Eugenio Montale: poetica in sintesi
Eugenio Montale: poetica di uno dei maggiori poeti del Novecento italiano, dal male di vivere alla poetica degli oggetti
Eugenio Montale, poetica
Eugenio Montale è stato definito il “poeta della disperazione” perché, chiuso in un freddo e insensibile dolore, proietta il suo “male di vivere” sul mondo circostante, dando quasi origine ad una sofferenza che non è solo umana, ma addirittura cosmica e universale. La sua visione pessimistica dell’esistenza, specie nella consapevolezza della negatività di ogni mitologia o ideologia, che però non significa isolamento e rifiuto di vivere, lo spinge verso l’impegno a oggettivare le cose, i paesaggi, i modi di sentire e gli eventi che possono tradurre ogni sua particolare emozione. Vivere, per lui, è come andare lungo una muraglia "che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia", come scrive nella poesia "Meriggiar pallido e assorto".
Pensiero e poetica di Montale
Per Montale la vita è una terra desolata in cui gli uomini, gli oggetti e la stessa natura sono soltanto squallide e nude presenze senza significato. In tal modo il Vivere precipita verso il Nulla. Ciò nonostante, Montale è alla ricerca di un varco da cui poter fuggire per salvarsi. La sua è una negatività che, anche se vanamente, ricerca la positività. Infatti, nella negazione totale si offre una speranza di salvezza, di una grazia riservata a chi saprà fuggire da se stesso e dalla propria chiusura.
L’originalità della nuova e profonda poetica montaliana nasce da un’intima rielaborazione della tradizione che fa pensare ad una sorta di “compromesso” realizzato dall’autore, appunto tra la tradizione letteraria e le istanze innovative così vivacemente espresse dalla letteratura novecentesca. Infatti, mentre Ungaretti, ad esempio, si distacca dalla tradizione per riscoprire la forza autonoma della parola, facendo di essa uno strumento di liberazione, capace di attingere dalle fonti dell’assoluto, per Montale questa risulta una soluzione troppo ottimistica e consolatoria.
Montale ritiene che tra l’uomo e l’assoluto sussista una realtà ineliminabile che Ungaretti, invece, tende a trascendere o addirittura ad eliminare. È il mondo della realtà fenomenica che comprende la natura, le cose e la storia in cui esse stesse risultano inserite, nel quale è quasi impossibile individuare uno spiraglio della verità da cui poter derivare risposte definitive a quei quesiti che l’uomo quotidianamente si pone. Alla realtà fenomenica si contrappone una realtà metafisica che fa riferimento al destino ultimo dell’uomo che sarà da compiersi in un ulteriore dimensione che lo trascende.
La parola, per Montale, non può aspirare a raggiungere direttamente l’assoluto in quanto essa deve prima confrontarsi con il reale che però costituisce una barriera nella quale resta inevitabilmente impigliata. Ciò, tuttavia risulta l’unica speranza di accedere al mistero dell’esistenza. La parola di Montale indica con precisione degli oggetti definiti e concreti e stabilisce tra di essi una trama di relazioni complesse cui fa capo lo stesso soggetto poetante il cui fine ultimo è scoprire la direzione e il senso proprio della vita.
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Montale e la poetica delle cose
A questo proposito, la poesia di Montale è stata strettamente connessa alla “poetica delle cose”, lungo una linea letteraria che ha i suoi maggiori antecedenti in Pascoli e Gozzano, entrambi cari all’autore. La sua scelta letteraria ricade, dunque, sulle “piccole cose”, ovvero su quegli elementi di una realtà povera che l’uomo può ritrovare intorno a sé in qualsiasi momento della sua vita. Gli oggetti, le immagini, le voci della natura diventano per lui degli “emblemi” in cui è trascritto, in forme oscure, il destino dell’uomo, nelle sue rare gioie e speranze, ma soprattutto nell’infelicità di una condizione e di una condanna esistenziale che non può offrire né certezze né illusioni.