L'arte oratoria di Lisia nei discorsi giuridici
Lisia ha operato soprattutto nel genere giudiziario e nella tradizione viene presentato come un brillante conferenziere in grado di affascinare gli ascoltatori
Tra il V e IV secolo ad Atene il cittadino si rivolgeva spesso ad un logografo per la stesura del discorso. I discorsi, una volta terminata la causa, finivano nel mercato librario, dove gli ateniesi potevano trovare quello che meglio di adattava al loro scopo. Dal canto loro i librai, per vendere meglio, potevano attribuire a grandi oratori discorsi di comuni cittadini senza che nessuno di preoccupasse di rivendicarne la paternità. Il mestiere di logografo infatti non era considerato troppo onorevole. Sotto il nome di Lisia perciò potevano circolare sia discorsi scritti in collaborazione col cliente, sia discorsi di Lisia, sia discorsi spacciati per tali. Tra le orazioni del corpus può essere assegnata con certezza a Lisia soltanto la 12, che l’oratore pronunciò di persona. Le altre possono essere state scritte, ma non utilizzate oppure possono essere dei modelli di oratoria realizzati a fini didattici.
Il padre di Lisia era un ricco siracusano trasferitosi ad Atene, su invito di Pericle, dove aprì una fabbrica di scudi. Dopo la morte del padre, Lisia si recò col fratello maggiore Polemarco a Turii, convergendo nella colonia insieme a molti altri intellettuali. In Italia meridionale studiò retorica. Tornato ad Atene nel 412 dopo il fallimento della spedizione ateniese in Sicilia fu costretto a lasciare la città per il governo dei Trenta. Lisia contribuì alla confitta di tale governo e solo l’opposizione di Archino impedì a Trasibulo di far passare un decreto che autorizzasse la cittadinanza ai meteci, quale Lisia era. Dopo la sconfitta dei Trenta Lisia pronunciò l’orazione Contro Eratostene. Lisia partecipò attivamente allo scontro politico seguito alla caduta dei Trenta. Un’epigrafe comunica che Archino stesso aveva proposto la cittadinanza per quei meteci che avevano partecipato alla liberazione del Pireo: giacché Lisia era tra questi, divenne forse così cittadini ufficiale. Quando Lisia fu spinto dalle circostanze a fare il logografo, doveva essere già un oratore affermato nel genere epidittico e un insegnante di retorica tra i più apprezzati. E’ morto intorno al 380.
Lisia appare attivo non soltanto nel genere giudiziario, ma anche in quello deliberativo e in quello epidittico. Il Fedro di Platone ci presenta Lisia come brillante conferenziere in grado di affascinare gli ascoltatori. In molte orazioni giudiziarie si ravvisa quella capacità di creazione dei caratteri che i critici antichi consideravano una delle sue maggiori qualità. Questa non consisteva nell’adattare lo stile al carattere del cliente, ma nel creare un tipo stilistico funzionale alle esigenze della causa. Lisia creava per il cliente un carattere temporaneo, del tipo che più attraeva la giuria.
Gli antichi avevano ben chiara la nozione dello stile lisiano, che coincideva con quello più appropriato all’oratoria giudiziaria: uno stile piano, moderato nell’ornamentazione, che privilegiava la chiarezza, la credibilità e la concisione, le tre virtù della narrazione. Classificato per questi motivi come campione dello stile piano, Lisia era automaticamente contrapposto a Demostene.
Le orazioni giudiziarie sono, senza eccezioni, discorsi di parte, nei quali è assolutamente secondario il reale configurarsi della causa nei suoi dati di fatto. L’autore lavora con l’obiettivo di garantire al cliente il successo che ha pagato. La verità non è pertanto importante quanto la coerenza e la plausibilità: è la legge dell’eikòs, “ragionevole”. La ricostruzione fittizia, resa probabile dalle logiche dell’eikòs, viene presentata con sicurezza deduttiva e apparente consequenzialità. L’istanza del discorso non è logica, ma persuasiva. Questa prevedeva innanzitutto una presentazione del cliente sotto la miglior luce possibile, eventualmente ricorrendo all’etopoiìa, vale a dire vestire il cliente di una personalità nuova non necessariamente reale, ma che si adattasse bene ai fini persuasivi del discorso.
Si ricorre inoltre alla denigrazione dell’avversario, che ne mette a nudo la scarsa credibilità e spesso anche l’indegno comportamento sociale. Questo procedimento è ovviamente controllato e sottile: un’aggressione astiosa non avrebbe lo stesso effetto di una premeditata macchinazione retorica. Il pubblico è costantemente coinvolto: la sua attenzione è richiamata dai frequenti vocativi che scandirono il discorso e che attirano l’uditorio.
La tecnica argomentativa applicata da Lisia si attiene ad alcune costanti, che opportunamente manipolate si ripresentano nell’intero corpus:
- l’elemento dell’eikòs: mostra il fatto come verosimile o inverosimile rispetto a carattere e circostanze;
- la mancata azione avversaria: la menzione di ciò che l’avversario avrebbe potuto dire o fare:
- la generalizzazione: se un fatto è innegabile, porta con sé un sistema di riflessioni generiche su abitudini e consuetudini;
- la riserva di credibilità: i presupposti dell’accusa vengono ridicolizzati o scalzati;
- argomentazione extra causam: riferimenti ad argomenti al di fuori della causa, come ambiente sociale, benefici di cui finora si è goduto, la correttezza di una vita;
- l’antitesi: di stampo filosofico, è una contrapposizione proposta spesso in veste ironica;
- il ragionamento entimematico: sillogismo basilare, consistente nella comparazione tra una soluzione passata e un problema presente, che quindi avrà medesima soluzione. Talvolta si risolve in un richiamo per la giuria ad una sentenza coerente con quelle già prese.
Lisia ricorre ad un lessico semplice, che evita forme poetiche e colte, e rinuncia a ornamenti vistosi e figure retoriche preziose. Non mancano espressioni colloquiali. In generale, le scelte espressive sono subordinate all’obiettivo primario del logografo, la persuasione dei giurati, e dunque valorizzano gli aspetti dell’argomentazione funzionali al successo della causa. L’invalido espone con chiarezza e concisione; si ha poi l’impressione che anche le scelte espressive concorrano a dipingere un ritratto. Alla brevità dell’eloquenza corrisponde, empaticamente, un uomo sobrio, diretto, poco incline alle sottigliezze e dunque alieno da inganni.