Liliana Segre e "La colpa di essere nati"

Liliana Segre, storia di una sopravvissuta ad Auschwitz: una delle ultime testimoni della Shoah ebraica entrata nelle tracce della prima prova 2022 con il libro scritto insieme a Gherardo Colombo "La sola colpa di essere nati"

Liliana Segre e
getty-images

LILIANA SEGRE E "LA COLPA DI ESSERE NATI"

Liliana Segre, Sopravvissuta ad Auschwitz: riassunto
Fonte: getty-images

Storia di Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz. Una delle ultime testimoni della shoah ebraica il 22 giugno 2022 è entrata nelle tracce della prima prova con il libro scritto insieme a Gherardo Colombo "La sola colpa di essere nati", sul tema della discriminazione e sulla la Costituzione. Agli studenti è stato proposto un brano dal libro della Segre per l'analisi di un testo argomentativo.

Il testo del libro si incentra su come, l'articolo 3 della Costituzione Italiana, rovesci la visione delle persone e della società rispetto al fascismo: se in questo periodo la discriminazione era stata una costante, anche prima di questo non si può dire che ci fosse uguaglianza tra le persone: le donne valevano meno degli uomini, gli appartenenti a qualunque altra religione valevano meno dei cattolici e così via. Nell' Art. 3 invece viene scritto: "Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali." e questo - almeno in teoria - cambia tutto.

LA STORIA DI LILIANA SEGRE

Liliana Segre era una bambina ebrea che abitava a Milano dove frequentava regolarmente la scuola fino a quando un giorno i suoi genitori le dissero che non avrebbe più potuto perché le leggi razziali avevano espulso dalla scuola tutti gli alunni di razza ebraica. Liliana era ancora piccola, non capiva perché non le fosse più consentito di frequentare la scuola; solo col tempo comprese che la sua colpa era quella di essere nata ebrea. Le restrizioni seguite alle leggi razziali avevano colpito, oltre agli studenti, anche professori, magistrati, enti pubblici, ufficiali e liberi professionisti.

Col passare del tempo cominciò a capire cosa voleva dire essere cittadina di serie B. La sua casa era controllata dalla polizia, amici suoi e dei suoi genitori avevano tolto il saluto solo per non aver alcun contatto con cittadini ebrei, e sentiva le sue amiche chiamarla ebrea, probabilmente senza sapere il significato di quella parola, così come non lo conosceva lei che aveva otto anni. Intanto era scoppiata la guerra, e Liliana e la sua famiglia si trasferirono in un paese della Brianza per sfuggire ai bombardamenti che colpivano le città, e lei smise di andare a scuola, dal momento che non c’erano scuole private, le uniche che lei poteva frequentare. Iniziò anche la caccia ai cittadini ebraici. Molti nella stessa condizione della famiglia Segre avevano cercato rifugio all’estero, ma ormai era troppo tardi, le frontiere erano chiuse e oltretutto c’era nonno Pippo, a cui Liliana rea molto affezionata, malato del morbo di Parkinson. Comunque il padre di Liliana riuscì a procurarsi due carte di identità false e fece in modo che la figlia si trasferisse in Valsassina e poi nel Varesotto, da una delle poche famiglie a loro rimaste amiche, che accettò di tenere una bambina ebrea in casa nonostante il pericolo della pena di morte.

Un giorno il padre di Liliana giunse a prenderla a Castellanza per fuggire insieme in Svizzera, con dei contrabbandieri che per altissime somme di denaro conducevano oltre confine renitenti alla leva, antifascisti ed ebrei. Ma una volta in Svizzera le autorità locali, trattandoli con estremo disprezzo, li rimandarono indietro, firmando così la loro condanna a morte. Furono arrestati e condotti al carcere di Varese, Como e infine San Vittore a Milano, dove Liliana visse l’ultimo periodo con suo padre. Venne infatti il giorno in cui furono letti i nomi di coloro che dovevano partire per il campo di concentramento.

Uscendo da San Vittore Liliana e gli altri condannati assistettero ad una scena di grande umanità: tutti gli altri detenuti salutarono loro che erano diretti al campo di concentramento con addii, benedizioni, donando loro quel poco che avevano, dimostrando di essere uomini prima che assassini o ladri. Una volta alla stazione centrale furono caricati su treni merci, riempiti fino a scoppiare, e vi rimasero per sei giorni, diretti ad Auschwitz. All’arrivo al campo si procedette con la registrazione dei prigionieri, dividendo gli uomini dalle donne.  Quella fu l’ultima volta in cui Liliana vide suo padre. Infine la selezione: gli ufficiali tedeschi sceglievano chi doveva vivere e chi no senza alcun criterio. Le donne furono spogliate e private dei loro vestiti, furono depilate e infine fu loro tatuato il numero sul braccio, un marchio che avrebbe segnato tutta la loro vita. Questo era per cancellare completamente l’identità di coloro che erano al campo; non erano più uomini, donne, ma stucke, pezzi. Liliana era diventata una ragazza-nulla. Col tempo iniziò a “indurirsi”, smise di piangere e iniziò a separarsi dalla realtà, a non comunicare più con nessuno, smise di amare. Fu mandata a lavorare in una fabbrica di proiettili e questa forse fu la sua salvezza, poiché almeno trascorse l’inverno lavorando in un posto chiuso. Altre prigioniere erano invece forzate ai lavori più terribili, come scavare buche nel ghiaccio o spostare pietre.

Le condizioni in cui si viveva erano a dir poco terribili: i rinchiusi dormivano in letti a castello a cinque o sei ripiani, vestiti e costretti ad usare gli zoccoli come cuscino per evitare che altri li rubassero: vestiti e zoccoli infatti erano preziosa merce di scambio all’interno del lager. I pasti consistevano in una zuppa a metà giornata e un pezzo di pane nero la sera. I tedeschi, infatti, cercavano di tenere i prigionieri nelle peggiori condizioni possibili: se alcuni non ce la facevano c’era comunque un continuo ricambio di “pezzi”.

Era già il 1945 e sul campo di concentramento iniziavano a sentirsi i primi aerei russi che passavano; infatti i Russi avevano da poco rotto il fronte orientale. Un giorno all’improvviso le SS obbligarono i prigionieri a lasciare immediatamente Auschwitz. Si cercava in questo modo, facendo saltare le strutture del campo e portando via i documenti, di nascondere i terribili delitti compiuti.

Una parte dei prigionieri tra cui Liliana fu condotta verso la Germania in quella che fu chiamata la marcia della morte. Moltissimi infatti non sopravvissero e caddero e morirono assiderati nell’inverno tedesco. Giunsero nel campo di Malchow che era la fine di marzo, stremati e senza forze. Oltretutto a Liliana era venuta un’infezione sotto l’ascella sinistra, ma questo avveniva negli ultimi giorni di prigionia, ed esso poté guarire con somministrazioni di penicillina da parte degli Americani, una volta liberati i prigionieri. Arrivò infatti l’ordine delle SS di liberare il campo, ma gli eserciti russo e americano giunsero prima del previsto. Liberarono coloro che avevano trascorso gli ultimi anni in un campo di sterminio e le SS fuggirono. Liliano era libera. Si ricongiunse al gruppo di ragazze francesi con cui era stata durante la fuga da Auschwitz, dove incontrò anche un gruppo di soldati francesi prigionieri di guerra. Per la prima volta da tantissimo tempo poté mangiare, farsi una doccia, dormire senza timore di morire da un giorno all’altro. Aveva riacquistato la libertà, non vi erano più restrizioni, aveva finalmente scontato una colpa che non era neanche sua, non era di nessuno, semmai era una colpa inesistente datale da chi aveva sottoscritto le leggi di Norimberga.

L'ARRIVO DEGLI AMERICANI

Gli Americani cominciarono ad organizzare le spedizioni per il ritorno dei prigionieri in patria, e Liliana si unì al gruppo degli italiani, anche se il desiderio di tornare a casa era quasi assente, sia per l’incertezza se avrebbe ritrovato o no il padre, sia perché riteneva che un ritorno così improvviso sarebbe stato destabilizzante; per il momento le bastava essere viva e libera. Rimase quattro mesi in Germania prima di tornare in Italia, durante i quali riprese gradualmente peso e tornò in salute.

Tornò in Italia in treno, scese a Bolzano per la registrazione ed infine giunse a Milano. Non nutriva pressoché alcuna speranza di ritrovare suo papà; trovò invece la sua casa, che era chiusa, e i suoi zii ed i nonni materni, chiamati dal portinaio del palazzo. Sembrava però che né gli zii né i nonni la capissero, che non capissero cosa lei avesse passato; le sembrava di dare solo fastidio, mentre Liliana aveva bisogno di curarsi le ferite del corpo e dell’anima. Tornare alla vita normale richiedeva un grandissimo sforzo. Ricominciò subito ad andare a scuola, e poi si trasferì dai nonni dal momento che con gli zii non si trovava bene. Col passare degli anni ricominciò a ritrovare un po’ della sua femminilità, ed infine si fidanzò con un giovane conosciuto al mare, che continuò ad andarla a trovare a Milano finché non si sposarono. E’ grazie a lui che Liliana, giorno dopo giorno, tornò ad essere una donna normale.

Liliana, dopo il matrimonio e dopo un lunghissimo percorso interiore, ha deciso di diventare una testimone della Shoah.

Quello che voleva fare era parlare in pubblico, tentare una vera narrazione in prima persona del lager così come non aveva mai fatto con i suoi familiari. E coloro a cui voleva rivolgersi erano i giovani, non un pubblico di sue coetanee. Fu così che Liliana Segre divenne una testimone della Shoah, e questo comportò andare a parlare nelle scuole per rendere partecipi i giovani di ciò che era accaduto, perché solo la consapevolezza può evitare che si ripeta una cosa tanto terribile.

Uno dei temi su cui insiste maggiormente Liliana è quello dell’indifferenza. Cominciò ad avvertirla fin da quando entrarono in vigore le leggi razziali. Solo allora si videro i veri amici, coloro che uscivano dalla zona grigia dell’indifferenza, che non voltavano la faccia dall’altra parte, che sfidavano i pericoli per rimanere vicino agli amici. La maggior parte delle persone non voleva schierarsi per l’antisemitismo, semplicemente voltavano la faccia dall’altra parte rispetto a quello che succedeva. I primi a mostrare un po’ di affetto nei confronti dei condannati furono i detenuti del carcere di San Vittore, regalando loro le poche cose che avevano, salutandoli con benedizioni, addii, incoraggiamenti, e dicendo loro di non aver paura e che non avevano commesso nulla di male.

Liliana arrivò ad Auschwitz. Là si vide circondata dall’indifferenza. In questo caso nella zona grigia vi erano tutti coloro che avevano partecipato indirettamente allo sterminio degli ebrei: gli ingegneri e gli scienziati che avevano progettato i forni e perfezionato il gas per lo sterminio di massa, i ferrovieri che trasportavano i prigionieri, gli elettricisti che avevano elettrizzato le reti ed il filo spinato. Come mai queste persone hanno voltato la faccia dall’altra parte? Non potevano non sapere, come mai non si sono opposti ad un crimine di cui così anche loro si sono resi colpevoli?

Non provò però mai odio nei confronti dei suoi persecutori. Durante la fuga dal campo, accadde un episodio che Liliana ritiene doveroso raccontare. Annunciato l’imminente arrivo dei Russi, una SS in tutta fretta si tolse gli abiti militari per mettere quelli civili e cercare di confondersi alla popolazione locale. Facendo questo buttò la pistola ai piedi di Liliana. Lei pensò di chinarsi e raccoglierla e di sparare, essendosi nutrita a lungo solo di malvagità ed egoismo. Ma capì subito che non ne sarebbe mai stata in grado, non solo per debolezza, ma anche per la sua etica, completamente diversa da quella nazista fondata sull’odio e sulla superiorità delle razze. Liliana non voleva diventare uguale a coloro che le avevano fatto subire tante pene.

Così come ora ha capito che l’odio che provava all’interno del campo di concentramento verso i ragazzi della Gioventù Hitleriana che le sputavano addosso era ingiustificato. Era più fortunata lei ad essere vittima piuttosto che loro SS, capaci di un odio tanto grande.

Un consiglio in più