Odissea, Libro XXI: Ulisse tende l'arco

Penelope è alle strette, l’inganno della tela è stato scoperto. Sollecitata dai Proci deve porre fine all’attesa e di risposarsi ma lo farà solo dopo aver indetto un'ultima prova. Trama, analisi e parafrasi del Libro XXI dell'Odissea dove prosegue la vendetta di Ulisse tornato a Itaca e deciso a distruggere i Proci.
Odissea, Libro XXI: Ulisse tende l'arco
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1Trama del Libro XXI dell’Odissea: la gara con l’arco

Gara con l'arco. Penelope porta l'arco di Ulisse ai suoi pretendenti
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Penelope è alle strette, l’inganno della tela è stato scoperto. Sollecitata dai Proci, ha deciso di porre fine all’attesa e di risposarsi: tenta un’ultima prova… per scegliere uno dei pretendenti ha indetto una gara con l’arco, arma un tempo appartenuta a Odisseo, dunque un’arma speciale, che pochi saprebbero usare. Il primo problema è proprio riuscire a tendere l’arco. Il secondo passo della prova è far passare una freccia attraverso gli anelli di dodici scuri. Tutti i Proci falliscono

Anche il vagabondo che se ne sta in disparte, e che loro non sanno essere Odisseo, chiede di fare un tentativo. Viene subito insultato ma sia Penelope (ignara del fatto che il mendicante sia Odisseo) sia Telemaco (ovviamente, a conoscenza di questo fatto) respingono le accuse e gli insulti dei Proci e lasciano tentare il mendicante. Tra lo stupore dei presenti Odisseo, non ancora rivelatosi, riesce a superare la prova

Riaffermata la propria superiorità sui Proci, il padrone di casa rivela la propria identità e si vendica di chi ha dilapidato i suoi beni e insidiato la sua sposa. 

2Ulisse tende l’arco: testo del libro XXI dell’Odissea

Ora, come arrivò alla stanza la donna bellissima,
subito sciolse rapida la cinghia dell’anello,
spinse dentro la chiave e dei battenti allontanò i chiavistelli
con un colpo; i battenti muggirono come toro,
che pasce nel prato; così sonoro muggirono le porte belle
al colpo della chiave
, e le si aprirono subito.
Allora sull’alto palco salì, dove l’arche
stavano, e dentro l’arche le vesti odorose.
Di lì protendendosi, dal chiodo staccava l’arco
con la custodia, che lo fasciava splendente.

E seduta per terra, sulle ginocchia tenendolo,
piangeva forte, togliendo dalla custodia l’arco del re
.

Quando fu sazia di singhiozzi e di lacrime,
tornò nella sala, fra i pretendenti splendidi,
tenendo in mano l’arco flessibile e la faretra
riserva di frecce; e dentro erano molte frecce causa di gemiti.
Le ancelle le portavan la cassa, dov’era
molto ferro e bronzo, prova di forza del re.
Come tra i pretendenti fu la donna bellissima,
si fermò ritta accanto a un pilastro del solido tetto,
davanti al viso tirando i veli lucenti.

Da un lato e dall’altro le stava un’ancella fedele.
all’improvviso, ai pretendenti parlava, diceva parole
:

«Sentite me, pretendenti alteri, che su questa casa
d’un uomo da tanto tempo lontano piombate a mangiare
e bere continuamente, e non potreste trovare
nessun pretesto di finte parole, ma solo
perché mi fate la corte e mi volete sposare
;
ebbene, pretendenti, vi si presenta una gara;
v’offrirò il grande arco del divino Odisseo:

chi più facilmente l’arco tenderà tra le mani,
e con la freccia traverserà tutte le dodici scuri,
Io lo seguirò, lasciando questo palazzo

maritale, bellissimo, tanto pieno di beni
che sempre ricorderò, penso, anche in sogno».

(…)

Ma dopo che quelli libarono e bevvero quanto il cuore voleva,
Fra loro, covando inganno, parlò l’accorto Odisseo:
«Sentitemi, pretendenti della gloriosa regina,
che dica quello che con il cuore nel petto comanda:

Eurimaco soprattutto, e Antìnoo simile a un dio
imploro, giacché anche questa parola l’ha detta a proposito,
lasciare adesso l’arco, e rimettersi ai numi;
domani il dio darà vigore a chi vuole
.

Però, anche a me date l’arco polito, perché qui fra voi
le mani e la forza mia provi, se ancora

ho il vigore che c’era un tempo nelle agili membra,
o se già l’han distrutto la vita raminga e l’incuria
».

Così disse, ma quelli oltremodo n’ebbero sdegno,
paurosi che l’arco polito tendesse.
e Antìnoo lo rimbrottava, diceva parole, gridava
:

«O pazzo fra gli ospiti, tu non hai mente a posto;
non sei contento che in pace banchetti tra noi
magnanimi, e nessun cibo ti manca, non solo, ma ascolti
le nostre parole, i discorsi? Nessuno
straniero o mendico ascolta le nostre parole.

Il vino dolcezza di miele ti turba, che a molti
fa male, chi a gola aperta tracanna e non beve a misura
.

Il vino anche un centauro, il glorioso Euritìone,
fece impazzire dentro la sala di Piritòo magnanimo,
tra i Lapìti; e quando la mente sua fu travolta dal vino,
furibondo commise delitti in casa di Piritòo;
Strazio prese gli eroi, e per il portico fuori
Lo trascinarono balzati in piedi, mietuti gli orecchi
col bronzo spietato, e il naso; così, stravolto di mente,
se n’andò, trascinando la sua sventura nel pazzo cuore.

Di qui fra i Centauri e gli eroi guerra nacque,

ma a sé stesso per primo provocò pene, ubriacandosi.
Così anche a te gran sciagura predico, se l’arco
tendessi; non troverai più amicizia
nel nostro paese anzi su nera nave

al re Echeto, massacratore degli uomini tutti,
ti manderemo: e non potrai scampare
. Dunque sta’ in pace
e bevi e non metterti in gara coi giovani».
Ma gli rispose la savia Penelope:
«Antìnoo, non è bello né giusto ingiuriare
gli ospiti di Telemaco, chi viene in questo palazzo.
temi, se l’ospite tenderà il grande arco
d’Odisseo, confidando nella forza del braccio,
che al suo paese mi porti e mi faccia sposa?

Lui stesso non ha sperato questo nel cuore.
Nessuno di voi dolendosi in cuore per questo
sieda al banchetto, perché non è cosa possibile
».
Ma a lei replicò Eurìmaco, figlio di Polìbo:

«Figlia d’Icario, sapiente Penelope,
Non pensiamo che quest’uomo ti sposi; non è possibile.
Ma temiamo i discorsi di uomini e donne
che un vigliacco qualsiasi tra gli Achei debba dire:
“Principi ben più deboli la sposa d’un uomo perfetto
pretendono, e l’arco di lui non san tendere;
un mendicante qualunque, un giramondo che arriva,
agevolmente tirò la cocca e traversò il ferro!”
Così diranno, e vergogna per noi sarà questo
».
E gli rispose la savia Penelope

«Eurimaco, non è possibile che buona fama tra il popolo
Abbia chi mangia e disonora la casa
D’un nobile eroe; perché trovar questo vergogna?

L’ospite è un pezzo d’uomo e ben fatto,
E, quanto alla stirpe, si vanta di nobile padre.
Subito dategli l’arco polito, sicché vediamo.
Così vi dico, e questo avrà compimento:
se riesce a tenderlo, gliene dà il vanto Apollo,
manto e tunica gli vestirò, vesti belle,
gli darò un’asta acuta, difesa da uomini e cani,
e una spada a due tagli; e sandali ai piedi darò
e lo farò accompagnare dove vuole il suo cuore».
(…)

Là, sotto il portico, c’era un gòmena da nave ben manovrabile,
di papiro una corda: con questa legò le porte; quindi rientrò
e andò a sedersi sul seggio da cui s’era alzato,
guardando Odisseo
: già aveva preso l’arco Odisseo,
e lo girava da tutte le parti, lo tentava qua e là,
se avessero i tarli roso il corno, mentre il padrone non c’era.

Allora qualcuno guardando diceva a un altro vicino:
«Certo costui era un esperto, un uomo pratico d’archi.
E forse anche lui possiede archi simili in casa,
o sta pensando di farsene uno, tanto fra mano
sopra e sotto lo gira, il randagio esperto di mali».
E un altro dei giovani alteri diceva:
«Oh se potessi incontrare altrettanta fortuna
Quant’è vero che quello riesce a tendere l’arco!
»

Così dicevano i pretendenti; e l’accorto Odisseo, all’improvviso,

Dopo che il grande arco palpò, e osservò da ogni parte,
come un uomo, che è esperto della cetra e del canto,
senza fatica tende le corde sui bischeri nuovi,
fissando ai due estremi il budello ben torto di pecora,
così senza sforzo tese il grande arco, Odisseo
.

Poi con la mano destra pizzicò e provò il nervo,
che bene gli cantò sotto, simile a grido di rondine.
Ma ai pretendenti strazio grande ne venne, a tutti il colore
cambiò. E Zeus tuonò forte per dare il segno;
e godette Odisseo costante, glorioso
che gli mandasse un segno il figlio di Crono pensiero complesso.
Prese la freccia rapida, ch’era davanti a lui sulla mensa,
nuda, l’altre nella faretra capace
stavano, e presto gli Achei le dovevan provare;
L’arco pel mezzo afferrò, tirò nervo e cocca,
dal suo posto, seduto sul seggio, e lasciò andare la freccia
mirando dritto: non fallì di tutte le scuri,
l’anello alto, ma li traversò e ne uscì fuori
Il dardo greve di bronzo. Poi disse a Telemaco:

«Telemaco, non ti disonora l’ospite che nella tua sala
È seduto: non ho fallito il bersaglio, non ho faticato
Molto a tendere l’arco; ancora ho salda la forza,
non come i pretendenti che disprezzando m’insultano
.

Adesso è ora di preparare la cena agli Achei,
Finché è giorno: e poi variamente prendersi svago
Col canto e la cetra: questi son corona al banchetto».
Disse, e accennò con la fronte: si cinse la spada affilata
Telemaco, il caro figlio del divino Odisseo,
La mano gettò sull’asta, e accanto a lui venne
a piantarsi, vicino al seggio, armato di bronzo accecante.

3La gara con l’arco: parafrasi al libro XXI dell’Odissea

Ulisse uccide i pretendenti di Penelope
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Ora, non appena arrivò alla stanza la bellissima donna, rapidamente sciolse la cinghia dell’anello, spinse dentro la chiave e allontanò i chiavistelli dei battenti con un colpo; i battenti muggirono come avrebbe fatto un toro che pasce nel prato; così muggirono quelle belle porte al colpo della chiave, e si aprirono subito. Allora Penelope salì sull’alto palco, dove stavano le arche, e dentro l’arche c’erano le vesti odorose. Di lì protendendosi, staccava l’arco dal chiodo, con la custodia, che lo fasciava splendendo. Poi seduta per terra, tenendolo sulle ginocchia, piangeva forte, estraendo da quella custodia l’arco del re. Dopo aver pianto e singhiozzato a lungo, tornò nella sala, fra i nobili suoi pretendenti, in mano reggeva l’arco flessibile e la faretra, riserva di frecce; e dentro la faretra c’erano molte frecce causa di gemiti. Le ancelle le portavano la cassa, dov’era molto ferro e bronzo, prova di forza del re. Giunta tra i pretendenti, la donna bellissima si fermò ritta accanto a un pilastro del solido tetto, tirando i veli lucenti davanti al viso. Da entrambi i lati le stava a fianco un’ancella fedele. Prese d’improvviso la parola e disse: «Ascoltatemi, pretendenti superbi, che su questa casa d’un uomo lontano da tanto tempo siete piombati a mangiare e a bere continuamente, e non potreste mentire a proposito, o prendere un pretesto che non sia il fatto che mi fate la corte e mi volete sposare. Ebbene, pretendenti, vi si presenta una gara; vi offrirò il grande arco del divino Odisseo: chi più facilmente l’arco tenderà tra le mani, e scagliando una freccia traverserà tutte le dodici scuri, io lo seguirò, lasciando questo palazzo maritale, bellissimo, tanto pieno di beni che credo ricorderò per sempre, anche in sogno».

(…) Ma dopo che quelli libarono e bevvero a sazietà, fra loro, covando l’inganno, parlò l’accorto Odisseo: «Sentitemi, pretendenti della gloriosa regina, parlerò spontaneamente: imploro Eurimaco soprattutto, e Antìnoo simile a un dio, e non esagero nel complimento, di lasciare adesso l’arco, e rimettersi alla decisione degli dei; domani il dio darà vigore a chi vuole. Però vi chiedo di dare anche a me date l’arco polito, perché ho desiderio di provare qui tra voi le mie mani e la mia forza, se ancora ho il vigore che c’era un tempo nelle agili membra, o se già l’hanno distrutto la vita da vagabondo e l’incuria». Così disse, ma quelli si sdegnarono oltre misura, paurosi che l’arco polito tendesse, quel vagabondo. E Antìnoo lo rimproverava, e gridava: «O pazzo fra gli ospiti, tu sei fuori di testa; non ti accontenti di banchettare in pace i tra noi, che siamo generosi, e infatti nessun cibo ti manca, ma ascolti addirittura le nostre parole, i nostri discorsi? Nessuno straniero o mendicante ascolta le nostre parole. Di sicuro il vino dolce come il miele ti ha sconvolto, il vino che a molti fa male, soprattutto chi a gola aperta tracanna e non beve moderatamente. Ti ricordo che il vino fece impazzire anche un centauro, il glorioso Euritìone, dentro la sala di Piritòo magnanimo, tra i Lapìti; e quando la mente sua fu stordita dal vino, furibondo commise delitti in casa di Piritòo. Gli eroi furono colti dallo strazio, e per il portico fuori lo trascinarono balzati in piedi, senza pietà gli tagliarono gli orecchi con la spada, e il naso; così, stravolto di mente, se ne andò, trascinando la sua sventura nel cuore pazzo. Da questo fatto fra i Centauri e gli eroi scoppiò una guerra, ma a sé stesso per primo provocò dolori, ubriacandosi. Così anche a te predico una grande sciagura, se l’arco tendessi; non troverai più amicizia nel nostro paese; anzi su di una nera nave al re Echeto, massacratore degli uomini tutti, ti manderemo: e non potrai scampare. Dunque fatti gli affarti tuoi, e bevi e non gareggiare coi giovani». Ma gli rispose la savia Penelope: «Antìnoo, non è bello né giusto ingiuriare gli ospiti di Telemaco. Hai forse paura che l’ospite tenderà il grande arco d’Odisseo, confidando nella forza del braccio, e mi porti al suo paese e mi sposi? Lui ha ammesso di non avere queste speranze. Nessuno di voi si dispiaccia per questo e sieda al banchetto, perché non è una cosa possibile». Ma a lei replicò Eurìmaco, figlio di Polìbo: «Figlia d’Icario, sapiente Penelope, non pensiamo certo che quest’uomo ti sposi; sappiamo che è impossibile. Tuttavia temiamo i discorsi di uomini e donne: magari un vigliacco qualsiasi tra gli Achei potrà dire: “Principi smidollati pretendono la sposa d’un uomo perfetto, e non sanno tendere l’arco di lui; un mendicante qualunque, un giramondo arrivato per caso, agevolmente tirò la cocca e traversò il ferro!” Così diranno, e questo per noi sarà vergogna». E gli rispose la saggia Penelope: «Eurimaco, non è certo possibile che tra il popolo abbia buona fama chi mangia e disonora la casa d’un nobile eroe; perché dunque trovare indecoroso questo fatto? L’ospite è una persona forte e valente, e, quanto alla stirpe, vanta di avere un padre nobile. Subito dategli l’arco polito, così possiamo vederlo all’opera. Così vi dico, e questo avrà compimento: se riesce a tenderlo, Apollo gli consentirà di vantarsi, gli vestirò manto e tunica, vesti belle, gli darò un’asta acuta, per difendersi da uomini e cani, e una spada a due tagli; e darò sandali ai piedi e lo farò accompagnare dove vuole il suo cuore». (…) Là, sotto il portico, c’era un gòmena da nave ben manovrabile, una corda di papiro: con questa legò le porte; quindi rientrò e andò a sedersi sul seggio da cui s’era alzato, guardando Odisseo, il quale già aveva preso l’arco, e lo girava da tutte le parti, controllava qua e là se avessero i tarli roso il corno, mentre il padrone non c’era. Allora qualcuno, guardando questa scena, diceva a un altro vicino: «Certo costui era un esperto, un uomo pratico d’archi. E forse anche lui possiede archi simili in casa, o sta pensando di farsene uno, tanto lo sta esaminando, quel vagabondo esperto di mali».E un altro dei giovani superbi diceva: «Oh se potessi incontrare altrettanta fortuna quant’è vero che quello riesce a tendere l’arco!». Così dicevano i pretendenti tra di loro; e l’accorto Odisseo, all’improvviso, dopo che il grande arco palpò, e osservò da ogni parte, come un uomo, che è esperto della cetra e del canto, il quale agilmente tende le corde sui bischeri nuovi, fissando ai due estremi il budello ben torto di pecora, così senza sforzo Odisseo tese il grande arco. Poi con la mano destra pizzicò e provò il nervo, che ronzò sotto le sue dita simile a grido di rondine. Per i pretendenti tale scena fu uno strazio e sbiancarono tutti. Zeus tuonò forte per dare il segno e godette il paziente Odisseo, glorioso, che il figlio di Crono dal pensiero complesso gli mandasse un segno. Prese la freccia rapida, che era davanti a lui sulla tavola vuota, e l’altre invece stavano nella faretra capace – e presto gli Achei le avrebbero provate provare – l’arco prese per il mezzo, tirò nervo e cocca, dal suo posto, seduto sul seggio, e lasciò andare la freccia mirando dritto davanti a lui: non fallì e passò l’anello di tutte le scuri, la freccia uscì dall’altra parte. Poi disse a Telemaco: «Telemaco, non ti disonora l’ospite che nella tua sala è seduto: non ho fallito il bersaglio, non ho faticato molto a tendere l’arco; ancora è salda la mia forza. Non come i pretendenti, i quali disprezzando m’insultano. Adesso è ora di preparare la cena agli Achei, finché è giorno: e poi ciascuno a piacere prendersi svago col canto e la cetra: il giusto accompagnamento per un buon banchetto». Disse, e accennò con la fronte: si cinse la spada affilata Telemaco, il caro figlio del divino Odisseo. La mano gettò sull’asta, e accanto a lui venne a piantarsi, vicino al seggio, armato di bronzo splendente.

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4La gara con l’arco: analisi del brano sul ritorno e la vendetta di Ulisse

Siamo ormai vicini alla conclusione: Ulisse è tornato a Itaca e sta lentamente architettando un piano per riprendere il potere. Si è introdotto nella sua casa ed è come assistere a una tragica messinscena: il lettore sa quello che alcuni personaggi non sanno. I Proci non sanno quello che sta per accadere, mentre noi sì: è un espediente tipico del genere thriller. Dice Privitera a proposito del ventunesimo libro dell’Odissea, dove assistiamo alla famosa gara dell’arco, vinta da Ulisse sotto le mentite spoglie di un mendicante, gara che dà inizio alla strage dei Proci:  

«Nessun libro dell’Odissea è labirintico quanto il ventunesimo, e nessun inganno del libro è infernale quanto la gara con l’arco. La gara è acefala: manca lo sfidante. La gara è anomala: può essere vinta da uno, da nessuno, da pochi, da molti. La gara è letale: i vincitori possono uccidersi fra loro o essere uc-cisi tutti dall’unico vincitore. La gara è bifida: invece di avvicinare e imporre le nozze, può differirle ed escluderle» (Privitera, Il ritorno del guerriero, pp. 257-258). 

La gara dell’arco è uno stratagemma ispirato a Penelope da Atena, dea intelligente, che guarda lontano: sa che Ulisse avrà bisogno di un’arma per colpire per primo, mentre tutti saranno ancora all’oscuro della sua identità. L’arcosegno del potere – deve tornare in mano a lui, al legittimo padrone. Penelope, in silenzio, turbata, lo va a prendere. L’operazione è descritta con estrema cura come se si trovasse davanti a un altare: il valore simbolico di quell’arco è evidentissimo. Penelope è consapevole che se avesse vinto uno solo dei pretendenti, avrebbe dovuto lasciare la casa dove era stata sposa di Ulisse. Eppure ha motivo di sperare che l’arco possa ancora concederle tempo. Precisa, infatti, Privitera: 

«Nella mente di Penelope la gara aveva lo stesso valore dilatorio che aveva avuto la tessitura della tela. A ispirarle la gara era stata Atena, e forse, inconsciamente, la storia dell’arco, su cui l’autore, non a caso, insiste. Eurito [l’antico padrone dell’arco, n.d.r.], vincendo con quell’arco ogni nuovo pretendente, aveva di fatto differito le nozze della figlia Iole» (Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 252). 

Antìnoo presagisce l’inganno, ma non può dare segno di debolezza davanti agli altri pretendenti, ritirandosi dalla prova; si crea una sorta di gioco psicologico: pur sapendo che la prova è impossibile, nessuno vuole tirarsi indietro per mostrare agli altri di essere un uomo di poco valore. La paura del disonore è la trappola innescata da Penelope che però ne ignora le conseguenze. Nessuno obietta, dunque, e la gara si svolge. Telemaco riesce quasi a vincerla – davvero somiglia al padre. Tenta tre volte e alla quarta quasi ci riesce, ma uno sguardo di Ulisse lo ferma: pregiudicherebbe l’esito della vendetta

Ulisse abilmente, dopo aver saggiato l’arco, dopo averlo teso tra lo stupore di tutti, centra il bersaglio: la freccia passa attraverso gli anelli delle dodici scuri allineate. Stranamente, dopo che Ulisse ha superato la prova, nessuno fiata: tutti stanno in silenzio. Un silenzio di tomba. 

«Stranamente l’autore, che pur aveva notato – quando Odisseo aveva pizzicato la corda – il mortale pallore dei Proci, non dice nulla della reazione che essi hanno, quando vedono l’accattone superare la prova. Sono sbalorditi? Si sentono umiliati? Gridano? Minacciano? Il silenzio di Omero li riduce a fantasmi: tra poco saranno solo degli inerti e vili bersagli» (Privitera, Il ritorno del guerriero, p. 257). 

Nel momento in cui Ulisse vince, seguono alcuni drammatici istanti di silenzio in cui padre e figlio si armano insieme per dare inizio alla strage. È il momento di «apparecchiare la cena ai Proci» (ossia la vendetta). Il sole sta scendendo. Presto sarà buio eterno nelle vite di quei principi superbi. Anche qui, non sfugge il valore simbolico del momento. 

5Guarda il video sull'Odissea di Omero