Odissea, Libro XXII: la strage dei Proci

Trama, parafrasi e analisi del Libro XXII dell'Odissea di Omero, dove Ulisse - affiancato dal figlio Telemaco - dà il via alla lotta furibonda per eliminare i Proci.
Odissea, Libro XXII: la strage dei Proci
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1La strage dei proci: trama

Ulisse uccide i pretendenti di Penelope
Ulisse uccide i pretendenti di Penelope — Fonte: getty-images

Dopo la prova dell’arco, in cui Odisseo, vestito da vagabondo, vince e con un dardo attraversa l’anello di dodici scuri messe in fila, scatta la lotta furibonda per eliminare i Proci. Il piano è ben congegnato e partecipano, oltre a Telemaco, che combatte a fianco del padre, anche Eumeo, il porcaro, ed Euriclea, che deve tenere a bada le ancelle.   

Muore per primo Antìnoo e per secondo Eurimaco, dopo tutti quanti gli altri, ma solo grazie all’intervento provvidenziale di Atena che sprona il suo protetto a mostrare il suo autentico valore di guerriero. Finita la strage, Ulisse risparmia l’araldo Medonte e il cantore Femio, che dopotutto gli erano rimasti fedeli. Poi chiama Euriclea e fa purificare la sala lorda di sangue.   

2La strage dei Proci: testo del libro XXII dell’Odissea

Allora si denudò dei cenci l’accorto Odisseo,
balzò sulla gran soglia, l’arco tenendo e la faretra,
piena di frecce, e versò i dardi rapidi
lì davanti ai suoi piedi, e parlò ai pretendenti:
«Questa gara funesta è finita;
adesso altro bersaglio, a cui mai tirò uomo,
saggerò, se lo centro, se mi dà il vanto Apollo».
Disse, e su Antìnoo puntò il dardo amaro.
Quello stava per alzare il bel calice,
d’oro, a due anse, lo teneva già in mano,
per bere il vino; in cuore la morte
non presagiva: chi avrebbe detto che tra banchettanti
un uomo, solo fra molti, fosse pure fortissimo,
doveva dargli mala morte, la tenebrosa Chera?
Ma Odisseo mirò alla gola e lo colse col dardo:
dritta attraverso il morbido collo passò la punta.
Si rovesciò sul fianco, il calice cadde di mano
al colpito, subito dalle narici uscì un fiotto denso
di sangue; rapidamente respinse la mensa
scalciando, e i cibi si versarono a terra:
pane e carni arrossite s’insanguinarono. Gettarono un urlo
i pretendenti dentro la sala, a veder l’uomo cadere,
dai troni balzarono, in fuga per tutta la sala,
dappertutto spiando i solidi muri:
né scudo c’era, né asta robusta da prendere.
Urlavano contro Odisseo con irate parole:
«Straniero, male colpisci gli uomini! Mai più altre gare
farai: adesso è sicuro per te l’abisso di morte.
Hai ammazzato l’eroe più gagliardo
tra i giovani di Itaca: qui gli avvoltoi ti dovranno straziare».
Parlava così ciascuno, perché credevano che non di proposito
avesse ucciso: questo, ciechi, ignoravano,
che tutti aveva raggiunto il termine di morte.

Ma feroce guardandoli disse l’accorto Odisseo:
«Ah cani, non pensavate che indietro, a casa tornassi

dalla terra dei Teucri, perciò mi mangiate la casa,
delle mie schiave entrate per forza nel letto,
e mentre son vivo mi corteggiate la sposa,
senza temere gli dèi, che l’ampio cielo possiedono,
né la vendetta, che in seguito potesse venire dagli uomini.
Ora tutti ha raggiungo il termine di morte!».
Così disse, e tutti afferrò verde terrore:
ciascuno spiava dove potesse sfuggire alla morte imminente;

Eurìmaco solo osò rispondergli e disse:
«Se proprio sei l’Itacese Odisseo che ritorna,
giustamente rimproveri quanto facevan gli Achei;
sì, molte colpe folli in palazzo, molte nei campi.
Ma è caduto colui ch’era causa di tutto,
Antìnoo; lui ci istigava a simili azioni,
non solo cercando e agognando le nozze,
ma altro pensando, che non gli ha compiuto il Cronide
:
esser fra il popolo d’Itaca ben costruita
il sovrano, appena avesse ammazzato con insidia il tuo figlio.
Ora secondo giustizia è stato ammazzato; ma tu al popolo
tuo perdona; noi, rendendoti pubblica ammenda,
per quanto è stato bevuto e mangiato in palazzo,
ciascuno a parte una multa di venti vacche pagando,
bronzo e oro ti renderemo, finché il tuo cuore
si rassereni; prima non merita biasimo l’ira».
Ma feroce guardandolo disse l’accorto Odisseo:
«Eurìmaco, nemmeno se mi pagate tutti i beni paterni,
quanti ora ne avete, e se anche altri aggiungete,
nemmeno così le mani mie fermerò dalla strage,
prima che tutta l’offesa mi paghino i pretendenti.
Ora davanti a voi sta soltanto lottare
o fuggire, chi riesca a evitare la morte e le Chere;
ma, credo, nessuno potrà sfuggire alla morte imminente».
Così diceva, e subito le loro ginocchia si sciolsero e il cuore.
Ma Eurìmaco ancora una volta agli altri parlava:
«O amici, quest’uomo non fermerà le mani
implacabili, ma, come s’è impadronito del lucido arco e della faretra,
dalla soglia polita tirerà, finché tutti
ci avrà finito: pensiamo dunque alla lotta.
Snudate i pugnali, parate le mense
contro le frecce rapida morte: sopra di lui tutti piombiamo
uniti, potessimo dalla soglia e dalla porta scacciarlo,
e correre in città, e subito s’alzasse l’allarme.
Allora presto costui tirerebbe per l’ultima volta».
Così gridando, snudò il pugnale affilato,
bronzeo, a due tagli, e balzò su di lui
paurosamente gridando; ma in quella il glorioso Odisseo
scagliava una freccia, e lo colse nel petto, sotto la mammella,
nel fegato gli penetrò il dardo rapido: dalla mano
lasciò andare a terra il pugnale, rotolò e sulla mensa
cadde piegato, i cibi si sparsero al suolo
e la duplice tazza; la terra batté con la fronte,
straziato in cuore, e il seggio con tutti e due i piedi scuoteva calciando:
sugli occhi gli si versò la tenebra. 

[La lotta presto infuria e i Proci cercano di scappare e di armarsi. Il capraio Melanzio, approfittando di un errore di Telemaco, riesce a sgattaiolare nelle stanze superiori e a prendere armi per i Proci. In fretta le armi sono distribuite e Ulisse ha davanti un esercito: lui è praticamente solo. L’impresa in questo modo diventa disperata] (147-159) 

«Allora a Odisseo si sciolsero cuore e ginocchia,
come li vide vestire armi e in mano squassare
aste lunghe: troppo grande gli sembrava l’impresa.
Subito, rivolto a Telemaco, parole fuggenti diceva:
«Telemaco, dunque di là nelle stanze c’è qualche ancella
che spinge contro di noi mala guerra, oppure è Melanzio?»
E il saggio Telemaco rispondendo diceva:
«Ah padre, son io che ho sbagliato, nessun altro è colpevole,
io che la porta del magazzino saldamente commessa,
ho solo accostato: più accorta fu la spia di costoro.
Ma va’, glorioso Eumeo, chiudi tu quella porta,
e scopri se fu un’ancella a far questo
o il figlio di Dolìo, Melanzio, come sospetto».  

[Melanzio viene preso da Eumeo, il porcato, e Filezio, il bovaro, e appeso a una trave, mentre Ulisse e Telemaco restano nella sala a sostenere l’impeto dei Proci. In quel momento interviene Atena sotto le mentite spoglie di Mentore. Ulisse la riconosce subito e si rincuora, ma Atena lo rimprovera]

Così diceva; e Atena s’adirò più ancora nell’animo,
rimproverò Odisseo con parole irate:
«Dunque, odisseo, non hai più salda la forza e il vigore,
Di quando per Elena bianco braccio, figlia di nobile padre,
Nove anni contro i Troiani lottasti senza riposo,
E molti eroi massacrasti nella lotta selvaggia,
Pel tuo stratagemma fu presa la città larghe strade di Priamo.
Come, ora che alla tua casa, ai tuoi beni ritorni
Di fronte ai pretendenti piagnucoli d’essere forte?
Ma su, caro, stammi vicino e osservami all’opera,
E allora saprai con che cuore, in mezzo ai nemici
Mèntore d’Àlchimo ricambia i favori».

[Atena si trasforma in rondine e si appollaia sul soffitto. I Proci prendono coraggio vedendo Odisseo abbandonato da Mèntore. Ulisse però si è rinvigorito: ha trovato nuovo coraggio e adesso non dispera di potercela fare. Tutti i Proci muoiono: restano in vita solo l’araldo Medonte e il cantore Femio]

«Ti scongiuro, Odisseo: risparmiami, abbi pietà.
Tu avrai rimorso, un giorno, se uccidi il cantore
Perché per i numi e per gli uomini io canto.
Da solo imparai l’arte, un dio tutti i canti
M’ispirò in cuore; mi sembra che davanti a te canterei
Come davanti a un dio: perciò non tagliarmi la testa.
Anche Telemaco, il tuo figlio caro, può dirtelo
Che non per mia voglia o per mia domanda venivo
Nella tua sala a cantare fra i pretendenti dopo il banchetto,
Ma loro, così numerosi e potenti, mi trascinavano a forza».

[Ulisse li discolpa, poi osserva la scena davanti a lui]

Guardava anche Odisseo per la sala, se ancora qualcuno
vivo gli fosse sfuggito, scampando la tenebrosa Chera.
Ma tutti li vide fra il sangue e la polvere,
riversi i più, come pesci, che i pescatori
in un seno del lido, fuori dal mare canuto
hanno tratto con rete dai mille buchi: e là tutti,
l’onda del mare bramando, stan sulla sabbia riversi:
il sole raggiante toglie loro la vita;
così i pretendenti stavano uno sull’altro riversi.

3La strage dei Proci: parafrasi al Libro XXII dell’Odissea

Strage dei proci in urna di alabastro
Strage dei proci in urna di alabastro — Fonte: getty-images

Toltosi i cenci, l’accorto Odisseo balzò sulla grande soglia, tenendo l’arco e la faretra, piena di frecce, e tirò fuori i dardi rapidi lì davanti ai suoi piedi, e parlò ai pretendenti: «La gara funesta è finita; adesso mi occuperò di un altro bersaglio a cui mai un uomo a mirato, e vedremo se Apollo mi concederà di vantarmi». Disse così, e su Antìnoo puntò il dardo portatore di morte. Quello stava per alzare il bel calice d’oro, a due manici, già lo teneva in mano, per bere il vino; non si accorgeva della morte vicina: chi avrebbe detto che tra banchettanti un uomo, solo fra molti, fosse pure fortissimo, doveva dargli una disgraziata morte, la tenebrosa Chera? Ma Odisseo mirò alla gola e lo colpì col dardo: la punta passò dritta attraverso il morbido collo passò. Si rovesciò sul fianco, il calice gli cadde dalla mano, subito dalle narici uscì un fiotto denso di sangue; rapidamente respinse la mensa scalciando, e i cibi si sprecarono a terra: pane e carni arrossite s’insanguinarono. Sgomenti, i pretendenti gettarono un urlo dentro la sala quando videro l’uomo cadere, scesero dai troni, scappando per tutta la sala, spiando se sui solidi muri ci fossero aste e scudi da prendere. Urlavano contro Odisseo con parole piene di rabbia: «Straniero, male colpisci gli uomini! Stai sicuro che questa sarà la tua ultima gara: adesso è sicuro per te l’abisso di morte. Hai ammazzato l’eroe più gagliardo tra i giovani di Itaca: sarai cibo per gli avvoltoi».  Parlava così ciascuno, perché credevano che il mendicante avesse ucciso Antìnoo per sbaglio: questo, ciechi, ignoravano, che tutti loro sarebbero presto morti. Ma, guardandoli con ferocia, disse l’accorto Odisseo: «Ah cani, non pensavate che un giorno sarei tornato dalla terra dei Teucri, perciò mi mangiate la casa, violentate le mie schiave, e mentre sono vivo corteggiate la mia sposa, senza alcuna paura degli dei, padroni del cielo, né la futura vendetta dagli uomini. Ora tutti ha raggiungo il termine di morte!». Così disse, e tutti furono presi da un verde terrore: ciascuno spiava dove potesse sfuggire alla morte imminente; solo Eurìmaco osò rispondergli e disse: «Se proprio sei l’Itacese Odisseo che ritorna, giustamente rimproveri quanto facevan gli Achei; abbiamo razziato i tuoi beni nella tua casa e nella tua terra. Ma è appena morto colui ch’era causa di tutto, Antìnoo; lui ci istigava a simili azioni, non solo cercando e bramando le nozze con Penelope, ma addirittura altro pensando, che il Cronide non gli ha permesso di compiere: voleva, infatti, essere fra il popolo d’Itaca ben costruita il sovrano quando fosse riuscito ad uccidere con insidia tuo figlio. Ora secondo giustizia è stato ammazzato; ma tu al popolo tuo perdona il comportamento; noi, rendendoti pubblica ammenda, pagheremo per quanto è stato bevuto e mangiato in palazzo, ciascuno una multa di venti vacche, rendendotela in bronzo e oro, finché il tuo cuore si rassereni; prima non merita biasimo l’ira». Ma guardandolo con ferocia disse l’accorto Odisseo: «Eurìmaco, nemmeno se mi date le vostre eredità paterne, tutti i beni che possedete, e se anche altri aggiungete, nemmeno così le mani mie tratterrò dalla strage, prima che tutta l’offesa mi paghino i pretendenti. Ora potete soltanto lottare o fuggire, se qualcuno di voi riuscirà a evitare la morte e le Chere; ma, credo, nessuno di voi sopravviverà».  Così diceva, e subito le loro ginocchia si sciolsero e il cuore si fermò. Eurìmaco ancora una volta parlava agli altri: «O amici, quest’uomo non fermerà le mani implacabili, ma, come s’è impadronito del lucido arco e della faretra, dalla soglia levigata tirerà, finchéci avrà uccisi tutti: pensiamo dunque alla lotta. Snudate i pugnali, parate le mense affinché ci facciano da riparo contro le frecce rapida morte: sopra di lui tutti piombiamo uniti, magari riuscissimo dalla soglia e dalla porta scacciarlo, e correre in città, e subito gridare l’allarme.  Allora presto costui tirerebbe per l’ultima volta». Così gridando, snudò il pugnale affilato, fatto di bronzo, a due tagli, e balzò su di lui gridando da far paura; ma il glorioso Odisseo proprio in quell’istante scagliava una freccia, e lo colse nel petto, sotto la mammella; il dardo gli penetrò nel fegato: dalla mano lasciò andare a terra il pugnale, rotolò per terra e sulla mensa cadde piegato: i cibi si rovesciarono al suolo con la duplice tazza; la terra batté con la fronte, Eurìmaco, straziato in cuore, e il seggio scuoteva con tutti e due i piedi calciando: sugli occhi gli si versò la tenebra. (…) «Allora Odisseo temette di non farcela e si sentì venire meno non appena li vide vestire armi e in mano squassare le lunghe lance: troppo grande gli sembrava l’impresa. Subito, rivolto a Telemaco, diceva parole fuggenti: «Telemaco, nelle stanze c’è qualche ancella traditrice che porta guerra verso di noi oppure è Melanzio?». E il saggio rispose: «Ah padre, sono io che ho sbagliato, sono colpevole: ho solo accostato la porta del magazzino saldamente commessa: più accorta è stata la spia di costoro. Ma va’, Eumeo, chiudi la porta e scopri se fu un’ancella a far questo o il figlio di Dolìo, Melanzio, come io sospetto». (…) Così diceva; e Atena s’adirò profondamente e rimproverò Odisseo con parole rabbiose: «Dunque, Odisseo, ti sei rammollito rispetto a quando hai lottato per nove anni contro i Troiani a causa della nobile Elena dal bianco braccio: molti eroi massacrasti nella lotta selvaggia, e per il tuo stratagemma la città dalle larghe strade di Priamo fu presa. Come, ora che ritorni alla tua casa, ai tuoi beni di fronte ai pretendenti piagnucoli d’essere forte?

Ma su, caro, stammi vicino e osservami all’opera, e allora saprai con che cuore, in mezzo ai nemici Mèntore d’Àlchimo ricambia i favori». (…) «Ti scongiuro, Odisseo: risparmiami, abbi pietà. Tu avrai rimorso, un giorno, se uccidi il cantore perché io canto per i numi e per gli uomini. Da solo imparai l’arte: fu un dio a ispirarmi nel cuore tutti i canti; mi sembra che davanti a te canterei come se cantassi davanti a un dio: perciò non tagliarmi la testa. Anche Telemaco, il tuo figlio prediletto, può dirtelo: non per mia voglia o per mia domanda venivo a cantare nella tua sala fra i pretendenti dopo il banchetto, ma loro, così numerosi e potenti, mi trascinavano a forza». (…) Guardava anche Odisseo per la sala, se qualcuno avesse scampato la morte gli fosse sfuggito, sopravvivendo. Ma tutti li vide fra il sangue e la polvere, in terra, per la maggior parte riversi come stanno riversi i pesci che i pescatori hanno tratto con la rete dai mille buchi in un seno della spiaggia, fuori dal mare bianco di schiuma: e là tutti, bramando l’onda del mare, stan sulla sabbia riversi mentre il sole raggiante toglie loro la vita; così i pretendenti stavano uno sull’altro riversi.

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4La strage dei Proci: analisi del brano

Ulisse si rivela per gradi e per gradi riacquista il suo potere a Itaca. È stato riconosciuto da Telemaco, da Eumeo, dalla sua nutrice Euriclea (per la sua cicatrice, in modo intimo quindi), e adesso deve superare una prova pubblica – simbolica – per riprendere il proprio ruolo di re di Itaca e sposo di Penelope. Si spoglia delle vesti del mendicante, con cui aveva agito in incognito, supera la prova dell’arco – in questo modo torna a vestire i panni del guerrieroe dà inizio alla sua atroce e sublime vendetta

Tutto è stato calcolato nei minimi dettagli: la porta della sala – il mégaron – è stata chiusa, non ci sono armi appese alle pareti. In un lampo punta con freddezza Antìnoo e scocca la freccia che lo colpisce a morte. La scena cruenta è descritta con crudo realismo e dovizia di particolari, come se fossimo in uno dei duelli dell’Iliade: la freccia trafigge il “morbido collo” del pretendente, che si riversa sul fianco, il calice rotola a terra, «un fiotto denso di sangue» esce dalle narici del più superbo pretendente; il corpo senza vita cade fragorosamente sulla mensa, le vivande liete del banchetto si rovesciano in terra. Il poeta per accrescere il pàthos della scena e rendere così più evidente la Spannung, introduce una domanda retorica (vv. 12-14): «chi avrebbe detto che tra banchettanti / un uomo, solo fra molti, fosse pure fortissimo, / doveva dargli mala morte, la tenebrosa Chera?».  

I Proci si mostrano ciechi a quanto avviene e si mostrano ancora violenti e facili all’ira: sono pronti a vendicare la morte di Antìnoo che credono “accidentale” e non esiterebbero a colpire un mendicante, ospitato in piena regola presso una reggia (in cui loro stessi tra l’altro sono ospiti) secondo le leggi di Zeus, protettore dei mendichi. Si qualificano così come prepotenti e impulsivi, “ciechi” appunto, incapaci di comprendere la tragica realtà davanti a loro e di capire che la loro hybris sta per essere punita. 

Ulisse si rivolge ai Proci in modo risoluto e minaccioso: li insulta chiamandoli “cani” – appellativo che sottolinea bene la sfrontatezza; rinfaccia loro di aver dilapidato il suo patrimonio, insidiato la sua sposa formalmente non ancora vedova, fatto violenza alle sue schiave, contravvenendo alle leggi divine. 

La vendetta è pienamente legittimata. Eurìmaco è l’unico che prova a trattare: ha capito che Ulisse fa sul serio e non intende fermarsi davanti a niente. Forse, però, c’è ancora modo di recuperare la situazione con una ammenda e discolpandosi agli occhi di Ulisse: insomma fa lo scaricabarile, da vero codardo. Con grande viltà, accusa Antìnoo di ogni nefandezza e adotta il punto di vista di Ulisse: è vero, ammette, molte “colpe folli” sono state commesse, ma è Antìnoo l’unico responsabile, ed è ormai morto. Eurìmaco prega Ulisse di non estendere la sua vendetta sugli altri e, anzi, svela addirittura le trame ai danni di Telemaco ordite dal più superbo dei pretendenti: è una maldestra captatio benevolentiae verso Ulisse, il quale «non dice nemmeno il suo nome: il suo ricordo era nelle mente di tutti» (Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 259). Il fantasma di Ulisse che si aggirava in quella reggia solo come un’entità è adesso diventato un uomo in carne e ossa ed è lì davanti a loro. 

Ulisse
Ulisse — Fonte: getty-images

Discolpa se stesso e i compagni e propone al re un risarcimento in animali, oro e bronzo. Ulisse, tuttavia, non è certo arrivato a quel punto per fermarsi davanti a una semplice ammenda, per giunta da parte di un codardo: lui è un guerriero e ubbidisce alla legge dell’onore. Per questo la reazione dell’eroe greco è implacabile: con una forte iperbole, più o meno allo stesso modo con cui oggi diciamo «neanche per tutto l’oro del mondo», afferma che non basterebbero tutti i beni familiari dei pretendenti potranno riparare le offese subite. Il risarcimento possibile è solo uno: il sangue. 

Eurìmaco, a questo punto, con paura, comprende la finalmente la realtà: non gli resta che provare a combattere all’ultimo sangue. Si slancia per primo contro Odisseo e per primo è colpito dalla freccia implacabile del vendicatore. Anche la morte di Eurìmaco, come quella di Antìnoo, è descritta con crudo realismo: il narratore si sofferma dapprima sui dettagli anatomici (la freccia penetra «nel petto, sotto la mammella, nel fegato»), poi, proprio come era stato nel passo della morte di Antìnoo, sui particolari della caduta: il pugnale rimbalza a terra, i cibi e la tazza a due manici si riversano al suolo, il corpo cade con fragore, la testa batte in terra: Eurìmaco scalcia a vuoto, agonizzando per qualche istante finché la tenebra lo avvolge. 

A questo punto, finito l’agguato con il suo effetto sorpresa, scatta la battaglia: i servi fedeli di Ulisse sono armati e al suo fianco, insieme a Telemaco: Odisseo «d’un tratto ridiventa un capo che, insieme al figlio-scudiero e ai servi-soldato, impegna una vera e propria battaglia contro gli urlanti avversari» (Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 260). Tuttavia la lotta potrebbe mettersi male se i Proci per il fatto che molti avevano comunque la loro spada. Lo scontro, finita la sorpresa, è impari: i Proci sono decine e decine. Immancabile compare Atena che rimprovera Ulisse aspramente e lo sprona a mostrare il suo valore guerriero, come ai tempi della guerra di Troia: l’Iliade sconfina qui nell’Odissea. Odisseo si riveste delle sue antiche armi: la vestizione è simbolica. 

Alla fine i Proci soccombono uno dopo l’altro versando sangue. Restano solo l’araldo Medonte e il cantore Femio che allietava, pur controvoglia le gozzoviglie e i banchetti dei Proci. Ulisse li risparmia entrambi: è un fatto importante. Molto più di Medonte, Femio sarebbe stato il testimone ideale per raccontare l’accaduto e metterlo in poesia, così come noi oggi la ascoltiamo. Se Ulisse l’avesse ucciso, forse mancherebbe il pezzo più importante di questa meravigliosa storia. 

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