Guida alle opere di Giacomo Leopardi

Leopardi ha composto prevalentemente opere liriche, legate alle varie fasi del suo pensiero, che invece è stato espresso più chiaramente nelle opere in prosa. Ecco riassunto e critica delle opere più importanti del poeta simbolo del romanticismo italiano

Guida alle opere di Giacomo Leopardi

GUIDA ALLE OPERE DI GIACOMO LEOPARDI

Giacomo Leopardi
Fonte: istock

Tutte le liriche di Leopardi sono state da lui raccolte sotto il titolo di “Canti” perché la poesia non descrive la realtà, ma si solleva, col canto, al di sopra di essa. Nella sua giovinezza, Leopardi ha coltivato vari generi poetici ed ha meditato anche di comporre un romanzo autobiografico, che è rimasto però allo stato di un primo abbozzo.

L’inizio vero e proprio della poesia leopardesca si fa coincidere con la canzone "All’Italia" del 1818, una lirica civile, animata da spiriti patriottici e da un caldo tono enfatico che induce il poeta a gridare la sua disponibilità a lottare per la patria e a morire per essa, visto che l’indifferenza e la viltà sono i connotati degli italiani del suo tempo.

Seguono poi un’altra decina di canzoni riguardanti sia vicende private (“Nelle nozze della sorella Paolina”), sia eventi culturali (“Ad Angelo Mai”), sia eventi della storia o del mito, fino all’ultima canzone del 1823 “Alla sua donna” in cui Leopardi canta non una donna concreta, ma l’idea platonica della bellezza che vive solo nel mondo delle idee.

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Le due canzoni più alte richiamano il mito (“Ultimo canto di Saffo” del 1822, in cui la poetessa si suicida perché respinta dal bel Faraone) e la storia romana (“Bruto minore”, in cui Bruto si uccide dopo la sconfitta di Filippi). Sono queste le due canzoni del suicidio in cui Leopardi canta, in sostanza, la vanità dei sogni di amore e di gloria, cioè di quegli ideali che il suo animo avvertiva in modo cruciale. Saffo e Bruto sono parti della sua anima, e il loro suicidio può essere inteso in chiave alfieriana: essi non fuggono per viltà dal mondo, ma col suicidio intendono protestare contro un mondo che impedisce la realizzazione dei sogni più alti, come appunto l’amore e la gloria. La canzone di Saffo presenta poi un ulteriore motivo di interesse perché dal citato pessimismo storico si passa ad una fase intermedia in cui è il fato, sono gli dei, i responsabili dell’infelicità umana, quasi che essi si divertano a creare l’uomo per farlo soffrire.

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I piccoli Idilli.

I "Piccoli Idilli" sono sei componimenti scritti tra il 1819 e il 1821 e chiamati da Leopardi semplicemente “Idilli” (“piccoli” è un aggettivo dato dalla critica successiva): “L’infinito” del 1819, “La sera del dì di festa” del 1820, “Alla luna” del 1820, “La vita solitaria” del 1821, “Il sogno” del 1821, “Lo spavento notturno” del 1821. Il termine “idillio” deriva dal greco eidos (visione) e in effetti l’idillio greco consiste per lo più nella visione di scene di vita campestre o pastorale.

In Leopardi, tuttavia, cambia notevolmente il concetto di “visione”, che non è più, come nella tradizione greca, la rappresentazione di un scena esterna, ma è, invece, la rappresentazione di una situazione interiore o, come lui stesso definisce l’idillio, “un’avventura storica dell’anima”.

Il poeta parte da una situazione esterna quotidiana e banale, come il trovarsi su un colle, con la vista impedita da una siepe, oppure il vegliare a letto in una sera festiva, ripensando al vissuto di quel giorno; poi, però, la linea da lui seguita porta all’interiorizzazione di quelle situazioni, che, da banali fatti quotidiani, si trasformano in miti poetici universali. Leopardi passa, dunque, dal canto esteriore delle Canzoni, canto che riguarda fatti esterni, alla lirica fortemente interiorizzata degli Idilli, modificando, al tempo stesso, anche le strutture espressive (lo stile): dalla rigida divisione in strofe delle Canzoni, infatti, si passa, ora, agli endecasillabi sciolti (che non hanno una struttura strofica), molto spesso legati da inarcature (enjambement), cosicché scompare la rigida cesura del verso, e si creano ritmi sempre nuovi. Inoltre il “legato” (enjambement) che salda fra loro i versi risulta quanto mai congruo per una poesia sentimentale (nel senso di riflessiva).

Dal registro solenne delle Canzoni, Leopardi, negli Idilli, passa ad un registro più semplice e quotidiano. Il lessico non ha nulla di particolarmente ricercato, eccezion fatta per alcuni voluti arcaismi, che conferiscono preziosità all’espressione. In alcuni di questi Piccoli Idilli, come per esempio “La sera del dì di festa”, è presente un tono a tratti enfatico e il poeta dà l’impressione di volersi ribellare al proprio destino, mentre, nei due Idilli più grandi (“L’Infinito” e “Alla Luna”) ogni volontà di ribellione è ormai accantonata e prevalgono una pena sorda, una malinconia diffusa. Sempre in questi due Idilli, inoltre, compaiono due temi fondamentali della poetica leopardiana, cioè il tema dell’infinito e quello della rimembranza.

Alla  luna

In “Alla Luna” Leopardi pone l’accento sulla dolcezza del ricordo, anche se è doloroso. Il ricordo, d’altronde, riveste un ruolo di grande rilievo nella poetica leopardiana e lo Zibaldone contiene numerose note su questo tema: scrive Leopardi che il presente è impoetico e che la poesia risiede tutta nel passato, richiamato attraverso il ricordo. La sensazione presente (una voce, un suono, una visione) funge da stimolo a ricordare analoghe voci, suoni, visioni, udite o viste durante la fanciullezza, che è l’età nella quale si forma la nostra prima visione delle cose, una visione immaginosa, destinata poi a persistere per sempre nel nostro animo (la conoscenza della fanciullezza è dunque fondamentale). In larga misura, la poesia leopardiana fino al 1830 è imperniata sul ricordo e questo giustifica anche quell’alone di magia che impregna tante visioni leopardiane, perché al ricordo si lega la nostalgia del passato, che attutisce l’acerbità di tanti ricordi.

La presenza del ricordo comporta l’uso di un lessico indefinito, carico di suggestione. Leopardi, negli Idilli piccoli e grandi, utilizza quelle riserve di parole che alludono alle cose più che definirle, parole cariche di suggestive risonanze (vago, lontano, lontananza, notturno, forse).

L’idea dell’infinito connette, ovviamente, Leopardi con la moderna cultura romantica, nella quale si è evidenziato uno slancio dello spirito verso il superamento della mediocrità del presente (dell’hic et nunc). Ma al tempo stesso si deve collegare questa immaginazione dell’infinito a quella teoria del piacere enunciata nello Zibaldone. C’è, nell’uomo, una tendenza al piacere che non ha limiti né di durata, né di intensità; ma la vita offre solo piaceri momentanei e mediocri, per cui, attraverso l’immaginazione, l’uomo sogna quel piacere infinito che la realtà gli nega. Ormai abbandonata è, invece, l’interpretazione religiosa cara alla critica di Croci, secondo cui questo itinerario verso l’infinito condurrebbe a Dio. Leopardi si sta avviando verso una concezione del tutto materialistica dell’esistenza.

Le Operette Morali

Le Operette Morali hanno una gestazione abbastanza lunga. Già in una nota del 1821 dello Zibaldone il progetto dell’opera comincia a delinearsi con una certa chiarezza. Leopardi vuole scrivere delle prose in grado di scuotere e ammonire il suo tempo, un tempo che egli ritiene vile e troppo credulo nei confronti di fedi prive di fondamento. Vuole rivolgere tali ammonimenti e lo fa attraverso l’arma dell’ironia, così come fece Luciano di Samosata, scrittore dell’età ellenistica che nei suoi “Dialoghi” era solito celare amare verità dietro invenzioni festevoli e ironiche. Da questa volontà di insegnare attraverso l’arma dell’ironia e della satira nascono, nel 1824, le prime 20 Operette Morali, che diventeranno 24 entro il 1832.

Si tratta di dialoghi (o racconti) che hanno come oggetto leggende, miti, fatti storici o della letteratura. E’ proprio durante la composizione di queste prose (nel 1824) che matura in modo definitivo la concezione del pessimismo cosmico leopardiano. Vi sono, infatti, alcune Operette in cui è ancora presente il pessimismo storico, come nel “Dialogo di un folletto e di uno gnomo” del 1824, in cui queste due bizzarre creature dei boschi si incontrano e rilevano come ormai non si senta più alcuna voce umana sulla terra. Essi se la ridono tra loro, pensando alla stupidità dell’uomo, che si credeva signore della terra, mentre ora sembra scomparso, eppure la terra prosegue il suo ciclo vitale. E’ avvenuto, cioè, che la civiltà distorta voluta dall’uomo ha condotto a un tale regresso, ad una tale inciviltà, che l’uomo stesso è scomparso dalla faccia della terra.

Se, invece, si legge il Dialogo della Natura e di un Islandese” sempre del 1824, si trova già pienamente definito il pessimismo cosmico. In questa Operetta la Natura, simile a una gigantesca donna paurosa, risponde a un infelice islandese che le ha chiesto il perché del suo continuo soffrire in tutte le parti del mondo in cui si reca: la Natura afferma la sua totale indifferenza al destino dell’uomo.

Leopardi aveva cercato, finché gli è stato possibile, di preservare la Natura, ma poi il suo dolore personale lo ha indotto ad analizzare più a fondo il rapporto uomo/natura, convincendosi della malignità di quest’ultima. Non è vero, allora, che la Natura si sforza di rendere felice l’uomo con le “belle fole” e le “amene illusioni”: essa crea l’uomo e lo abbandona nella selva degli accadimenti terreni, senza offrirgli alcuno strumento per essere felice. Questa infelicità investe tutto l’universo, è una malattia mondiale (Weltschmerz, dolore mondiale) che avvolge in un unico destino sia gli esseri animati che quelli inanimati.

Nello stesso tempo, Leopardi abbraccia un “integrale materialismo” che lo avvicina a quello settecentesco, a quello di tanti pensatori illuministi. Come appare con chiarezza nell’Operetta intitolata “Frammento di Stratone di Lampsaco”, Leopardi è sempre più convinto che esista solo la materia, che è soggetta ad un perenne circuito di produzione e distruzione, e la distruzione è necessaria per lo stesso sopravvivere del cosmo. Nelle Operette Morali ritornano temi cari a Leopardi come quello della noia, ribadito a più riprese, e in particolare nel “Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez”. Al nostromo, che, di fronte alle incertezze del viaggio, gli domanda se non sarebbe stato meglio non iniziare quella impresa difficoltosa, Colombo risponde che è molto meglio il rischio rispetto a una vita piatta e noiosa: se fossero rimasti in Spagna, certamente la loro vita sarebbe stata preda della noia.

In questo quadro carico di disincanto c’è un valore, tuttavia, che Leopardi si sforza di preservare, come risulta dal “Dialogo di Plotino e Porfirio”, quello della solidarietà. Porfirio medita il suicidio per sfuggire alla pena del vivere, ma il suo maestro Plotino (neoplatonico) lo dissuade dal compiere quel gesto con le famose parole “stringiamoci insieme per meglio sopportare i colpi del destino”. Leopardi crede, dunque, nel valore della solidarietà tra gli uomini, e lo riaffermerà con decisione nel canto “La Ginestra”, in cui egli condanna la stoltezza dei suoi simili, che lottano contro gli altri uomini, non avendo compreso che la vera colpevole del loro soffrire è la Natura.

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Un discorso a parte meritano le ultime due Operette Morali del 1832, scritte, cioè, in quella fase della poetica leopardiana che va sotto il nome di “titanismo”. Nel “Dialogo di un venditore di almanacchi e di un passeggere” si assiste al contrasto fra un ingenuo venditore di calendari, che prospetta un felice anno nuovo, e un passeggere (alter ego di Leopardi), che sorride di fronte a tanta disarmante ingenuità. Leopardi si rivolge con un tono pacato e quasi sorridente verso le persone semplici e ingenue, per riservare, invece, un tono aspro nei confronti di chi, al contrario, egli ritiene saccente. La seconda Operetta del 1832 è il Dialogo di Tristano e di un amico, in cui Tristano-Leopardi dichiara apertamente la sua visione negativa del mondo e si dichiara pronto ad affrontare eroicamente la morte “con la fronte alta e il braccio armato”.

L’uomo, insomma, secondo Leopardi, non deve implorare pietà dalla Natura indifferente, ma accettare con dignità anche l’estrema prova (la morte).

La grande poesia di Leopardi tace negli anni che vanno dal 1824 al 1827, quasi che l’ispirazione poetica fosse come soffocata da quell’amaro sistema filosofico che Leopardi stava esponendo nelle Operette Morali. E’ nel 1828, quando si trova a Pisa, che il poeta sente rinascere prepotente in sé il bisogno di ricordare, e il ricordo è la chiave di volta della sua poetica. Annota nello Zibaldone (in una nota del 1827) che in qualunque luogo si trovasse o qualunque voce o suono udisse, egli avvertiva la necessità di ricordare la situazione in cui aveva già visto quel luogo o udito quella voce. Nello stesso anno (1827) compone la canzonetta “Il Risorgimento”, in cui canta la risorta capacità del suo cuore di palpitare, di coltivare le illusioni, di ricordare l’età delle illusioni.

I Grandi Idilli

E’ da questa rinnovata capacità del suo cuore di sentire, che negli anni 1828/1830 nascono i Canti pisano-recanatesi” o “Grandi Idilli” (anche in questo caso l'aggettivo “grandi” è una definizione della critica). Il primo è del 1828, “A Silvia”, scritto a Pisa. Dopo il ritorno a Recanati, invece, Leopardi scrive gli altri cinque idilli: “Le Ricordanze”, “La quiete dopo la tempesta”, “Il sabato del villaggio”, “Il passero solitario” e il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”. Questi canti pisano-recanatesi hanno in comune con gli idilli giovanili (Piccoli Idilli) il tenero colloquio fra il poeta e la Natura, il recupero di scene, situazioni della gioventù recanatese di Leopardi, che superano ogni elemento biografico per divenire miti poetici universali.

Silvia e Nerina non sono, quindi, solo due fanciulle precocemente scomparse, ma divengono il simbolo universale della giovinezza tradita, delle illusioni troncate crudelmente da una Natura indifferente. In comune con i Piccoli Idilli c'è anche il linguaggio limpido, musicale, colloquiale, anche qui impreziosito da termini desueti, e anche il gioco delle marcature e delle cesure che danno ai versi ritmi sempre differenti. Diverso dai Piccoli Idilli è, invece, il recupero delle strofe, intessute liberamente di endecasillabi e settenari. I primi cinque tra i canti citati sono stati definiti da Sapegno come i “miti del borgo”, in quanto è Recanati la protagonista, con le sue viuzze, le sue piazze, le sue situazioni quotidiane, le sue figure familiari, attraverso cui questo mondo recuperato sul filo del ricordo si tinge di un alone di magia perché il ricordo, inevitabilmente, attutisce i dolori, gli affanni.

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Questo non significa, però, che il poeta abbia acquisito una visione più serena del vivere; sulla magia del ricordo: infatti si innesta la visione “smagata” (disincantata) del vivere del poeta, che ormai sa con certezza che ogni speranza, ogni attesa di felicità è mera illusione (Silvia e Nerina sono morte e nessuna primavera potrà più destarle).

Il piacere non esiste per sé ma solo come momentanea cessazione del dolore (“La quiete dopo la tempesta”): l’uomo interroga vanamente il cielo per conoscere il senso del suo tragico cammino terreno. Il “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, il solo idillio privo della ricordanza, è proprio per questo il più disperato: manca, infatti, la magia del ricordo ad attutire il dolore. I Grandi Idilli constano per lo più di una parte lirico-descrittiva e di una più riflessiva, tuttavia i due momenti sono strettamente connessi tra loro, nel senso che la riflessione sgorga in modo spontaneo dalla prima parte, più squisitamente lirica.

Con la partenza definitiva da Recanati ha inizio l’ultima stagione della poesia leopardiana, nella quale il poeta, ormai consumata fino in fondo la poetica della ricordanza, si confronta coraggiosamente con la realtà presente, dinanzi alla quale si pone con un atteggiamento esclusivamente razionalistico. L’ultimo Leopardi, dunque, non cerca più conforto al male di vivere nella sfera consolatoria della memoria, ma prosegue nel suo cammino conoscitivo smascherando la vanità di ogni fede e invitando anche i suoi simili ad un analogo comportamento, che sia dignitoso per la nostra umanità, senza cullarsi nelle ciance religiose.

Il ciclo di Aspasia

Incentivo e nucleo di questa nuova poesia è l’amore per Fanny Targioni Tozzetti, a cui è dedicato un gruppo di liriche chiamato “Il ciclo di Aspasia”: ne fanno parte “Il pensiero dominante”, in cui il poeta canta l’amore per Aspasia, un amore concreto e terreno, ben diverso dall’amore platonico della canzone “Alla sua donna”. Ad esso seguono “Amore e Morte”, in cui si canta l’indissolubile legame tra queste due indissolubili realtà, e “A se stesso” in cui Leopardi denuncia la caduta della sua ultima illusione, e lo fa con parole aspre, taglienti, ben lontane dalla dolce musicalità della poesia idillica.

Questo atteggiamento titanico di Leopardi di fronte alla realtà (che è uno dei temi che lo accomuna alla moderna sensibilità romantica) secondo alcuni critici come Walter Binni (saggio “La protesta del Leopardi”) non è una novità nella poetica leopardiana e, anzi, tutta l’arte di Leopardi è intrisa di accenti titanici e di volontà educatrice, dai toni ardenti della canzone “All’Italia” ai dolenti ammaestramenti delle Operette Morali, fino alla suprema razionalistica lezione del canto “La Ginestra”. Non è possibile, quindi, parlare di una dicotomia Leopardi idillico - Leopardi eroico: l’eroismo è presente in tutta la produzione leopardiana. A quest’ultima stagione appartengono anche le ultime due Operette Morali.

La Ginestra, o il fiore del deserto

Un analogo invito alla coraggiosa accettazione della vita e della morte viene da “La Ginestra, o il fiore del deserto, un canto desolato che, essendo del 1836, precede di poco la morte del poeta, avvenuta nel 1837, e contiene il suo estremo testamento.

L’uomo deve seguire l’esempio dell’umile fiore, che cresce anche nei luoghi più aridi, come le falde del Vesuvio, e che ben presto soccomberà al rinnovato fiotto della lava, ma senza aver mai implorato pietà dalla Natura assassina. Nel profumo della Ginestra non è difficile riconoscere il profumo consolatorio della poesia: ha scritto, infatti, Leopardi, nello Zibaldone, che la poesia, anche quando rappresenta in toto la miserabile condizione umana, serve sempre di consolazione a un uomo grande e, pur non rappresentando altro che la morte, sembra restituire all’uomo, al poeta, per un attimo l’illusione della vita.

In questo canto, Leopardi ribadisce il suo credo razionalistico e aggiunge la nullità dell’uomo nella economia dell’universo. Leopardi invita poi gli uomini alla solidarietà, a stringersi in “social catena” per meglio fronteggiare i colpi della Natura, della sorte. C’è chi ha voluto vedere in questa espressione un invito alla ribellione, ma in realtà, la social catena leopardiana ha un valore consolatorio, non di lotta (sarebbe una lotta perduta in partenza: la Natura è onnipotente): stringiamoci insieme per consolare ed essere consolati.

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