La poetica del fanciullino di Pascoli

La poetica del fanciullino: cos'è e quali sono i segni della presenza del fanciullino. Il simbolismo e le Umili cose di Giovanni Pascoli

La poetica del fanciullino di Pascoli
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La poetica del fanciullino

Giovanni Pascoli, nelle celebri pagine del Fanciullino (1897), ha teorizzato la sua poetica, intimamente connessa al Decadentismo. Sono gli stessi anni in cui D’Annunzio ha elaborato il mito del «superuomo».

Il titolo Fanciullino deriva da un passo del Fedone di Platone: Cebes Tebano, pensando alla morte di Socrate che stava per bere la cicuta, si mette a piangere. Socrate lo rimprovera per quel pianto e Cebes si scusa dicendo che non è lui che piange ma il fanciullino che è in lui. Il punto di partenza della riflessione del Pascoli è l’idea della presenza della morte nella vita dell’uomo. L’unica consolazione è la poesia che permette di partecipare alla vita. Il poeta in un certo senso sottrae le cose al destino di vanificazione e le restituisce alla vita. Se tutto nella storia si dissolve la poesia è in grado di percepire la vita segreta delle cose e in un certo senso riportarle alla vita. Il poeta ha quindi il compito di sottrarre quanto più può alla morte e la poesia è un dono sacro.

  • Natura irrazionale e intuitiva della poesia: il poeta è quel fanciullino presente in un cantuccio dell’anima di ognuno di noi. Un fanciullino che rimane piccolo anche quando noi cresciamo e arrugginiamo la voce, anche quando nell’età più matura siamo occupati a litigare e a perorare la causa della nostra vita e meno siamo disposti a badare a quell’angolo d’anima. Esso arriva alla verità non attraverso il ragionamento ma in modo intuitivo ed irrazionale, guardando tutte le cose con stupore, con aurorale meraviglia, come fosse la prima volta. Anche la poesia deve essere spontanea e intuitiva, come intuitivo è appunto il modo di conoscere e di giudicare dei fanciulli. Da tutto ciò deriva un rifiuto della ragione e un riconosciuto fallimento del Positivismo.
  • Potere analogico e suggestivo della poesia: se il poeta-fanciullo arriva alla verità in maniera irrazionale, per lampi intuitivi, la poesia allora deve affidarsi all’intatto potere analogico e suggestivo dei suoi occhi, non ancora inquinati da alcuno schema mentale, culturale o storico. Gli occhi del fanciullo scoprono nelle cose le somiglianze e le relazioni più ingegnose; adattano il nome della cosa più grande alla più piccola, e al contrario; impiccioliscono per poter vedere, ingrandiscono per poter ammirare, giungendo, immediatamente e intuitivamente, quasi per suggestione, al cuore delle cose e al mistero che palpita segreto in ogni aspetto della vita.
  • Poesia come scoperta: la poesia non è invenzione, ma scoperta, perché essa sta nelle cose che ci circondano, anzi in un particolare di quelle cose che solo il poeta sa vedere. Poesia è trovare nelle cose il loro sorriso e la loro lacrima; e ciò si fa da due occhi infantili che guardano semplicemente e serenamente tra l’oscuro tumulto dell'anima. La poesia ci mette in comunicazione immediata con il mistero che è la realtà vera dell’essere. Essa è un mistico contatto con l’anima delle cose ed è la forma suprema di conoscenza.
  • Le umili cose: se la poesia è nelle cose stesse, nel particolare poetico, allora anche i motivi della poesia non necessariamente devono essere grandiosi ed illustri o avere il fascino dell’antico e dell’esotico, quel fascino che tanto ammalia i poeti del secondo Ottocento francese. Per il poeta, come per il fanciullo, sono belle e degne di canto anche le piccole cose, umili, quotidiane, familiari, le piante più consuete e modeste, i piccoli animali, gli eventi del mondo naturale e campestre. La poesia di Giovanni Pascoli canta le minime nappine, color gridellino, della pimpinella, sul greppo; canta l’umile fatica delle lavandare e il loro stornellare, la famiglia raccolta attorno alla tavola, i frulli d’uccelli, lo stormire dei cipressi, il lontano cantare di campane, il tuono, il lampo. E’ una tematica, quella delle piccole cose, legata all’universo contadino e campagnolo da cui Pascoli proviene e a cui sempre rimane fedele.

Il simbolismo in Pascoli

Il simbolismo: il fanciullo-poeta non riesce a cogliere i rapporti logici di causa ed effetto tra le cose oppure a fissarle in un insieme o sistema coerente. Gli oggetti vengono piuttosto percepiti in modo isolato, svincolato dal contesto, scatenando così l’immaginazione che li carica dei propri ricordi, delle proprie esperienze, del proprio universo immaginario, e ne fa un simbolo. Ecco allora che l’aratro dimenticato in mezzo al campo diventa il corrispettivo di una vita solitaria, di uno stato d’animo pervaso di malinconia e di tristezza. L’albero spoglio e contorto diventa simbolo dell’angoscia dell’uomo; il nido vuoto simbolo della casa vuota delle presenze familiari; i fiori simbolo della solitudine, della incomunicabilità dell’esistenza umana, gli annunciatori della morte; il suono delle campane ricorda per associazione un inno senza fine ed esprime la voce della tomba. Tutta la poesia pascoliana tende al simbolo, perché la realtà che essa rappresenta è il mistero insondabile che circonda la vita degli esseri e del cosmo. Il poeta è teso ad esprimere i palpiti arcani, le rivelazioni delle cose, le illuminazioni dell’ignoto. Il simbolismo pascoliano, però, pur avvicinandosi a quello europeo, resta elementare e provinciale e non raggiunge la profonda coscienza, la tensione visionaria, l’agonismo conoscitivo del Simbolismo francese.

Guarda anche: Il Simbolismo pascoliano, approfondimento

Uso non strumentale della poesia: la poesia tradizionale secondo Pascoli sa di lucerna e non di guazza e d’erba fresca; non ha la spontaneità, lo stupore della percezione fanciullesca, sovraccarica com’è di raffinatezza letteraria e di schemi retorici. La poesia deve essere pura perché il fanciullo non s’intende di problemi politici o morali, né di lotte sindacali e di ideologie; una poesia che si interessa programmaticamente di questi problemi è poesia applicata e si risolve in propaganda o retorica.

La funzione consolatrice della poesia

Funzione consolatrice della poesia: la poesia in quanto tale, solo con l’essere poesia, ha già una funzione civile e morale. Il poeta, se e quando è veramente poeta, diventa ispiratore di buoni e civili costumi, d’amor patrio, familiare e umano. A ben guardare è il sentimento poetico che fa pago il pastore della sua capanna o il borghesuccio del suo appartamentino ammobiliato. E’ la poesia che persuade l’uomo ad accontentarsi del poco e del suo stato, perché pone un soave e leggero freno all’instancabile desiderio, quello di crescere socialmente. La poesia, dunque, invita alla fratellanza contro la comune infelicità e non alla lotta di classe che divide; invita alla conciliazione delle contraddizioni, ad una comunione degli uomini nella rassegnazione per una impossibile felicità. Ma tale rassegnazione, è evidente, lascia regressivamente il mondo com’è, con le sue disuguaglianze, le sue miserie, le sue sopraffazioni. La poesia deve quindi cogliere il fondamento primigenio della natura e della psiche esprimendosi in un linguaggio primigenio e nuovo. Giovanni Pascoli definisce il fanciullino musico perché è in grado di cogliere l’armonia ed il fluire delle cose non con la ragione ma andando al di là della ragione.

Pascoli non vuole credere che in qualcuno non ci sia il fanciullino, perché egli non sarebbe così unito all’umanità. Se il fanciullino è la psiche primordiale dell’uomo è proprio il fanciullino che permette di scoprire l’intima essenza del mondo. È indubbio che la poesia di Pascoli proponga una forma di naturalismo, ma è un naturalismo ambiguo che si svolge tra sogno e realtà.
Ma qual è dunque il fine della poesia? Per Pascoli la poesia non ha altro fine che se stessa. Non ha alcuno scopo di insegnamento, ma d’altra parte coglie l’autenticità del vivere e del sentire, sgombra il campo da tutte le sovrastrutture che ingombrano l’uomo restituendo all’uomo se stesso. Il bello estetico e il bello morale si identificano. La poesia inevitabilmente svelando all’uomo se stesso lo conduce al bene e trasmette quindi un insegnamento morale seppur involontariamente. L’idea del poeta di Pascoli si può collocare a metà strada tra due modelli opposti: un modello è Carducci che vede il poeta come educatore e maestro; l'altro modello è D'Annunzio che vede il poeta come un veggente che si è ritirato in aristocratico distacco dal mondo.

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