale agli inizi dell'Ottocento e avviene ad opera del criminalista tedesco Anselm Feuerbach il quale lo sintetizza nel brocardo latino nullum crimen, nulla poena sine lege.

Il principio di legalità si suddivide in quattro sotto-principi che qui di seguito analizzeremo:

  1. la riserva di legge;
  2. la tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale;
  3. il divieto di retroattività o irretroattività della legge penale;
  4. il divieto di analogia in materia penale.

Principio di legalità e riserva di legge

Il principio di riserva di legge, corollario naturale del principio di legalità, individuando nella legge l'unica e sola fonte normativa in materia penale, di fatto tende a garantire i cittadini dagli abusi del potere esecutivo, al quale non è consentita l'emanazione di norme penali.

Il problema che da sempre pervade e divide la dottrina è se la riserva di legge debba essere assoluta o relativa, se si possa cioè consentire che atti normativi "secondari" (regolamenti) concorrano alla creazione della fattispecie penale.

I fautori della riserva di legge assoluta sostengono che il ricorso a fonti normative di grado inferiore alla legge sia gravemente lesivo del principio di legalità in quanto il procedimento legislativo appare lo strumento più adeguato a salvaguardare il bene della libertà personale.

Per i sostenitori della riserva relativa è possibile, al contrario, il concorso di fonti normative diverse dalla legge purché, come, tra l'altro, è stato esplicitamente sancito dalla Corte Costituzionale, "sia una legge dello Stato a indicare con sufficiente specificazione, i caratteri, il contenuto e i limiti dei provvedimenti dell'autorità non legislativa" (C. Cost, sent. n. 26/1966).

È comunemente ammesso, quindi, un apporto regolamentare limitato ad accertamenti tecnici che puntualizzi le scelte politiche incriminatrici essenziali, riservate esclusivamente alla legge.

In altre parole: le scelte di fondo relative all'incriminazione rimangono monopolio del legislatore, mentre rimane affidata alla fonte normativa secondaria la possibilità di specificare dal punto di vista tecnico, il contenuto di elementi di fattispecie già delineati in sede legislativa.

Tale modello integrativo prende il nome di norma penale in bianco.

Con tale denominazione ci si riferisce a quelle norme (ritenute legittime dalla sentenza della Corte Costituzionale n.168/71) nelle quali la sanzione è prevista dalla legge, mentre il precetto (comportamento vietato) è formulato dalla legge in modo generico così da essere completato da un provvedimento amministrativo.

Ad esempio l'art. 73 del T.U. 9-10-90, n. 309, prevede e punisce severamente il traffico di stupefacenti, senza indicare le "sostanze" il cui traffico è vietato, e rinvia genericamente ad elenchi di stupefacenti contenuti in tabelle predisposte a cura del Ministero della Sanità.

E' di tutta evidenza, dunque, come nelle norme penali in bianco, il precetto penale trovi necessaria integrazione in un atto amministrativo governativo. Nessuna funzione incriminatrice o aggravatrice del trattamento punitivo può svolgere la consuetudine.

Essa risulta, altresì, priva di qualsiasi capacità abrogatrice della norma penale, cosicchè soltanto l'emanazione di una legge successiva può espressamente abrogare una norma vigente, anche se di fatto inapplicata per lungo tempo.

E' ammissibile, invece, la funzione scriminante della consuetudine. Le cause di giustificazione, infatti, non possedendo specifico carattere penale e non essendo, di conseguenza, necessariamente subordinate al principio della riserva di legge, possono avere la loro fonte in norme diverse dalla legge.

Riguardo al rapporto tra riserva di legge e normativa comunitaria, occorre evidenziare che la nostra Corte Costituzionale ha recepito quasi integralmente il principio del primato del diritto comunitario, fissato dalla Corte di Giustizia della CEE, per il quale la norma comunitaria deve prevalere sulla norma penale interna.

Tale principio vige, tuttavia, soltanto per alcune specie di norma comunitaria: sono immediatamente applicabili i regolamenti comunitari ed i Trattati aventi pieno contenuto dispositivo.

E' esclusa l'applicabilità delle direttive a carattere generale in quanto esse lasciano libere gli Stati membri in ordine ai mezzi idonei al perseguimento degli scopi presi di mira, mentre sono direttamente applicabili, almeno secondo un certo orientamento dottrinale (MUCCIARELLI, SGUBBI, GRASSO), le c.d. direttive analitiche, quelle cioè che contengono precetti sufficientemente individuati e specifici.

La dottrina più intransigente ritiene che la maggiore garanzia di tutela delle minoranze rappresentative del popolo nel Parlamento, sia offerta dal concetto di legge nella sua veste eminentemente formale, ossia l'atto normativo emanato ex art. 70 Cost.

Tuttavia, la dottrina prevalente ammette, tra le fonti del diritto penale, anche le leggi in senso sostanziale, vale a dire il decreto legge (art. 77 Cost.) e il decreto legislativo (art. 76 Cost.), e giustifica la sua scelta facendo leva su di un approccio giuridico formale che riflette la gerarchia delle fonti fissata dal legislatore costituente: cioè, posto che lo stesso ordinamento costituzionale riconosce al decreto delegato e al decreto legge efficacia pari a quella delle leggi ordinarie, se ne deduce la loro rilevanza anche in materia penale.

Il principio di legalità opera, come riserva di legge assoluta, anche rispetto alle pene - art 1 c.p. ultima parte: "...né con pene che non siano da essa (dalla legge) stabilite": ovvero, soltanto la legge o un atto normativo equiparato (decreto legge o decreto legislativo) possono stabilire con quale sanzione ed in quale misura debba essere punito il fatto criminoso, con conseguente limitazione del bene della libertà personale.

Predeterminazione legale della sanzione non significa, tuttavia, esclusione di ogni potere discrezionale del giudice. Al contrario, una certa estensione dello spazio edittale della pena e la possibilità per l'organo giudicante di scegliere tra più tipi di sanzioni, garantiscono l'esercizio della discrezionalità del giudice nel rispetto della Costituzione e della libertà dell'individuo.

Uno spazio di pena edittale oscillante tra limiti eccessivamente dilatati (es. pena detentiva da venti giorni a vent'anni), risulterebbe, di conseguenza, sostanzialmente elusivo del principio di riserva di legge, in quanto attributivo di eccessivo potere al giudice, e determinerebbe l'insorgere di problemi di costituzionalità della norma.

Se così è, il principio di legalità della pena è veramente rispettato soltanto se lo spazio edittale oscilli entro minimi e massimi ragionevoli, ragionevolezza da rapportare al rango del bene protetto e alla gravità dell'offesa arrecata dal fatto incriminato.

La riserva assoluta di legge riguarda sia le pene principali che le pene accessorie e concerne, altresì, gli effetti penali della condanna. Infine, la garanzia della legalità e da intendersi estesa anche alla fase dell'esecuzione della pena.

Il principio di tassatività

Il principio di tassatività, o di sufficiente determinatezza della fattispecie penale, impone al legislatore di formulare la norma penale in modo preciso e univoco, in modo che sia possibile conoscere con sufficiente precisione ciò che è penalmente lecito o vietato, circoscrivendo in limiti ben definiti l'attività interpretativa del giudice e garantendo, così, i cittadini dagli abusi del potere giudiziario.

L'assenza di una tale previsione consentirebbe la configurazione dei comportamenti penalmente sanzionati in termini così generici che il principio di legalità risulterebbe rispettato nella forma ma eluso nella sua sostanza.

Il principio di tassatività, inoltre, si accompagna al principio della frammentarietà, cioè se la tutela penale è tendenzialmente apprestata soltanto contro specifiche forme di aggressione ai beni giuridici, è necessario che il legislatore specifichi con sufficiente precisione i comportamenti che integrano siffatte modalità aggressive.

Il principio di irretroattività: limiti temporali di applicabilità della legge penale

Il principio di irretroattività o del divieto di retroattività della legge penale, facendo divieto di applicare la legge penale a fatti commessi prima della sua entrata in vigore, tende a garantire i cittadini dagli abusi del potere legislativo.

Il principio in esame è previsto, per tutte le leggi, nell'art. 11 delle preleggi il quale sancisce che "La legge non dispone che per l'avvenire: essa non ha effetto retroattivo", mentre esso trova riconoscimento costituzionale soltanto per la materia penalistica.

L'art. 25 Cost. - 2° comma recita infatti: "Nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso".

A livello di legislazione ordinaria il principio di irretroattività della legge penale trova collocazione nella struttura dell'art. 2 (comma 1°) il quale, stabilendo i criteri di successione delle leggi penali nel tempo, disciplina altresì l'ipotesi della retroattività di una eventuale norma più favorevole al reo, emanata successivamente (commi 2° e 3°).

Articolo 2 Codice Penale

Il 1° comma sancisce che "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo la legge del tempo in cui fu commesso, non costituiva reato".

Si tratta della c.d. nuova incriminazione alla quale si applica il principio della irretroattività della legge penale, espressamente previsto dall'art. 25 - 2° comma Cost.

Per meglio intenderci: se Tizio nell'anno 1995 commette un fatto non previsto dalla legge come reato, egli, oggi, non può essere condannato anche se lo stesso fatto è previsto come reato dalla legislazione attuale.

Quanto al tempus commissi delicti, è appena il caso di ricordare che l'opinione dominante ritiene che il momento da prendere in considerazione per la commissione del reato, ai fini della successione di leggi penali nel tempo, sia quello della condotta (e non del verificarsi dell'evento), in quanto è in tale momento che il soggetto, nella vigenza di una determinata legge, si pone contro il diritto.

Il divieto di punire fatti considerati leciti da una legge emanata successivamente alla loro realizzazione consente al cittadino di evitare i rischi, ai quali egli sarebbe continuamente esposto, di arbitrii e persino di rappresaglie da parte dei detentori del potere politico.

Da questo punto di vista, il principio di irretroattività si salda con quello di legalità, fondendosi nella formula nullum crimen, nulla poena sine "praevia" lege penali.

Il 2° comma prevede che: "nessuno può essere punito per un fatto che, secondo una legge posteriore, non costituisce reato; e, se vi è stata condanna, ne cessano l'esecuzione e gli effetti penali".

Tale è il fenomeno della c.d. abolitio criminis, cioè dell'abolizione di incriminazioni prima esistenti, nei confronti del quale si applica il principio della retroattività della legge favorevole al reo: sarebbe illogico e contraddittorio, infatti, continuare a punire l'autore di un fatto che l'ordinamento non ritiene più antigiuridico.

Esemplificando: se Tizio nel 1995 commette un fatto previsto dalla legge come reato e, nell'attesa del giudizio, lo stesso fatto viene depenalizzato, egli non potrà essere più punito.

Nel caso poi in cui la depenalizzazione segua alla condanna, di quest'ultima cessano l'esecuzione e gli effetti penali.

Il 3° comma sancendo che "se la legge del tempo, in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile", disciplina la successione di leggi modificative, ove la successione di leggi, anziché creare (1° comma) o abolire (2° comma), modifica incriminazioni precedenti.

Invero la nuova disposizione si applica al reo soltanto nel caso in cui essa risulti favorevole al reo, cioè essa retroagisce al momento della commissione del reato; nel caso contrario continua a vigere il principio di irretroattività.

Una difficoltà che sovente si incontra è di riuscire a discernere se se la legge successiva abroghi quella precedente ex 2° comma, facendo divenire lecito il comportamento prima vietato, oppure la modifichi semplicemente ex 3° comma, continuando a prevedere come reato il comportamento precedente, salva l'applicazione della norma più favorevole.

Per risolvere il problema un primo orientamento dottrinale, largamente sostenuto dalla dottrina tedesca, ritiene che ci si trovi in presenza di un fenomeno di successione di leggi modificative, con applicazione della legge più favorevole al reo, ogni qualvolta tra la norma anteriore e quella successiva esista una "continuità del tipo d'illecito".

I parametri per verificare la sussistenza di tale continuità sono costituiti dall'identità del bene protetto e dalle modalità di aggressione dello stesso, onde si verificherebbe la successione quando, nonostante la novazione legislativa, permangono identici gli elementi predetti.

A tale criterio di natura eminentemente sostanziale se ne aggiunge uno più rigoroso, di natura formale, facente leva sull'esistenza o meno di un rapporto di continenza fra la nuova e la vecchia fattispecie: si può parlare di modificazione ogni qualvolta la nuova legge penale è caratterizzata da un'area comune alla precedente normativa, ma con l'aggiunta di elementi che la rendono più specifica, in modo tale che se non fosse esistita la seconda norma, il fatto sarebbe rientrato sicuramente nella prima.

Nell'ipotesi contraria, ovvero nel caso in cui una norma di portata più specifica viene sostituita da una fattispecie dal contenuto più generale, il fenomeno della successione di legge penali in senso modificativo si verifica soltanto se la vecchia fattispecie possiede caratteristiche che risultano inglobate in quella nuova, altrimenti si avrebbe una vera e propria abrogazione.

Per intenderci, la nuova fattispecie dell'infanticidio in condizione di abbandono materiale e morale ex art. 578 punisce un comportamento che nulla ha in comune con la vecchia fattispecie dell'infanticidio per causa di onore, per cui, fra le due fattispecie, non si instaura alcun fenomeno successorio-modificativo, bensì trattasi di abrogazione.

Il 4° comma dispone che: "se si tratta di leggi eccezionali o temporanee, non si applicano le disposizioni dei capoversi precedenti".

In tali casi vige il principio del tempus regit actum, e quindi si applica esclusivamente la disposizione in vigore al tempo in cui è stato commesso il fatto.

La ratio di tale norma risiede nella finalità di evitare che la normativa introdotta per far fronte ad esigenze eccezionali o temporanee possa essere elusa attraverso violazioni che rimarrebbero, per effetto del favor rei, impunite.

Per esempio: Tizio, commettendo un crimine che secondo la legge temporanea, emanata per far fronte ad un'emergenza sociale, è punito con una pena più severa, non potrà godere del trattamento punitivo più favorevole previsto dalla normativa precedente, secondo il principio di retroattività ex comma 3°.

La stessa disciplina è prevista per le leggi penali finanziarie, ai sensi dell'art. 20 legge 7 gennaio 1929, n. 4: "le disposizioni penali delle leggi finanziarie e quelle che prevedono ogni altra violazione delle dette leggi si applicano ai fatti commessi quando tali disposizioni erano in vigore, sebbene le disposizioni medesime siano abrogate o modificate al tempo della loro applicazione".

Il fondamento di tale previsione si rinviene nell'interesse dello Stato alla riscossione dei tributi.

Una deroga al principio di retroattività della legge più favorevole è prevista anche dal 5° comma il quale sancisce che: "Le disposizioni dell'art. 2 si applicano altresì nei casi di decadenza e di mancata ratifica di un decreto-legge e nel caso di un decreto convertito in legge con emendamenti".

Tale disposizione si è posta, a seguito dell'entrata in vigore della Costituzione del 1948, in contrasto con l'art.

77 - 3° comma Cost., il quale sancisce che: "i decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge...".

A rimuovere tale incongruenza normativa è intervenuta la Corte Costituzionale che con sentenza 19-2-1985, n. 51 ha dichiarato l'illegittimità costituzionale del 5° comma dell'art. 2 c.p. nella parte in cui esso consenta l'applicazione del decreto-legge non convertito (contenente disposizioni più favorevoli al reo) ai fatti pregressi, cioè realizzati prima dell'entrata in vigore dello stesso decreto.

Nulla ha detto però la Consulta, sui fatti concomitanti, ossia commessi durante il periodo di vigenza del decreto introducente una disciplina più favorevole al reo o abrogante un'incriminazione preesistente.

La dottrina dominante (FIANDACA, MANTOVANI, PADOVANI), ritiene, in tal caso, sulla scorta dell'interpretazione dei motivi della sentenza sopracitata, della Corte Costituzionale, che debbano essere applicate le norme più favorevoli previste dal decreto, in ossequio al principio di irretroattività della legge penale che risulterebbe violato laddove si punisse un fatto che non era reato quando fu commesso (al tempo della vigenza del decreto), o fosse sanzionato in maniera più grave di quanto previsto al tempo della commissione.

In altre parole, se per es. nel mese di gennaio 1998 Tizio compie un fatto di reato punito con la pena di 4 anni di reclusione, e nel mese di febbraio 1998 un decreto-legge, successivamente non convertito, prevede, per il reato medesimo, la pena di 2 anni di reclusione, si applicherà la sanzione prevista dalla norma così come non modificata dal decreto non ratificato.

Se invece Tizio compie un crimine, durante la vigenza del decreto introducente norme più favorevoli al reo, anche se successivamente non convertito in legge, troveranno applicazione, in ossequio al principio di legalità, le disposizioni previste dall'atto governativo.

Una soluzione identica si prospetta per l'ipotesi di leggi dichiarate incostituzionali. In forza della disposizione dell'art. 136 Cost., secondo il quale "Quando la Corte dichiara l'illegittimità costituzionale di una norma di legge o di atto avente forza di legge, la norma cessa di avere efficacia dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione", la dichiarazione di incostituzionalità ha effetto ex tunc.

Di conseguenza sarebbe da escludersi l'ipotesi di un fenomeno successorio tra una legge preesistente e una legge posteriore dichiarata costituzionalmente illegittima, considerato che la norma invalidata non poterbbe essere applicata neanche ai fatti di reato commessi durante la sua vigenza.

Tuttavia, così come per il decreto-legge non convertito, l'opinione prevalente è orientata nel senso che si debba continuare ad applicare, ai fatti concomitanti, la norma incostituzionale, più favorevole al reo.

Il divieto di analogia

L'analogia consiste nell'assegnare giuridico regolamento a un caso non regolato né esplicitamente né implicitamente dalla legge, confrontandolo con altro caso simile, oggetto di una norma di legge, e fondandosi su quell'elemento di somiglianza che servì di base al legislatore per stabilire la norma stessa.

Il nostro ordinamento giuridico prevede il c.d. divieto di analogia in materia penale. Esso è disciplinato dall'art. 14 delle preleggi il quale stabilisce che: "le leggi penali non si applicano oltre i casi e i tempi in esse considerati".

Lo stesso principio risulta, implicitamente, dall'art. 25 - 2° comma Cost. ("nessuno può essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso") e 3° comma ("nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge"), dal testo dell'art. 1 c.p. ("nessuno può essere punito per un fatto che non sia espressamente previsto dalla legge come reato") e dall'art. 199 c.p. ("nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza fuori dai casi dalla legge previsti").

Tuttavia, non tutte le leggi attinenti al diritto penale sono da comprendersi nel suddetto divieto, bensì soltanto le norme penali in senso stretto, cioè le norme penali sfavorevoli al reo.

Al contrario, tutte le disposizioni di diritto penale che non contengono incriminazioni o sanzioni, o che altrimenti non importano restrizioni di diritti, soggiaciono, in relazione all'analogia, alle regole che valgono per le leggi non penali, cioè possono costituire la base per il procedimento analogico.

Tale concezione del divieto di analogia, oggi avallata dalla dottrina dominante, ha carattere dunque relativo e si contrappone all'indirizzo minoritario secondo cui il divieto avrebbe valenza assoluta, nel senso che riguarderebbe sia le norme incriminatrici, sia le norme di favore (scriminanti, cause di non punibilità o di estinzione del reato, ecc.).

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