Tema sul pensiero politico di Dante Alighieri

Il pensiero politico di Dante Alighieri, la sua visione del potere temporale e spirituale, il rapporto tra Chiesa e Impero nel De Monarchia, Convivio e Divina Commedia.

Tema sul pensiero politico di Dante Alighieri
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Dante e il bisogno di giustizia

Dante
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Il pensiero politico dantesco nasce dal suo desiderio di realizzazione di giustizia, libertà e felicità e dall’indignazione nutrita dal poeta verso la condizione decaduta in cui l’umanità si trova sia a causa del peccato originale sia per la confusione dei due poteri, temporale e spirituale.

Per Dante è necessario che le due autoritàPapato e Impero - sussistano divise perché solo così potranno svolgere il compito loro affidato da Dio. Sia il potere della Chiesa sia quello dell’Impero, infatti, sono legittimati direttamente da lui.

Dante, per sottolineare questo, usa per entrambi i poteri lo stesso termine auctoritas, andando così a superare la tradizionale distinzione tra potestas e auctoritas. Egli evidenzia, inoltre, un’ulteriore differenza affermando che l’autorità imperiale si dovrebbe occupare della creazione della felicità terrena, operando secondo le virtù morali e intellettuali, mentre il Pontefice dovrebbe portare le anime ad ottenere la felicità, operando secondo le virtù teologali. Dunque per Dante Chiesa e Impero sono mezzi che l’uomo può usare per ottenere la salvezza.

Il pensiero politico di Dante attraverso le sue opere

Nel “De Monarchiaegli scrive “Cesare usi dunque a Pietro questa reverenza che il figlio primogenito deve usare al padre”: Dante non mette in discussione l’assoluta autonomia del potere imperiale, ma riconosce la superiore dignità del potere spirituale verso il quale si deve mostrare la giusta reverenza per esercitare con maggiore efficacia quel potere di governo al quale si è stati preposti solo da chi tiene il governo di tutte le cose, temporali e spirituali.

Nel quarto trattato del Convivio egli consente una corretta interpretazione del termine reverenza che non implica affatto la subordinazione totale del potere temporale a quello spirituale.

Nel canto XIX dell’Inferno (leggi qual è la genesi della Divina Commedia) Dante mantiene la sua “riverenza delle somme chiavi”nonostante la violenta invettiva contro il papa simoniaco Nicolò III ma non affronta ampliamente il tema del potere.

Diversamente, nel Convivio, egli si occupa di questa tematica sostenendo di vedere nell’Impero una superiorità funzionale, un’autorità e una potestà che potrebbe portare ad ottenere la felicità: “Conviene di necessitade tutta la terra [] Monarchia, cioè un solo principato e un principe avere lo quale, tutto possedendo e più desiderare non potendo, li regi tenga contenti ne li termini de li regna si che pace intra loro sia”.

Papa Niccolò III Orsini
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Anche nei versi 115-117 del canto XIX dell’Inferno la visione di Dante abbraccia il destino dell’umanità intera, preda dell’anarchia in seguito all’abuso che la chiesa ha fatto della dote di Costantino. Dalla perifrasi che l’Alighieri fa per indicarla si ha un processo valutativo per cui la donatio è considerata come un bene operare nonostante i mali che sono da essa derivati.

Essa fu per Dante un gravissimo errore in quanto l’integrità dell’Impero è intangibile, essendo parte costruttiva del diritto umano contro cui neppure l’imperatore può agire. Il genere umano ha un inalienabile diritto all’unità dell’impero: come la chiesa ha il proprio fondamento in Cristo così l’impero si fonda sullo ius humanum.

Il potere temporale dei papi, infatti, sin dal medioevo appariva legittimo e solo in un secondo periodo era stato oggetto di discussione tra giuristi guelfi e ghibellini.

Dante e la divisione dei poteri

Il peccato di simonia che troviamo trattato nella terza bolgia ha un’origine storica: l’umanità redenta dal sacrificio di Cristo si è nuovamente allontanata da lui e ha continuato, dietro l’esempio di coloro che l’avrebbero dovuta guidare, a fare oggetto della propria adorazione non il principio di vita, il verbo, ma pezzi di materia lucente.

L’indignazione di Dante prorompe in questi versi aspri proprio perché a promuovere in terra la religione dei beni materiali e la corruzione, che ne è derivata, sono stati coloro ai quali Cristo ha affidato il compito di custodire la sua parola.

Papa Innocenzo III nella sua teoria politica afferma che il potere temporale, inferiore a quello spirituale può essere esercitato da un imperatore a patto che faccia atto di vassallaggio nei confronti del pontefice che ha il diritto di revocarne l’esercizio in qualsiasi momento.

I giuristi di Bologna, partendo dal presupposto che l’imperatore non ha l’auctoritas temporale come una personale proprietà ma come un bene posseduto per via transitoria invalidano sotto il profilo giuridico l’atto di donazione.

Dante ritiene opportuno che l’esercizio del potere temporale nelle mani del pontefice debba conservare lo spirito di servizio a favore dei poveri e che l’unico modo di affrontare la questione dei beni temporali, per la Chiesa, è quello di non possederne: la teocrazia temporale è una pretesa contra naturam che contraddice la forma stessa della Chiesa.

La sete dantesca di giustizia è presente in ogni suo scritto, dove è facile scorgere una sua dissimulata polemica sociale, non astrattamente programmata ma concreta e politicamente condizionata.

Il Medioevo riassunto in un podcast di 5 minuti

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