Tre poesie di Giacomo Leopardi a confronto: analisi
Confronto fra tre poesie di Giacomo Leopardi: A Silvia, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia e Dialogo della natura e di un islandese
GIACOMO LEOPARDI
Il tema principale trattato da Giacomo Giacomo Leopardi nei tre testi da mettere a confronto, ovvero A Silvia, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia e il Dialogo della Natura e di un Islandese, è quello della Natura e della vita dell’uomo in relazione ad essa.
In tutti e tre i testi la Natura viene vista come qualcosa di negativo e crudele: in A Silvia Leopardi dice che la Natura lascia speranze agli uomini, per poi disintegrare tutto ciò che essi si erano prospettati:
“O natura, o natura, Perché non rendi poi Quel che prometti allor? perché di tanto Inganni i figli tuoi?”
Questi quattro versi sono il succo di questo concetto: ponendogli una domanda, Leopardi accusa esplicitamente la Natura di essere crudele, falsa e traditrice.
Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia essa non viene direttamente accusata, ma il pastore protagonista del canto si confronta con la Luna, alla quale pone tante domande, che però non troveranno risposta.
“Se tu parlar sapessi, io chiederei: Dimmi: perché giacendo A bell’agio, ozioso, S’appaga ogni animale; Me, s’io giaccio in riposo, il tedio assale?”.
Con questa domanda posta alla Luna si può comunque cogliere lo stesso pensiero della Natura che Leopardi ha espresso in A Silvia: perché la Natura lascia che gli animali risposino in pace all’ombra, mentre l’uomo, nello stesso scenario, vien invece assalito dalla noia? Questo è, per il poeta, un è segno di cattiveria contro il genere umano, anche se Leopardi fa dichiarare al pastore che lui non ha nulla di cui lamentarsi o piangere, per ora: quella che pone alla Luna non è una lamentela, ma una semplice domanda.
GIACOMO LEOPARDI E LA NATURA
Nel Dialogo della Natura e di un Islandese, Leopardi pone a diretto confronto la Natura e l’uomo.
La Natura è vista come una forza spietata, impersonale, che si governa tramite il principio di autoconservazione; indifferente al destino, la Natura non ha come obiettivo né la felicità né l’infelicità dell’uomo: quando opera contro di esso, nemmeno se ne accorge. Questo concetto è ben espresso nella parte di dialogo che dice:
“Ora sappi che nelle fatture, negli ordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime, sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla felicità degli uomini o all’infelicità [...] E finalmente, se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostra specie, io non me ne avvedrei”.
L’uomo è invece visto come una vittima: anche se la sua crudeltà viene denunciata, essa viene ricondotta alla Natura, come è causa di quest’ultima anche l’infelicità che l’uomo prova.
L’uomo tende al piacere: è causa della Natura.
“Io voglio prendere non piccola ammirazione considerando come tu ci abbi infuso tanta e si ferma e insaziabile avidità di piacere.”
Ma il piacere è cosa nociva, se portato agli eccessi, e l’uomo nulla può fare contro questa sua tendenza a ricercarlo in ogni dove: è la Natura che con esso li tenta.
Malattie che possono anche esser portatrici di morte; luoghi ove la neve ed il freddo regnano incontrastati; il sole e l’aria che possono divenire pericolosi nemici dell’uomo; tutto a causa della Natura. Ma mai essa ha cercato di compensare l’uomo per i problemi, i danni ed i pericoli a cui è andato incontro:
“…tu non hai mai dato all’uomo, per compensarlo, alcuni tempi di sanità soprabbondante e inusitata, la quale gli sia cagione di qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza.”
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A questo punto l’interrogativo di Leopardi è: a cosa serve vivere?
Perché vivere una vita fatta solo di futili illusioni, che vengono cancellate con un soffio dalla Natura, che non designa altro destino al genere umano se non la morte?
“Questo è quel mondo? Questi I diletti, l’amor, l’opre, gli eventi Onde cotanto ragionammo insieme? Questa la sorte dell’umane genti? All’apparir del vero Tu,misera, cadesti: e con la mano La fredda morte ed una tomba ignuda Mostravi di lontano.”
Perché vivere con la natura che ha somiglianze con l’uomo, ma che è immortale, a differenza del genere umano?
"Infin ch’arriva Collà dove la via E dove il tanto affaticar fu volto: Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale.”
Perché continuare a vivere in quella che altro non è che una sventura, dove la Natura non si interessa dell’uomo?
“Se la vita è sventura, Perché da noi si dura? Intatta luna, tale È lo stato mortale. Ma tu mortal non sei, E forse del mio dir poco ti cale.”
Perché vivere, quando c’è chi viene distrutto e soffre, e chi distrugge per poi venir distrutto a sua volta? Perché vivere infelici in un universo che si basa sulla morte delle creature che lo compongono per sopravvivere?
“Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto minimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?”
Questi i quesiti su cui Leopardi si interroga.
Di fronte ad una verifica oggettiva della vita non trova nessuna ipotesi di significato sull’infelicità dell’uomo che possa reggere. Così non resta altro che il confronto delle proprie stesse interrogazioni e la minaccia del dolore e dell’insensatezza.
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