Odissea, Libro X: Ulisse e la maga Circe

Testo e parafrasi del Libro X dell'Odissea in cui Ulisse incontra la maga Circe. Spiegazione delle avventure di Ulisse e i suoi compagni a Gaeta.
Odissea, Libro X: Ulisse e la maga Circe
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1Libro X dell’Odissea: trama e personaggi

Ulisse e Circe. Collezione dei Musei Capitolini, Roma
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Odisseo si addentra in un territorio in cui non ha familiarità: deve seguire i consigli di Hermes, dio e mago, per poter vincere le future astuzie della maga Circe «che sottrasse me più di un anno, là presso a Gaeta, prima che sì Enea la nomasse», dice l’Ulisse di Dante nella Commedia (Inf. XXVI). Odisseo esplora la terra in cui è approdato e scopre che si tratta di un’isola; allora, avendo notato che c’è del fumo e che dunque deve essere abitata, dopo aver tirato a sorte, manda Euriloco in esplorazione per capire chi sarà l’ospite. Euriloco con i compagni va in avanscoperta

Giunti da Circe, si fanno accogliere: la maga, tuttavia, li strega mutandoli in porci. Solo Euriloco si salva e torna correndo a perdifiato alla nave. Sulle prime non riesce neanche a parlare, tanto è sconvolto: poi racconta a Odisseo quanto è accaduto. 

L’eroe greco decide allora di incamminarsi da solo per andare a trovare Circe e riscattare i suoi compagni. Tuttavia lui è in errore se pensa di potersela cavare con la sola intelligenza. Gli si fa incontro Hermes, il quale lo mette in guardia sui tranelli che Circe ha in mente per stregarlo

  1. gli offrirà una pozione per dargli l’oblio;
  2. lo toccherà con la verga per mutarlo in maiale;
  3. lo inviterà a giacere con lui per renderlo vile e impotente.

I tre rimedi dati da Hermes sono rispettivamente: 

  1. un erba magica, che solo gli dei possono strappare dal suolo, la moly;
  2. aggredire la dea con la spada per spaventarla;
  3. giacere con lei solo dopo avere avuto da Circe il giuramento – cui anche gli dei devono sottostare – che non intende macchinare altri mali contro Ulisse.

Hermes raccomanda a Ulisse di non rifiutare la profferta amorosa della dea: è pericoloso rifiutare un dono. 

Accade tutto secondo quanto prospettato e l’ospitalità pericolosa di Circe diventa invece benefica e vantaggiosa. Ulisse la doma e Circe se ne innamora: dopodiché Ulisse si ferma a lungo presso la sua casa, finché non le chiede di poter ripartire.

Ciò è possibile, ma solo dopo avere interrogato l’indovino Tiresia, che si trova nell’Ade, regno di Persefone. Dunque Ulisse e i compagni devono incamminarsi verso l’Ade e compiere un rituale con cui evocare i morti. Tiresia parlerà e gli dirà che cosa fare. Poi Ulisse tornerà nuovamente da Circe per riprendere il suo viaggio

2Libro X dell’Odissea: testo

Ermete, quindi, se ne tornò all’alto Olimpo,
per l’isola folta; e io alla casa di Circe
andavo; e molto il mio cuore nell’andare batteva.

Mi fermai sulla porta della dea belle trecce,
e là fermo gridai; la dea sentì la mia voce.

Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti,
e m’invitava: e io la seguii sconvolto nel cuore.

Mi condusse a sedere su un trono borchie d’argento,
bello, ornato: e sotto c’era lo sgabello pei piedi.
Fece il miscuglio per me, in tazza d’oro, perché bevessi,
e il veleno v’infuse, mali meditando nel cuore.
Ma come me l’ebbe dato e bevvi – e non poté farmi incantesimo –
con la bacchetta colpendomi parlava parola, diceva:

«Va’ ora al porcile, stenditi con gli altri compagni».

Così diceva; e io la spada acuta dalla coscia sguainando,
su Circe balzai, come deciso ad ucciderla.
Lei gettò un urlo acuto, mi corse ai piedi e m’afferrò le ginocchia,
e singhiozzando parole fugaci diceva:

«Chi e donde sei tra gli uomini? Dove la tua città e i genitori?
Stupore mi prende, perché, bevuto il veleno, non hai subìto incantesimo.
Nessuno, nessun altro uomo poté sopportare il veleno,
chiunque lo bevve, appena passata la siepe dei denti.

Ma forse nel petto hai mente refrattaria agli incanti;
oppure tu sei Odisseo, l’accorto, che doveva venire,
come mi prediceva sempre l’Argheifonte aurea verga,
tornando da Troia con l’agile nave nera.

Ma via, nel fodero la spada riponi, e noi ora
sul letto mio saliremo
, che uniti
si letto e d’amore possiamo fidarci a vicenda».
Così parlava, ma io ricambiandola dissi:

«O Circe, come m’inviti a esserti amico,
tu che porci m’hai fatto nel tuo palazzo i compagni,
e me ora qui avendo, con inganno m’adeschi
a entrare nel talamo, a salire il tuo letto,
per farmi poi, così nudo, vile e impotente?
Non vorrò certo salire il tuo letto,
se non hai cuore, o dea, di giurarmi il gran giuramento
che nessun sortilegio trami ancora a mio danno».
Così dicevo, e lei subito giurò come volli,
e quando ebbe giurato, compiuta la formula,
allora solo di Circe salii il letto bellissimo.

Le ancelle, intanto, in sala si affaccendavano,
le quattro ancelle che in casa le stanno, piene di zelo,
e sono le figlie dei fonti e dei boschi,
e dei fiumi sacri che scendono al mare.

(…)
Circe, come s’accorse di me, che sedevo e sul cibo
non gettavo le mani, ma avevo troppo dolore,
vicino mi venne e parole fugaci parlava:

«Perché così, Odisseo, siedi simile a un muto,
il cuore mangiandoti, e cibo e vino non tocchi?
forse altro inganno sospetti? Non devi
temere: già l’ho giurato il gran giuramento».
Così parlava; e io rispondendole le dissi:
«O Circe, chi è l’uomo, purché abbia giustizia,
il quale ardirebbe empirsi di cibo e di vino,
prima che sian liberati i compagni e li abbia visti con gli occhi?
Se con cuore sincero a bere e a mangiare m’inviti,
scioglili, che li veda con gli occhi, i fedeli compagni».

Così dicevo: e Circe uscì attraverso la sala,
la verga in mano tenendo, le porte aprì del porcile
e fuori li spinse, simili a porci grassi di nove stagioni.
Quelli le stavan davanti, e lei in mezzo a loro
andando, li ungeva a uno a uno con altro farmaco.
E dalle loro membra le setole caddero, nate
dal veleno funesto, che diede loro Circe sovrana:
uomini a un tratto furono, più giovani di com’eran prima,
e anche molto più belli e più grandi a vedersi.

Mi conobbero essi, e ciascuno mi strinse la mano,
e in tutti, gradita, nacque la voglia di pianto: la casa
terribilmente echeggiava; la dea stessa provava pietà.

E mi venne vicino e parlò la dea luminosa:
«Divino Laerziade, astuto Odisseo,
ora va’ all’agile nave e alla riva del mare.
La nave per prima cosa tirate all’asciutto,
i beni nelle caverne mettete e tutti gli attrezzi;
poi torna indietro e conduci i fedeli compagni».
(…)
Ma io, salito di Circe il letto bellissimo,
le abbracciai le ginocchia; la dea ascoltò la mia voce,
e io parlandole parole fugaci dicevo:

«O Circe, compimi la promessa che hai fatta
di rimandarci a casa
; l’animo mio balza ormai,
e quello degli altri compagni, che mi finiscono il cuore,
intorno a me singhiozzando, appena tu sei lontana».
Così dicevo, e subito mi rispondeva la dea luminosa:

«Divino Laerziade, ingegnoso Odisseo,
non rimanete, dunque, per forza nella mia casa;
però altro viaggio c’è prima da fare e arrivare
alle case dell’Ade e della tremenda Persefone,
a interrogare l’anima del tebano Tiresia,
il cieco indovino, di cui salda resta la mente:
a lui solo concesse Persefone d’aver mente saggia
da morto; gli altri invece, come ombre vane svolazzano».

Così diceva, e a me si spezzò il caro cuore;
piangevo seduto sul letto e il mio cuore
non voleva più vivere, veder luce di sole.
Ma quando fui sazio di rotolarmi e di piangere,
allora le risposi parole e le dissi:

«O Circe, chi dunque m’insegnerà questa via?
All’Ade nessuno mai giunse con nave nera».
Così dicevo, e subito rispose la dea luminosa:

«Divino Laerziade, ingegnoso Odisseo,
mancanza di guida per la tua nave non ti preoccupi,
ma alzato l’albero, spiegate le vele bianche,
siedi; la nave porterà il soffio di Borea.
E quando con la nave l’Oceano avrai traversato,
dov’è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone,
alti pioppi e salici dai frutti che non maturano,
tira in secco la nave in riva all’Oceano gorghi profondi
e scendi nelle case putrescenti dell’Ade.

Qui in Acheronte il Piriflegetonte si getta
e il Cocito, ch’è un braccio dell’acqua di Stige,
e c’è una roccia, all’unione dei due fiumi sonanti
;

qui dunque approdato, eroe, come ti dico,
scava una fossa d’un cubito per lungo e per largo,
e intorno a questa liba la libagione dei morti,
prima il miele e latte, poi di vino soave,
la terza d’acqua; e spargi bianca farina,
e supplica molto le teste esangui dei morti,
promettendo che, in Itaca, sterile vacca bellissima,
sgozzerai in casa e riempirai il rogo di doni;
e per Tiresia a parte offrirai un montone
tutto nero, quello che eccelle tra i vostri greggi.
Come con voti avrai pregato le stirpi gloriose dei morti,
Allora sgozza un ariete e una pecora nera,
Volti all’Erebo, ma tu all’opposto rivolgiti,
alle correnti del fiume; là in folla
Verranno l’anime dei travolti da morte.
Tu presto incita i compagni e comanda
le bestie, che giaceranno sgozzate dal bronzo crudele,
di scuoiarle e bruciarle e supplicare gli dei,
l’Ade invincibile e la tremenda Persefone:
tu intanto, la spada acuta dalla coscia traendo,
siedi e impedisci alle teste esangui dei morti
d’avvicinarsi al sangue, prima d’aver consultato Tiresia.

Là subito verrà l’indovino, o capo di schiere,
e ti dirà il cammino e la durata del viaggio
e il ritorno, come potrai tornare sul mare pescoso
».

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3Parafrasi del Libro X dell’Odissea

La magia Circe. Scena dall'Odissea di Omero
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Ermete, quindi, se ne tornò all’alto Olimpo attraversando l’isola folta; e io andavo alla casa di Circe pieno di paura, col cuore che batteva. Mi fermai sulla porta della dea dalle belle trecce, e là fermo gridai e la dea sentì la mia voce. Subito, uscita fuori, aperse le porte splendenti e mi invitò a entrare: io la seguii, sconvolto nel cuore, impaurito. Mi invitò a sedere su un trono ornato con borchie d’argento e sotto c’era uno sgabello per poggiare i piedi. Fece il miscuglio per me, in una tazza d’oro, perché bevessi, e v’infuse il veleno, macchinando mali nel cuore. Non appena me l’ebbe dato ed io l’ebbi bevuto – e siccome non poté farmi incantesimo – con la bacchetta colpendomi pronunciò il seguente ordine: «Va’ ora al porcile, stenditi con gli altri compagni». Così diceva; e io sguainando la spada acuta dalla coscia balzai su Circe, in atto di ucciderla. Lei gettò un urlo acuto, corse ai miei piedi e m’afferrò le ginocchia, e singhiozzando mi implorava con parole fugaci: «Chi sei tu tra gli uomini? Dove sono la tua città e i tuoi genitori? Sono stupita del fatto che tu hai bevuto il veleno e non hai subìto il mio incantesimo. Nessun altro uomo è mai riuscito a sopportare il veleno, non appena l’ha bevuto. Forse hai una mente resistente agli incanti oppure tu sei Odisseo, l’accorto, che doveva venire di ritorno da Troia sull’agile nave nera, come mi aveva predetto Hermes, l’Argheifonte dalla bacchetta d’oro. Ma via, riponi nel fodero la spada, e noi adesso saliremo sul mio letto, che uniti nel letto e nell’amore possiamo così fidarci a vicenda». Così parlava, ma io rispondendole dissi: «O Circe, come puoi invitarmi a esserti amico, tu che hai trasformato in porci i miei compagni nel tuo palazzo e, avendomi qui ora, con inganno m’adeschi a entrare nel talamo, a salire il tuo letto, per rendermi poi vile e impotente una volta che io giaccia nudo? Non vorrò certo salire il tuo letto, se prima non hai intenzione di giurare il grande giuramento che nessun sortilegio trami ancora a mio danno». Così le dissi, e lei subito giurò come volli, e quando ebbe giurato, compiuta la formula, allora salii il letto bellissimo di Circe. Le ancelle, intanto, in sala si affaccendavano, erano quattro ancelle che stanno in casa, piene di zelo, e sono le figlie delle fonti e dei boschi, e dei fiumi sacri che si riversano al mare. (…) Circe, come s’accorse di me, che ero a tavola ma non mangiavo, sentendo troppo dolore, vicino mi venne e mi rivolse parole fugaci: «Odisseo, perché siedi così, simile a un muto, rimuginando, e non mangi e non bevi? Non sospetterai forse un altro inganno? Non devi temere: ho già giurato il gran giuramento». Così mi disse; e io le risposi: «Circe, chi è l’uomo, purché abbia giustizia, il quale oserebbe ingozzarsi di vino e di cibo prima che siano liberati i compagni e li abbia visti con gli occhi? Se con cuore sincero m’inviti a bere e a mangiare, scioglili, che possa vedere con gli occhi i miei fedeli compagni». Così parlai e Circe uscì attraverso la sala, tenendo la verga in mano. Aprì le porte del porcile e spinse fuori i miei compagni, simili a porci grassi di nove stagioni. Quelli le stavan davanti, e lei camminando tra loro, li ungeva a uno a uno con un altro farmaco. Dalle loro membra caddero le setole, nate dal veleno funesto, che aveva dato loro la regina Circe: tornarono di colpo uomini, più giovani di com’erano prima e addirittura più belli e grandi d’aspetto. Mi conobbero essi, e ciascuno mi strinse la mano, e tutti provammo grande commozione, la casa echeggiava di pianti e Circe stessa si commosse per la pietà. E mi venne vicino e parlò la dea luminosa: «Divino Laerziade, astuto Odisseo, ora va’ all’agile nave e alla riva del mare. Tirate per prima cosa la nave all’asciutto, i beni nelle caverne mettete e tutti gli attrezzi; poi torna indietro e conduci i fedeli compagni». (…) Salito di Circe il letto bellissimo, le abbracciai le ginocchia; la dea ascoltò la mia voce, e io le parlai con parole fugaci: «Circe, ti prego, mantieni la promessa di rimandarci a casa; l’animo mio sussulta per il dolore così come quello degli altri compagni, che singhiozzano, straziandomi, non appena tu sei lontana». Così le dissi e lei rispose: «Divino Laerziade, Odisseo dal multiforme ingegno, non rimanete, dunque, per forza nella mia casa. Tuttavia c’è un altro viaggio prima da fare, ossia arrivare alle case dell’Ade e della tremenda Persefone per interrogare l’anima del tebano Tiresia, il cieco indovino, che ha mantenuto salda la mente anche se morto per dono di Persefone saggia: gli altri invece, come ombre vane svolazzano». Non appena parlò così, a me si spezzò il caro cuore; piangevo seduto sul letto e il mio cuore non voleva più vivere, non volevo più veder la luce di sole. Però quando fui sazio di rotolarmi e di piangere, allora le risposi: «Circe, chi dunque m’insegnerà questa strada? All’Ade nessuno è mai giunto con nave nera». Così dicevo, e subito rispose la dea luminosa: «Divino Laerziade, Odisseo dall’intelligenza multiforme, non preoccuparti per la mancanza di guida: infatti, alzato l’albero, spiegate le vele bianche, siedi; il soffio di Borea spingerà la nave. E quando con la nave avrai attraversato l’Oceano, dov’è una bassa spiaggia e boschi sacri a Persefone, e ci sono anche alti pioppi e salici dai frutti che non maturano mai, allora tira in secco la nave sulla riva dell’Oceano dai gorghi profondi e scendi nelle case putrescenti dell’Ade. Qui in Acheronte si getta il Piriflegetonte e il Cocito, ch’è un braccio dell’acqua di Stige. C’è una roccia, all’unione dei due fiumi sonanti; qui dunque, una volta approdato, eroe, fa come ti dico: scava una fossa d’un cubito per lungo e per largo, e intorno a questa liba la libagione dei morti: prima il miele e latte, poi un’offerta di dolce vino, infine la terza offerta è d’acqua; e poi spargi bianca farina, e supplica molto le teste esangui dei morti, promettendo che, tornato a Itaca, una sterile e bellissima vacca, sgozzerai di doni in casa e riempirai il rogo; per Tiresia, a parte, offrirai un montone tutto nero, il più bello tra i vostri greggi. Come con voti avrai pregato le stirpi gloriose dei morti, allora sgozza un ariete e una pecora nera, volti all’Erebo, ma tu rivolgiti all’opposto, alle correnti del fiume; là in folla verranno l’anime che la morte ha travolto. A quel punto incita i compagni e comanda di sacrificare e bruciare le bestie e di supplicare agli dei, Ade invincibile e Persefone. Tu intanto, sguainando la spada, siedi e impedisci alle teste esangui dei morti d’avvicinarsi al sangue, prima d’aver consultato Tiresia. Là subito verrà l’indovino, o capo di schiere, e ti dirà il cammino e la durata del viaggio e il ritorno, in che modo potrai tornare sul mare pieno di pesci».

4Analisi del libro X dell’Odissea

La maga Circe trasforma i compagni di Ulisse in maiali
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Circe, figlia di Elio e Perseide, è forse la donna più affascinante di tutta l’Odissea, da molti critici indicata come la vera rivale di Penelope. Ambivalente, bifronte, ospita due volte Ulisse e i suoi compagni e rappresenta un snodo fondamentale nella vicenda. 

È il simbolo perfetto del bifrontismo dell’ospitalità: può essere benigna o maligna, a seconda della prospettiva che decide di assumere: «L’episodio di Circe, più di ogni altro, svela e sottolinea che l’ospitalità può inglobare forti cariche negative: prova che l’ospitalità è bifronte. Per il reduce in viaggio verso casa possono essere funesti sia i nemici che uccidono sia gli amici che ospitano» (Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 160).   

Il bifrontismo di Circe, simile a quello di Eolo (anche Eolo ospita due volte Ulisse prima in modo benigno e ospitale poi in modo maligno e ostile), si evince anche da un altro fatto: lei è maga e dea al tempo stesso: ospita benignamente e malignamente, come farebbe la strega di una favola o una castellana o una principessa affettuosa che aspetta il nobile cavaliere per sposarsi. Circe è quindi una sintesi di diverse figure femminili, ed è una donna libera, solitaria, capace di stare in solitudine come una dea, appunto. Questo aspetto ha sempre messo a disagio gli interpreti dell’Odissea. Circe fa pozioni, ha una verga magica, ma tesse anche drappi meravigliosi come le dee e trasforma le persone; quest’ultima è prerogativa per eccellenza solo divina.   

Grazie a questo suo lato bifronte Circe è anche la donna più seducente dell’Odissea, la meno definibile dal punto di vista fisico e psicologico, così come al punto di vista delle sue azioni: «Circe è colei che muta gli uomini in bestie: anche le fiere che si aggirano intorno alla casa erano uomini un tempo. Li muta senza ragione. I compagni di Odisseo non avevano commesso eccessi o errori, colpe o peccati: avevano solo accettato, ignari, l’ospitalità della maga» (Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 160). Perché la dea si comporta così? Non possiamo saperlo. Inoltre non sappiamo com’è fisicamente, non sappiamo l’aspetto della sua casa; esatto, non sappiamo niente: conosciamo solo le sue azioni che ci appaiono meccaniche, come se Circe fosse un’ingegnosa trappola perennemente innescata il cui scopo è imbestiare i maschi. Metamorfosi brutale: in questo caso fa diventare i compagni di Ulisse maiali, porci.

La simbologia a sfondo sessuale dovrebbe essere evidente, ma badiamo bene e non saltiamo a facili conclusioni: l’imbestiamento non avviene perché gli uomini accettano una profferta amorosa. Non c’è seduzione nel comportamento di Circe: lei li invita solo a mangiare e a bere, stregandoli poi con un intruglio. Lo fa e basta. Solo come ultima possibilità, qualora il sortilegio non avesse avuto effetto – lo vediamo con Ulisse – avrebbe invitato i suoi ospiti a giacere con lei e solo allora, nel suo letto, li avrebbe resi «vili e impotenti». Per certo l’aspetto sessuale è presente ma resta, pur nella sua evidenza, di difficile interpretazione.

Ulisse e i suoi compagni
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Proseguiamo oltre: Ulisse arriva da Circe e conosce già che cosa accadrà e quali prove dovrà affrontare: ci sono già state anticipate da Hermes il quale aveva prospettato le rispettive soluzioni. Precisiamo bene questo aspetto: Ulisse ha bisogno di Hermes per penetrare nel territorio di Circe senza subire danni. L’intelligenza non basta, ma Ulisse resta sé stesso: non cambia divinità protettrice, non diventa un seguace di Hermes, rappresentante del mondo magico (come Circe). Ulisse è e resta adepto di Atena, rappresentante del mondo razionale. Questa ambivalenza tra mondo razionale e mondo magico è fondamentale per capire l’episodio. Andiamo ancora oltre. 

Circe rivaleggia con Penelope: non cerca di trattenere l’eroe, ma lo intrattiene liberamente divenendo sua complice e amante. Ulisse rischia così di dimenticare Penelope. A conferma di questa particolare interpretazione ti segnalo che nel film “Ulisse” del 1954, diretto da Mario Camerini, a sottolineare questo particolare aspetto, l’attrice Silvana Mangano interpreta sia Penelope sia Circe. 

Quando Ulisse chiede a Circe il permesso di lasciarla, questa acconsente e diventa una fida consigliera: illustra all’eroe il piano per poter scoprire il suo destino. Interrogare Tiresia, nell’Ade. La notizia non è certo delle migliori per l’eroe greco che scopre così di dover fare una pericolosa deviazione nel suo percorso e scendere nell’Ade, nel regno di Persefone, evocare i morti seguendo un rituale piuttosto elaborato. Ulisse deve parlare con Tiresia, l’indovino cieco, che potrà rivelargli cosa ha in serbo il destino per lui e quale sarà la strade del ritorno. Altri morti tenteranno di avvicinarsi all’eroe greco, che sarà quindi tentato di soffermarsi a colloquio – come sarà poi per Enea e per Dante, in altre due famosissime visite nell’aldilà – riconoscendo sua madre e Achille, che svolazzano inutilmente come farfalle notturne. La tappa nel regno dei morti è una delle più cruciali del viaggio di Ulisse. Ma precisiamo questo aspetto: Ulisse non scende nell’Ade, perché resta al suo ingresso ed è lì che evoca i morti: ancora una volta l’eroe si muove nel limine, in questo caso sull’invisibile soglia che separa i vivi dai morti.

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