La riscoperta delle necessità del pensare

Svolto come saggio breve la tipologia B in ambito socio economico per la prima prova scritta dell'esame di maturità 2004

La riscoperta delle necessità del pensare

Non esistono periodi storici in cui l'urgenza del pensiero sia più forte che in altri.
Pensare rende l'uomo uomo e, insomma, non c'è distinzione tra quello che gli uomini sono e quello che gli uomini pensano. Non per niente, la stessa definizione di "pensiero", slegata dalle contingenze storico-culturali dell'epoca, è ardua. Anzi, è un controsenso: perchè le idee nascono sempre nel mondo. Perciò chi ha provato a circoscrivere il concetto, l'ha declinato in termini di "spirito dell'epoca", "temperie culturale", e così via.

E le definizioni ufficiali dello spirito di un'epoca sono servite di volta in volta a farci vivere meglio dentro quell'epoca medesima. E' connaturata all'uomo un'esigenza forte verso l'autodescrizione: abbiamo bisogno di sapere continuamente che cosa stiamo facendo e chi siamo. Di etichettare il pensiero del nostro tempo - dichiararci storicamente illuministi, romantici, fascisti - per riconoscerci simili agli altri (e, specularmente, ostili a quelli che non sono come noi).

In questo senso, in una certa fase della storia recente, si è parlato di crisi del pensiero. Veniva meno, cioè, un pò dappertutto questa facoltà di denominazione delle cose connaturata all'intelletto. Gli uomini, a un certo momento della storia, non sapevano più che nome darsi. Come dire, avevano finito le etichette.

Questo, come detto, è storia recente.
Naturalmente non parliamo di un evento circonstanziato. Si tratta piuttosto di una galassia di fenomeni, una specie di temperatura collettiva della crisi, che ha influenzato la filosofia, l'arte, le strutture politiche del secondo novecento. Per certi è stata una malattia generale della storia che si trasmetteva alle manifestazioni del pensiero. Per cui, per esempio, in filosofia si è criticato - e male interpretato - il pensiero debole come pensiero inerme.

In arte, le neoavanguardie sono state definite per anni autoreferenziali e sostanzialmente anti-comunicative (quando la sostanza del loro messaggio era per una ricostruzione da zero delle categorie storiche del pensiero tout court).
Per altri, questa crisi del pensiero è stata accettata come una scommessa. Chi ha parlato di sfida della complessità, e poi di post-moderno, per esempio, voleva intendere appunto questo: se le cose si rifiutano d'essere denominate, è perchè sono rifratte, plurali, dialogiche. Niente è più racchiudibile in una definizione, hanno detto in molti (tra antropologi, sociologi e politologi), nemmeno l'uomo stesso. Ma proprio in questa differenza, che per altri è stata "crisi del pensiero", stava una nuova ricchezza.

La scoperta delle politiche della diversità, intorno agli anni settanta, rappresenta una delle eredità più importanti di queste tendenze.
Insomma, la crisi del pensiero, dal secondo dopoguerra, se c'è stata per davvero, non è stata crisi per tutti. E' pur vero, però, che in anni più vicino a noi, abbiamo assistito a fenomeni storicamente verificabili, che vanno al di là delle interpretazioni speculative.
Penso ai nostri anni ottanta, stretti tra il riflusso, il crollo delle ideologie, un sistema politico sfilacciato, la droga e molta noia: nessuno può negare, oggi, che gli anni ottanta siano stati in Italia gli anni della rinuncia al pensiero.

Anche perchè fenomeni analoghi, culminati simbolicamente con il crollo del comunismo, avvenivano in tutto il mondo.
Eppure, conclusi gli anni ottanta, gli anni della frivolezza, l'urgenza di un ripensamento sulla natura dell'uomo è balzata di nuovo in primo piano. La società mediatizzata e globalizzata, dove tutti sono in condizione di conoscere tutto in qualsiasi momento, pone all'uomo nuovi interrogativi e nuove inquietudini.

La paura generalizzata, la minaccia/desidero del controllo globale, la sotterranea stanchezza che appesantisce l'arte - situazione unanimamente lamentata da anni: sono i grandi nodi che strozzano il pensiero contemporaneo, che fanno gridare da più parti - come fosse un rito scaramantico - alla fine di qualcosa. La fine della storia, la fine del romanzo, la fine dell'uomo in toto.

Convincere l'uomo a tornare a pensare non è pensabile
, nemmeno come gioco di parole. Quello che è sicuro è che al giro di boa del terzo millennio, inneggiare apocalitticamente alla fine di tutto, non serve a niente (se non altro perchè lo si è sempre fatto, a partire dall'anno mille, in ogni momento culminante del processo storico).

Sarebbe più utile riconoscere in questa urgenza, in questa fame di idee, più che un sintomo della loro assenza, una spinta forte verso modelli nuovi. Anche perchè, di fatto, l'uomo non ha mai smesso di pensare. Per fortuna. Gli stessi anni ottanta italiani di cui abbiamo provocatoriamente detto sopra, per esempio, nascondono, nel sotterraneo, esperienze di grande ricchezza che sono venute alla luce solo molto tempo dopo. In politica, per esempio, sono stati gli anni dell'autorganizzazione. In letteratura, gli anni del ripensamento del romanzo, che oggi sta rinascendo (con grande sorpresa di chi lo dava senz'altro per morto). E del recupero della poesia, anche.

Come si vede, tutte le medaglie hanno due facce. Per cui, se la necessità di una riscoperta del pensiero, oggi, è un fatto, non necessariamente bisogna collocare questa domanda in un contesto assente. La nostra non è un'epoca in cui il pensiero latita: l'uomo ne sente maggiore necessità perchè la complessità del mondo che ci circonda aumenta esponenzialmente. E' un problema innanzitutto tecnologico, i flussi informativi accelerano e per la prima volta nella storia gli esseri umani si trovano a sapere sempre troppo. Se l'esigenza di trovare etichette resta ancora, e resterà sempre, perfettamente umana, possiamo dire che ormai, anche volendo, non basterebbero abbastanza etichette per definire tutto quello che conosciamo.

La necessità del pensiero è necessità di rincorrere l'accelerazione costante del mondo. Che il mondo rallenti, non è possibile - e non è auspicabile - sperarlo. All'uomo che pensa tocca dunque trasformare il suo pensiero per adeguarlo al mondo e agli altri uomini. Abbiamo bisogno di una grana delle idee nuova, non di "più idee". Un pensiero che, probabilmente, dovrà rinunciare a molto di umano, introiettare categorie nuove che gli vengono dal mondo.

Rinunciare a vecchie pretese medievaliste (del genere "racchiudere tutto il mondo in una sola parola"), o anche illuministe (la possibilità del controllo totale sul creato, perchè "tutto ciò che esiste viene dall'uomo").

Bisogna accettare senza isterismi e nostalgie un mondo che, oggi, va sempre più emancipandosi dagli individui che lo abitano. Considerare il mondo stesso un individuo pensante, certo con molte imperfezioni e in buona parte incontrollabile: ma che offre anche continue, esaltanti, possibilità di arricchimento.

Un consiglio in più