Maia di D'Annunzio: analisi del testo, commento e parafrasi
Maia di D'Annunzio: testo, commento e parafrasi dei vv. 190-231 del canto XVI del poema autobiografico
Indice
Maia di Gabriele D'Annunzio
Maia, il primo libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi di D'Annunzio è stato pubblicato nel 1903 ed è un poema autobiografico. D'Annunzio scelse di intitolare il suo romanzo Maia ispirandosi alle Pleiadi, un gruppo di stelle nella costellazione del Toro, ai quali attribuì i nomi dei singoli libri del ciclo delle Laudi del cielo, del mare, della terra e degli eroi. Una delle stelle di questo ammasso celeste, infatti, è chiamata Maia. Il poeta trasse l'ispirazione per la sua opera dalla crociera estiva che compì in Grecia e nell'Egeo nel 1895, assieme ad alcuni amici.
Maia, testo
Laudi, Maia, canto XVI, vv. 190-231
Vesperi di primavera,
crepuscoli d'estate,
prime piogge d'autunno
croscianti su l'immondizia
polverosa che nera
fermenta sotto le suola
fendute onde si mostra
il miserevole piede
umano come tòrta
radice di dolore
divelta; rigùrgito crasso
delle cloache nell'ombra
della divina Sera,
tumulto della strada ingombra
ove tutte le fami
e le seti irrompono a gara
d'avidità belluina
per la forza che impera
e partisce i beni col ferro,
da voi sorgere io vidi
non so quale orrida gloria.
Gloria delle città
terribili, quando a vespro
s'arrestano le miriadi
possenti dei cavalli
che per tutto il giorno
fremettero nelle vaste
macchine mai stanchi,
e s'accendono i bianchi
globi come pendule lune
tra le attonite file
dei platani lungh'esse
le case mostruose
dalle cento e cento occhiaie,
e i carri su le rotaie
stridono carichi di scòria
umana scintillando
d'una luce più bella
che la luce degli astri,
e ne' cieli rossastri
grandeggiano solitarie
le cupole e le torri!
Questi versi (due strofe di 21 versi liberi con prevalenza di settenari e ottonari, con rime ed assonanze) sono tratti da Maia, il primo libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Composto nel 1903 (cioè successivamente ad Elettra e ad Alcyone, che pure precede nel ciclo della Laudi, fungendo da introduzione e da premessa ideologica), Maia è un poema di 8400 versi, diviso in 400 strofe (canti) di 21 vv. ciascuna. Il sottotitolo lo definisce una laus vitae, ovvero una lode entusiastica e sensuale della vita eroicamente concepita: al superuomo, in quanto dotato di sensibilità e vitalità eccezionalmente intense, è affidato il messaggio di una vita nuova, legata all’istinto e in comunione con la natura.
In questi versi il poeta collega il canto di sterminio che viene dai campi di battaglia greci a quello non meno feroce ma assolutamente privo di eroicità che viene dalle città terribili, cioè le moderne città tentacolari, la cui angosciante visione lo riporta alla squallida realtà della vita quotidiana. La città infatti è il luogo dove Pan è assente e dove invece abitano gli uomini qualunque, che si affannano come bestie per la sopravvivenza. Il poeta-superuomo è lontano da essi e guarda con sdegno la realtà cittadina, benché in essa sia pur sempre in grado di cogliere ciò che alla massa non è concesso, cioè il suo attimo di gloria: il poeta infatti riconosce nel carattere artificiale e degradato della città i tratti superiori del mondo naturale.
La città è un luogo infernale, sporco, maleodorante, contrapposto specularmente alla natura; come la città è il luogo della plebe, così la natura è il luogo incontaminato dove il poeta realizza, da solo, il suo destino di “eletto”.
Maia di D'Annunzio: commento
Questi versi (due strofe di 21 versi liberi con prevalenza di settenari e ottonari, con rime ed assonanze) sono tratti da Maia, il primo libro delle Laudi del cielo del mare della terra e degli eroi. Composto nel 1903 (cioè successivamente ad Elettra e ad Alcyone, che pure precede nel ciclo della Laudi, fungendo da introduzione e da premessa ideologica), Maia è un poema di 8400 versi, diviso in 400 strofe (canti) di 21 vv. ciascuna. Il sottotitolo lo definisce una laus vitae, ovvero una lode entusiastica e sensuale della vita eroicamente concepita: al superuomo, in quanto dotato di sensibilità e vitalità eccezionalmente intense, è affidato il messaggio di una vita nuova, legata all’istinto e in comunione con la natura.
In questi versi il poeta collega il canto di sterminio che viene dai campi di battaglia greci a quello non meno feroce ma assolutamente privo di eroicità che viene dalle città terribili, cioè le moderne città tentacolari, la cui angosciante visione lo riporta alla squallida realtà della vita quotidiana. La città infatti è il luogo dove Pan è assente e dove invece abitano gli uomini qualunque, che si affannano come bestie per la sopravvivenza. Il poeta-superuomo è lontano da essi e guarda con sdegno la realtà cittadina, benché in essa sia pur sempre in grado di cogliere ciò che alla massa non è concesso, cioè il suo attimo di gloria: il poeta infatti riconosce nel carattere artificiale e degradato della città i tratti superiori del mondo naturale. La città è un luogo infernale, sporco, maleodorante, contrapposto specularmente alla natura; come la città è il luogo della plebe, così la natura è il luogo incontaminato dove il poeta realizza, da solo, il suo destino di “eletto”.
Dal punto di vista stilistico, si può notare la descrizione espressionistica (deformazione e umanizzazione della realtà) della condizione umana, derivante da un compiaciuto senso dell’orrido e del greve, a cui il poeta guarda con disgusto e sdegno snobistico. Interessanti gli effetti fonosimbolici di molti termini solo apparentemente realistici e “bassi”.
Maia di D'Annunzio: parafrasi
I strofa
Al calare della sera, la città svela il suo aspetto angoscioso: la pioggia battente cade sulla nera sporcizia che si accumula sotto le scarpe consunte e spaccate, dalle quali si vede un piede rattrappito (di un mendicante?); dalle fogne traboccano gli scarichi dell’intera città; le strade sono piene di gente animata da istinti primordiali (fame, sete) e accecata dall’egoismo individuale, pronta a lottare per ottenere i beni necessari. Tuttavia al poeta che osserva questa realtà (alla quale egli è estraneo), è dato di cogliere in essa un aspetto glorioso, sublime, benché mostruoso (v.
21: orrida gloria, ossimoro).
II strofa
A sera si fermano gli omnibus a cavalli e si accendono i lampioni, appesi come lune, in mezzo alle file dei platani che costeggiano le facciate dei palazzi, quasi stordite dal caos cittadino; le numerose finestre sembrano altrettanti occhi lividi. Intanto i tram corrono rumorosamente sulle rotaie, trasportando esseri umani accalcati e generando scintille elettriche più luminose e belle delle stelle: le cupole e le torri si stagliano alte contro il cielo arrossato dal tramonto.
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