"Casa sul mare" di Eugenio Montale
"Casa sul mare" di Eugenio Montale: analisi del testo
ll viaggio finisce qui:
nelle cure meschine che dividono
l'anima che non sa più dare un grido.
Ora I minuti sono eguali e fissi
come I giri di ruota della pompa.
Un giro: un salir d'acqua che rimbomba.
Un altro, altr'acqua, a tratti un cigolio.
Il viaggio finisce a questa spiaggia
che tentano gli assidui e lenti flussi.
Nulla disvela se non pigri fumi
la marina che tramano di conche
I soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l'isole dell'aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Tu chiedi se così tutto vanisce
in questa poca nebbia di memorie;
se nell'ora che torpe o nel sospiro
del frangente si compie ogni destino.
Vorrei dirti che no, che ti s'appressa
l'ora che passerai di là dal tempo;
forse solo chi vuole s'infinita,
e questo tu potrai, chissà, non io.
Penso che per i più non sia salvezza,
ma taluno sovverta ogni disegno,
passi il varco, qual volle si ritrovi.
Vorrei prima di cedere segnarti
codesta via di fuga
labile come nei sommossi campi
del mare spuma o ruga.
Ti dono anche l'avara mia speranza.
A' nuovi giorni, stanco, non so crescerla:
l'offro in pegno al tuo fato, che ti scampi.
Il cammino finisce a queste prode
che rode la marea col moto alterno.
Il tuo cuore vicino che non m'ode
salpa già forse per l'eterno.
1- Comprensione complessiva
Non ci sarà più nessun viaggio, per gli uomini costretti a vivere tra sofferenze che non permettono all'anima di librarsi e gridare le sue necessità.
A poco a poco il cuore si ottunde, si immobilizza, diventa incapace anche solo di un grido di dolore. Il paradosso disperante è che la vita continua a scorrere tra meschine preoccupazioni, implacabilmente monotona, insopportabilmente ripetitiva ("ora i minuti sono eguali e fissi..."; e ancora: "il viaggio finisce a questa spiaggia / che tentano gli assidui e lenti flussi...").
Nulla vi accade ("nulla disvela se non pigri fumi") ed è raro che qualcosa compaia all'orizzonte in questa "muta bonaccia", in questa specie di "limbo squallido / delle monche esistenze"
Questa esistenza piatta, sorda ormai alle urgenze più vere dell'umano, fa svanire tutto, anche i ricordi, in una nebbia impalpabile.
Dopo le immagini marine che oggettivizzano la posizione interiore di delusione, di non attesa, di non speranza, il poeta introduce indirettamente un "tu" personale, una donna, che pone una domanda drammatica sulla vita, la domanda più grave: "tu chiedi se così tutto vanisce / in questa poca nebbia di memorie; / se nell'ora che torpe o nel sospiro / del frangente si compie ogni destino". Si cela dietro questa richiesta un ultimo grido soffocato del cuore, della ragione, che non si rassegnano al fatto che tutto finisca nel nulla, che il destino di ogni uomo sia vanificarsi come l'onda che lentamente s'infrange sugli scogli.
Il poeta vorrebbe dire che forse c'è una salvezza, che forse qualcuno riesce a superare il "varco", a scoprire certezze per la vita, il senso delle cose, a raggiungere il compimento della sua umanità, ma questa possibilità gli è negata.
Egli vorrebbe, tuttavia, prima di abbandonarsi al suo destino, insegnare una "via di fuga" dalla dura, insensata necessità, da una realtà incomprensibile, ma sa che questa ipotesi di salvezza è labile come la spuma o un'onda sul mare agitato. In uno slancio del cuore offre alla donna, quasi un pegno per il destino perché la salvi, la sua piccola speranza, quella speranza che lui, stanco, deluso, non sa più alimentare.
2- Il primo verso del componimento montaliano ci offre nitida l'immagine della disillusione. Il viaggio, infatti, che ha sempre permesso a pensatori e scrittori di palesare una possibilità, di crearla e vivere per essa, arriva per Montale al suo ultimo porto.
Charles Baudelaire ci aveva insegnato che esiste un viaggio, il viaggio per antonomasia, che è quello che ognuno svolge per se stesso alla ricerca di un senso della propria vita. Il significato di questo viaggio consiste nel viaggiare tout court, senza mete e senza porti. Nessuno mai aveva avuto il coraggio di toglierci questa speranza, indicando una fine o un porto finale.
Montale invece non ripropone l'invito alla ricerca tout court come elemento essenziale della vita umana, come aveva già fatto in "non chiederci la parola", lirica pur impregnata di sofferenza e polemica nei confronti dell'uomo, ma si lascia andare ad un triste pessimismo e ad una "stanchezza" che poco spazio lasciano alla speranza di trovare quel "varco" a cui egli ambisce.
Le varianti non sono, come ci aveva talvolta abituati lo scrittore, di natura puramente espressiva, cioè una dichiarazione di poetica, una definizione del proprio linguaggio antilirico e antimusicale, una scelta di stonatura in un mondo troppo conformisticamente e falsamente intonato, ma sono una riproposizione di quella che sembra essere ormai l'unica certezza.
Uno dei principi compositivi della poesia "Casa sul mare" consiste, infatti, nel creare un limite nello svolgimento temporale e spaziale del componimento. L'intenzione dell'autore è suggerire un movimento in un circolo chiuso nel tempo e nello spazio grazie alla ripetizione (in seguito variata) del capoverso della poesia, "il viaggio finisce qui", "il viaggio finisce a questa spiaggia", "il cammino finisce a queste prode". La situazione evoca appunto un ripetuto addio di persone che non vogliono separarsi e che, nonostante ondate di memorie, vivono gli ultimi momenti comuni.
Anche i pochi riferimenti al paesaggio indicano l'esistenza di una realtà che vive in se stessa, nei suoi contorni aspri e duri, e non può divenire fonte di consolazione per il poeta. Il distacco finale, riassumendo le ragioni dell'intero componimento, esprime con parossistica lucidità la condizione di una esistenza priva di certezze,in cui l'unica risposta possibile è il pensiero negativo.
Subito ci viene suggerita la sensazione del limite, l'angoscioso esaurimento dell'anima sofferente non solo per le "cure meschine", ma anche per l'intervento della stessa implacabilità del tempo, la cui proprietà naturale ("i minuti sono eguali e fissi")viene sottolineata, con un'ombra di mistero, dalla parola "ora". E l'implacabilità del tempo continua ad essere espressa tramite la similitudine tra gli intervalli dei minuti e quelli dei "giri di ruota della pompa".
Il tempo non è un flusso delle sue unità, procede a scatti. In questo senso sono distinti tra loro gli intervalli dei giri e anche il singolo giro avviene "a tratti", come le mani tirano il filo della pompa.
La parte centrale, in cui cerca di dare speranza e offre consolazione rappresenta un segno di rammarico, ma soprattutto di totale e polemica estraneità nei confronti di questa ricerca della possibilità di un viaggio dell'uomo sicuro di sè e conformista, interamente appagato e integrato nel mondo in cui vive, dimentico della sua ombra, che rappresenta il mistero sotteso a ogni animo umano
Una delle più importanti funzioni di questa strofa è quella di introdurre un destinatario del discorso poetico. Anche se il sesso dell'interlocutore non è espressamente detto, ci troviamo di fronte alla solita misteriosa presenza femminile. Questa volta l'autenticità del personaggio è attestata dall'autore stesso anche se in modo abbastanza sfumato.
Rispetto alla negativa descrizione della prima strofa ("le cure meschine") la "poca nebbia di memorie" è piuttosto positiva. Il flusso del tempo è di nuovo fermato dall'"ora che torpe". E' come se il personificato "sospiro del frangente", il primo elemento animato della natura, assumesse l'anima morente della donna, come se esso per un momento diventasse la sua reincarnazione prima di svanire in eterno.
L'immagine sconsolata della morte è però subito negata dall'autore: la donna non avrà questo destino. Lei ("chissà") ha la possibilità di "infinitarsi", di sfuggire all'annullamento dell'esistenza. É un privilegio che appare più volte negli "Ossi di seppia". L'autore è sicuro di appartenere alla maggioranza sottoposta al "disegno" che nega qualsiasi senso dell'esistenza.
Ma ci sono anche i 'sovversivi' del disegno fatale, cui è destinato il misterioso varco in un altro mondo che nei termini paesaggistici è una "spuma o ruga" nei "sommossi campi", che ci porta al di là della spiaggia.
La differenza tra i due destini è palesata dagli elementi linguistici che sono presenti nella strofa, come il "tu" che apre la strofa, e il "dirti" con cui il poeta sottolinea la volontà di comunicare la salvezza.
Lucida e fortemente voluta è la contrapposizione nella terza strofa tra i "più" per i quali lo scrittore non prevede una salvezza, il "tu" a cui si riferisce e l'"io" che conclude il 23 verso, dopo un definitivo "non" a spezzare ogni speranza di salvezza personale.
Il momento più altamente lirico di questa scontro tra i due mondi è proprio questo verso, in cui al "tu" seguito da un "potrai", segno di speranza, segue un "io" avulso da qualsiasi possibilità.
Il 27 verso, ancora, offre un'altra dicotomia, evidente nel "vorrei" e nel "segnarti". Il primo termine indica solo una volontà dell'autore di aiutare, il secondo è, invece, una vera e propria possibilità, un insegnamento.
Le rime, inoltre, non sono costanti, anzi molto rare, quasi a non voler, volutamente, garantire un sistema di chiusura perfettamente compiuto e non offrire nessuna certezza, neanche di tipo metrico.
Si presentano, infatti, poco visibili e sparse nel componimento. Possiamo notare rime tra "spiaggia" e "appaia", collegata più evidentemente con "capraia", "fissi" e "flussi" e soprattutto nell'ultima parte "tra fuga" e "ruga", tra "campi" e "scampi", tra "prode" e "ode" e tra "alterno" ed "eterno".
I versi sono tutti brevi e concisi, come se assecondassero la faticosa articolazione del pensiero e esponessero anche visivamente la fine del viaggio che il poeta cerca di spiegare.
L'immagine della pompa offre una disarmonica dimensione fonica. Il rimbombo dell'acqua e soprattutto il cigolio della pompa possono avere riscontro nel negato grido dell'anima aiutato dall'allitterazione della "r": "dare", "grido" nel terzo verso e poi soprattutto "giri", "ruota", "giro", "salir", "rimbomba", "altro", "altr'acqua", "tratti" negli ultimi tre. L'anima, l'elemento passivo di questa prima strofa, si trova come schiacciata dal cieco meccanismo del tempo e di tutta la condizione dell'essere.
Nella seconda strofa la sensazione del limite continua. Viene precisato il generale "qui" della prima strofa, estremo limite raggiungibile, la spiaggia. In questo quadro non appare nessuna presenza umana e le azioni svolte appartengono sempre a quella meccanicità vuota e senza senso: il moto dei flussi, i "pigri fumi", la trama dei soffi leni e l'aria migrabonde.
Sullo sfondo della natura inanimata appare solo la conca come un legame con il mondo dei vivi. L'assenza di più evoluti gradi degli esseri aumenta la sensazione di solitudine e di desolazione.
L'ultima strofa comincia con la variazione della sempre presente anafora che sostituisce alla spiaggia un termine più prezioso quale "queste prode".
Di nuovo siamo di fronte ad un movimento ripetitivo, meccanico e comunque privo di senso: "queste prode che rode la marea col moto alterno". Caratteristica è qui la forte allitterazione della "o" presente quasi in tutte le parole: prode, rode, col moto alterno, tuo cuore vicino, non m'ode, forse, eterno. Molto bella e fonicamente riuscita è la rima interna con tutto il verso secondo ("prode / che rode"), che evoca il movimento ripetitivo del mare. Il dialogo diventa qui monologo. La separazione è definitiva.
Vi sono, poi nel testo, altre figure, più propriamente retoriche, quali l'enjambement e le anastrofi a rendere più malleabile il testo e più chiara l'incertezza. Alcune sono atte a sottolineare la puerile certezza che può derivare da una accettazione acritica del mondo, altre si spingono fino ad una denuncia della continuazione del percorso e della ricerca. Le similitudini, poi, indicano quanto sia difficile esprimersi senza ricorrere a elementi più chiari e certi, anche delle nostre stesse convinzioni o idee.
3) "Casa sul mare" fa parte della raccolta "Ossi di seppia", una raccolta con una precisa dialettica interna. Da un lato, infatti, c'è una confessione di impotenza del poeta, accompagnata da parole pietrose che colgono la delusione e dall'altra ci sono momenti di grazia in cui la natura sembra vicina a svelare il suo significato, quasi in armonia con l'uomo.
Spietatamente Montale demitizza insieme con la religione del linguaggio tutta la tradizione aulica della nostra poesia, da Petrarca a Leopardi.
E ciò è palese nella poesia "I limoni", quando il poeta dice che i "poeti laureati si muovono solo tra le piante dai nomi poco usati" , al contrario di quello che fa lui con le sue parole asciutte e impassibili, così avulse dai suoni idilliaci e musicali dei poeti romantici. La sua poesia è "scabra e essenziale", concreta, aliena da ogni romantico soggettivismo formale e libera di esprimere i suoi dignitosi concetti anche col silenzio. L'oggetto è il protagonista unico della sua poesia, non considerato però nella sua fisica realtà ma nel suo significato emblematico, di allusione all'umana condizione di sofferenza umana, anche essa reale, troppo reale.
Non vi è altro modo, quindi, di spiegare l'incapacità dell'uomo di aderire ad un mondo privo di significato se non con l'indugiare con lo sguardo sugli oggetti che ricordano quella vita in cui "ombra reale e salda", unica certezza vista già da Leopardi, è la sofferenza.
Il silenzio di Montale è, però, molto diverso da quello vile e scoraggiato di Verga o da quello altezzoso e lucido di Manzoni. Esso deriva non da un abbandono tout court, ma da una scelta. La stessa che spinse Ungaretti a scrivere " la parola è scavata in questo mio silenzio come un abisso". Il silenzio significa aspettare l'eco o una risposta, senza tradire i propri principi.
In "casa sul mare" di Montale si trova un accenno del tutto insolito: entra in gioco la volontà, "forse solo chi vuole s'infinita". Questo è l'unica volta in "Ossi di seppia" in cui l'autore rifiuta di 'infinitarsi'. Si tratta di una dichiarazione abbastanza sorprendente.
Dato che questa idea non trova riscontro in altre poesie, non possiamo trarne spunti per un'eventuale modifica dell'esegesi montaliana. Nell'ambito di questa poesia però tale modifica è necessaria. In questo caso Montale si autoesclude dal grandioso prodigio.
La scomparsa della donna, e non il soggetto parlante, è il vero tema della poesia. Di pochi accenni al proprio stato d'animo possiamo solo capire che l'autore conosce la segreta via alla salvezza, la può indicare, ma lui stesso non vuole intraprenderla.
L'autore davanti al resto dei suoi "nuovi giorni" ci rinuncia e preferisce indicare la "via di fuga" alla donna e donarle la sua "avara speranza" come "pegno" al suo fato. In "Casa sul mare" la posizione dell'autore è però insolitamente forte: da attendente sempre deluso diventa qui addirittura, o per lo meno così si dichiara, negoziatore con il destino.
La poesia più vicina ai temi da questa proposti è Crisalide, che presenta una situazione simile, un imbarco sulla spiaggia per un viaggio verso un altro mondo, quello dei vivi però.
In "Casa sul mare" il varco tende ad essere soltanto un'ipotesi rappresentata dalla speranza, questo secco e non troppo poetico né convincente "forse". La sua esistenza, il suo essere momento d'incontro dei due mondi viene messo in dubbio. Non si discute più della sua esistenza e del momento d'incontro dei due mondi. Il varco, cioè, esiste più nel senso temporale che spaziale, non è tanto un luogo, ma è soprattutto un attimo.
E' una dichiarazione di impotenza e infelicità.
Montale, infatti, è forse l'interprete più suggestivo e originale del Novecento della condizione di crisi dell'uomo contemporaneo. A differenza di Ungaretti che trovò nella fede religiosa uno sbocco alla crisi, a differenza di Quasimodo che prese dopo la guerra una ben precisa posizione nell'orientamento politico e letterario, egli non assunse mai impegni precisi sul piano ideologico, ma condannò le classi dirigenti del ventennio solo in nome di uno sdegno morale, della libertà e della dignità. Al poeta, quindi, non rimane che l'ansia metafisica, antica come il mondo, ravvisabile anche nel paesaggio descritto in "Ossi di seppia", per niente idilliaco e già adombrato dal titolo. Gli ossi, infatti, sono una delle tante "forme della vita che si sgretola", gli inutili ed enigmatici rigurgiti, abbandonati sulla riva dall' inspiegabile fluire del mare, così remoto e inattingibile, retaggio forse di altri essere e di antiche verità ormai sopite e perdute.
Dietro gli Ossi, come precedenti culturali ma anche dentro, come trama filosofica, dobbiamo riconoscere la traccia, l'eco, del dibattito filosofico contemporaneo. Ecco allora l'eco di Schopenhauer, il quale depaupera l'uomo di ogni vera possibilità di conoscere le cose; ecco Boutroux, che ispira il tema della necessità, la quale incatena l'uomo e dalla quale solo l'improbabile miracolo ci può "salvare". Insomma, presupposto culturale degli Ossi, è la reazione filosofica alla crisi delle certezze e dell'ottimismo positivistici.
Gli Ossi, con la loro natura povera e con quell'io poetante ancor più povero e smarrito, siano il capovolgimento della situazione alcyonica; come pure il rapporto col mare è differente. Entità materna, accogliente, gratificante in D'Annunzio, il mare è, per Montale, il "padre", la legge, "l'altro" che gode della verità e della pienezza dell'essere, e da esso il poeta si sente esiliato, rottame rifiutato, "osso di seppia". Il mare è l'immobilità nel tempo, pur apparentemente mutevole; l'uomo è "l'essere-per-la-morte", temporalità alla deriva.
Per questo, lo scrittore genovese ricerca una parola nuda che esprima la realtà della coscienza, la sua esperienza elementare del dolore, della violenza e della morte, avulsa dal conformismo e da legami prevedibili, banali o sentimentali. Quando poi la sua poetica si apre all'universale con "Le occasioni" si intravede uno spiraglio sulla possibilità di vedere un senso nella vita, nelle occasioni di vita. E per spezzare le catene dell'angoscia il poeta resuscita la rimembranza che aveva sacrificato in "Ossi di seppia" sull'altare della razionalità. Ma non cambierà mai la sua idea pessimista e la sua convinzione che l'unica speranza dell'uomo sia la "divina indifferenza", perchè al male di vivere, oltre alle manifestazioni della storia non si vedono alternative, se non nell' affermazione della dignità umana e nel tentativo di sopravvivere nel magma della disgregazione universale.
Fortissimo è il legame con la corrente dell' ermetismo, che proponeva la chiusura del poeta in una "torre d'avorio", rifiutando il contatto col pubblico e proponendo il disimpegno politico, con un chiaro retaggio decadente.
Gli ermetici, infatti, seguendo le indicazioni di Bo, propugnavano una letteratura come vita, una poesia che fossa quasi teologia, possibile solo attraverso il distacco totale dal contingente. Sulla stessa scia, Ungaretti e Montale rifiutarono l'urgenza di riscattare la poesia dalle forme dell'umanesimo e la concepirono come forma di intuizione-rivelazione, proveniente da una zona remota dell'essere, comunicabile solo per enigmi e analogie fuggevoli. Ecco perchè l'oscurità e il silenzio divennero indispensabili mezzi per la penetrazione di una nuova realtà. Dietro a tutto ciò sono presenti ovviamente anche la filosofia dell'esistenzialismo con la sua denuncia del distacco tra esistere ed essere, e le filosofie irrazionalistiche, anche se è ormai lontana l'ebrezza panica di D'Annunzio.
Conditio sine qua non per un comprensione totale del pensiero montaliano è la contestualizzazione nel periodo storico in cui visse. Una volta, infatti, distrutti i vecchi schemi della cultura positivistica, rinnegati i miti consolatori dell'800, egli, immerso in un mondo sfiduciato nelle prospettive della scienza e della vita politica e sociale, posto di fronte all' ascesa vertiginosa della borghesia capitalistica col suo imporre un modello di società tutto basato sulla logica del capitale e del profitto come unici valori, vive una profonda crisi d'identità, avverte chiaramente la fine di un'epoca e l'avvento di una nuova e prende coscienza della perdita del suo tradizionale ruolo sociale che era quello del "praeceptor", del "creatore di valori" e, in un certo senso, di "vate". In questo Montale si sintonizza con gli spiriti più avvertiti della coscienza intellettuale italiana ed europea, da Svevo a Pirandello, da Proust a Mann e a Kafka, che avevano espresso il medesimo disorientamento e disagio. E come essi, anche Montale non sa contrapporre un'alternativa storica credibile.
Ma Montale non sarà mai capace di affrontare l'avversione verso la civiltà attuale se non con un disimpegno politico da molti criticato.
Egli, cioè, fu coerentemente antifascista, firmò il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Croce, ma le vicende fasciste fino alla guerra aggravarono la sua disperazione. E questo lo portò a una completa disarmonia col mondo: fu anticomunista, antiavanguardista, sprezzante di tutta la storia. E la situazione peggiorò con gli anni, fino al rifiuto della civiltà industriale dal volto pauroso, che aveva ormai distrutto ogni senso e significato dell'arte e che quindi fece assurgere la morte a vera liberazione dalla crudeltà terrena.