Biografia di Paolo Borsellino: tutto sulla sua vita
La vita di Paolo Borsellino, il magistrato siciliano che insieme a Giovanni Falcone è stato protagonista nella lotta contro la mafia
Indice
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La vita di Paolo Borsellino
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Nascita e studi
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L'amicizia con Giovanni Falcone
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L'inizio della carriera e l'incontro con Rocco Chinnici
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Il pool antimafia
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Il maxiprocesso
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La fine del pool antimafia
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L'incontro con Calcara
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La morte di Giovanni Falcone
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La strage di via D'Amelio
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La vita di Paolo Borsellino
Paolo Borsellino è stato uno dei simboli più importanti nella lotta contro la mafia. Esempio cristallino di legalità e di instancabile dedizione al lavoro, assieme a Giovanni Falcone, amico d’infanzia e anch’egli magistrato, sfidò apertamente Cosa Nostra.
Questa sfida era spontanea, profonda, non rincorreva fama o approvazione ed è stata perseguita fino a perdere la vita per raggiungere l'obiettivo: garantire un futuro migliore alle nuove generazioni, liberando l’amata Sicilia da quell’opprimente terrorismo mafioso in cui era mestamente finita dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Con le sue indagini era arrivato vicino alla “cupola”, così viene definito il vertice della mafia, a tal punto da indagare sui legami tessuti dai boss con il mondo della politica, degli affari e con la stessa magistratura.
Nascita e studi
Paolo Borsellino nasce a Palermo il 19 gennaio 1940 nel quartiere popolare della Kalsa. Fratello di Adele, Salvatore e Rita, si iscrive al liceo classico “Giovanni Meli” di Palermo – dove ricopre il ruolo di direttore del giornale studentesco “Agorà” – e successivamente si laurea in Giurisprudenza all’Università degli Studi di Palermo nel 1962 con 110 e lode, discutendo una tesi su “Il fine dell’azione delittuosa”.
Durante il periodo universitario, Paolo Borsellino viene anche eletto come rappresentante studentesco nella lista del F.U.A.N. Fanalino di Palermo.
A ventitré anni diventa magistrato, posizionandosi al 25esimo posto su 171 posizioni aperte del concorso, fregiandosi così del titolo di più giovane magistrato d’Italia.
L'amicizia con Giovanni Falcone
A dodici anni avviene il primo incontro con Giovanni Falcone, più grande di lui di otto mesi, con cui condividerà la lotta contro la mafia: dal campo di calcio, luogo in cui i due magistrati si conobbero, fino alle aule dei tribunali, i due uomini erano legati da un solido e sincero rapporto.
L'inizio della carriera e l'incontro con Rocco Chinnici
La prima fase della carriera giudiziaria di Borsellino può essere divisa per anni:
- Nel 1965 comincia il tirocinio come uditore giudiziario e lo termina lo stesso anno con l’assegnazione alla sezione Civile del tribunale di Enna;
- Nel 1967 viene nominato pretore a Mazara del Vallo, dove conosce Emanuele Basile;
- Nel 1968 sposa Agnese Piraino Leto, figlia di un magistrato, presidente del tribunale di Palermo: dalla loro unione nascono Lucia (1969), Manfredi (1971) e Fiammetta (1973);
- Nel 1969 viene nominato pretore a Monreale;
- Nel 1970 torna a Palermo;
- Nel 1975 entra nell’Ufficio Istruzione Affari Penali capeggiato dal giudice istruttore Rocco Chinnici, ucciso nel 1983 proprio dalla mafia.
- Nel 1980 arresta i primi sei mafiosi.
Gli arresti sono la conseguenza di un’indagine portata avanti da Basile e Borsellino: a farne le spese sono i membri del mandamento di San Giuseppe Jato, Antonio Salamone e Bernando Brusca, denunciando gli altri sodali, tra cui Leoluca Bagarella, Antonino Gioè, Antonino Marchese e Francesco Di Carlo.
Il pool antimafia
Ma proprio in quegli anni prendono, purtroppo, consistenza le prime stragi per mano di Cosa Nostra: il 4 maggio del 1980, all’età di trent’anni, perde la vita Basile, con il conseguente arrivo della scorta per la famiglia Borsellino, mentre tre anni dopo è il turno di Chinnici.
Proprio quest’ultimo, prima di morire, decide di creare il pool antimafia, vale a dire un capo di giudici istruttori dediti esclusivamente ai casi di mafia. Di tale pool ne fanno parte, oltre a Borsellino, anche Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.
L'idea di far nascere il pool antimafia è coerente con lo schema di Cosa Nostra, così come individuato da Giovanni Falcone: nasce non come un insieme di bande con potere decisionale autonomo, ma come unicum, con un vertice. Su queste base si manifesta l'esigenza l'esigenza di creare una squadra coesa in grado di indagare coordinandosi e scambiando informazioni al suo interno.
Il pool lavora incessantemente per raccogliere le prove per un'enorme inchiesta che sfocerà nel celebre maxiprocesso. Non solo, l’impronta dell’attività di Falcone e Borsellino coinvolge anche nuove generazioni. Proprio quest’ultimo comincia a promuovere e a partecipare ai dibattiti nelle scuole, rivolgendosi ai giovani nelle feste giovanili di piazza, per scuotere gli animi dinanzi alla cultura mafiosa.
Dinanzi al grave rischio di essere uccisi, Caponnetto fa trasferire per un periodo Borsellino e Falcone, insieme alle rispettive famiglie, nell'isola sarda dell'Asinara.
Il maxiprocesso
Paolo Borsellino si occupa delle indagini sull’omicidio del capitano Basile, giungendo, dopo circa un anno, con il rinvio a giudizio dei tre mafiosi Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia. Malgrado le prove schiaccianti, il giudice che li doveva processare rinvia gli atti e nel nuovo processo che viene istituito i tre vengono assolti per insufficienza di prove. Soltanto nel 1992 si arriva alla condanna definitiva dei mandanti dell’omicidio Basile.
Per ragioni di sicurezza, Falcone e Borsellino vengono trasferiti, insieme alle rispettive famiglie, nella foresteria del carcere dell’Asinara per scrivere l’ordinanza-sentenza di ben 8.000 pagine con la quale si disponeva il rinvio a giudizio di 475 indagati in base alle indagini del pool antimafia. Proprio Falcone era riuscito a raccogliere le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Tommaso Buscetta e Salvatore Contorno.
Proprio Borsellino riconosce il ruolo prezioso di Vito Ciancimino, arrestato nel 1984, e di Tommaso Buscetta, arrestato in Brasile, nello svolgimento delle indagini e nella preparazione dei processi. Proprio quest'ultimo aiuta comprendere da dentro la gerarchia di Cosa Nostra, le tecniche di reclutamento e le sue funzioni.
Le accuse pendenti sugli imputati hanno numeri esorbitanti: 120 omicidi, estorsione, traffico di droga e associazione mafiosa. Sono 22 i mesi di udienze nell'aula bunker costruita appositamente per garantire l'assoluta sicurezza del processo contro eventuali attacchi terroristici.
Il 16 dicembre del 1987 è il giorno della sentenza. Il presidente della Corte d’Assise, Alfonso Giordano, legge il lungo elenco di condanne inflitte agli imputati: 19 ergastoli e 2665 anni di carcere totali. Una vittoria senza precedenti dello Stato contro i poteri mafiosi e un segno di rinascita per la Sicilia.
La fine del pool antimafia
Nel 1987 vengono formalizzate 342 condanne nell’aula bunker dell’Ucciardone a seguito del maxi-processo. Borsellino chiede e ottiene il trasferimento alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Marsala per ricoprire l’incarico di Procuratore Capo, ma tale passaggio assume non pochi strascichi polemici: il CSM, infatti, con una decisione storica, accoglie la relativa istanza soltanto sulla base dei meriti professionali e dell’esperienza acquisita da Borsellino, negando validità assoluta al criterio dell’anzianità.
Nello stesso anno Caponnetto lascia la guida del pool a causa di motivi di salute: Falcone doveva essere il naturale successore, ma il CSM non è dello stesso avviso, scegliendo successivamente Antonino Meli sulla base del criterio dell’anzianità e facendosi strada il timore di veder distruggere il pool antimafia.
Infatti, Meli non condivide la visione di Falcone e Borsellino, credendo piuttosto che Cosa Nostra sia formata da piccoli clan autonomi, e facendo così venir meno quell'idea di unicum che si era fatta strada da qualche anno. Smantella così il pool antimafia, con non poche conseguenze: i processi finiscono per essere trattati da diversi uffici, con rallentamenti e, soprattutto, una mancanza di coordinazione che rischia di porre un freno all'attività.
Borsellino decide, quindi, di scendere in campo in prima persona, cominciando una vera e propria lotta politica e rischiando un provvedimento disciplinare per le sue dichiarazioni su cosa stava accadendo alla procura di Palermo, poi scongiurata grazie all’intervento del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga.
L'incontro con Calcara
Se Falcone viene nominato direttore degli affari penali a Roma, Borsellino decide di tornare nella sua Palermo, chiedendo e ottenendo di essere trasferito alla Procura della Repubblica di Palermo con funzioni di Procuratore Aggiunto. Nel 1991, diventa delegato al coordinamento dell’attività dei Sostituti facenti parte della Direzione Distrettuale Antimafia. Ricominciano le indagini e prende corpo il legame tra la mafia e la politica, come evidenziato da una celebre frase di Borsellino: “Politica e mafia sono due poteri che vivono sul controllo dello stesso territorio: o si fanno la guerra o si mettono d’accordo”.
Proprio nello stesso anno Cosa Nostra matura la decisione di volere uccidere Paolo Borsellino. Il collaboratore di giustizia Vincenzo Calcara afferma che il suo capo Antonio Vaccarino, ex sindaco democristiano del paese, gli avrebbe detto di tenersi pronto per l’esecuzione, che si sarebbe dovuta effettuare con un fucile di precisione o con un’autobomba, ma Calcara viene arrestato il 5 novembre.
Prima della fine del periodo dell’isolamento, egli decide di diventare collaboratore di giustizia incontrandosi con Borsellino: durante l’incontro, Calcara rivela il piano , affermando “lei deve sapere che io ero ben felice di ammazzarla”. Il pentito chiede a Borsellino di poterlo abbracciare e quest’ultimo afferma: “nella mia vita tutto potevo immaginare, tranne che un uomo d’onore mi abbracciasse”.
Le parole di Calcara vengono successivamente smentite dai collaboratori di giustizia Giovanni Brusca e Antonio Patti, che individueranno in Vito Mazzara il soggetto al quale era stato affidato il compito di uccidere Borsellino; il piano, tuttavia, sfumò soltanto per via dell'opposizione dei boss mafiosi di Marsala Vincenzo D'Amico e Francesco Craparotta, che vennero poi uccisi su ordine di Totò Riina per tale rifiuto.
La morte di Giovanni Falcone
L'amico Giovanni Falcone è impegnato a Roma per istituire un coordinamento tra il pubblico ministero e la polizia giudiziaria, costituendo la Direzione Nazionale Antimafia (nota come Superprocura) e gettando le basi di norme che gestiscano i collaboratori di giustizia.
Tra le novità spicca pure l'istituzione del carcere duro (il 41-bis) per mafiosi e terroristi.
Intanto il 30 gennaio 1992 arriva la sentenza storica: la Cassazione conferma la sentenza di primo grado del maxiprocesso e ripristina gli ergastoli che erano stati annullati in appello. Questo è un capitolo storico della lotta contro la mafia.
Il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone, che nel frattempo diventa superprocuratore, viene ucciso insieme alla moglie e a tre agenti della scorta in quella che è ormai ricordata come la “strage di Capaci”. Viene proposto a Borsellino di prendere il posto dell’amico Falcone nella candidatura alla superprocura, ma si rifiuta.
La strage di via D'Amelio
Il giudice indaga sulla strage e vive gli ultimi mesi come un “condannato a morte”, con la consapevolezza che la mafia lo aveva ormai messo in tiro. Il 19 luglio 1992, dopo aver pranzato a Villagrazia di Carini con la moglie Agnese e i figli Manfredi e Lucia, Paolo Borsellino si reca insieme alla sua scorta in via D'Amelio, dove vivevano sua madre e sua sorella Rita. Una Fiat 126 imbottita di tritolo esplode al suo arrivo. Insieme a Borsellino muoiono cinque agenti della scorta.
Il 24 luglio circa 10 000 persone parteciparono ai funerali privati di Borsellino. La salma è stata tumulata nel Cimitero di Santa Maria di Gesù a Palermo.