Speciale Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi: la vita, le opere, il pensiero

Leopardi: vita, opere, pensiero del poeta recanatese dei Canti. Analisi della biografia, della poetica, del pessimismo, della filosofia.
Giacomo Leopardi: la vita, le opere, il pensiero
redazione

1Giacomo Leopardi e la solitudine del genio

Leopardi non è un romantico. Tanto è vero che nella polemica fra romantici e classicisti dibattutasi in Italia negli anni Dieci e Venti si schiera con i classicisti. Ma in realtà, non è nemmeno un classicista, è un isolato.  

Ritratto di Giacomo Leopardi
Fonte: redazione

Con lui appare sulla scena letteraria italiana una figura che in seguito ritornerà più volte, quella dell’autore che, stando ai margini o addirittura fuori dei centri e delle tendenze culturali dominanti, riesce, in virtù del suo genio e della sua sensibilità, a esprimere posizioni più avanzate di quelle dei letterati che stanno al centro.

Ne è un esempio Giovanni Pascoli (1855-1912), poeta sradicato e isolato che nelle sue poesie più riuscite insegue impressioni paesaggistiche e si immerge nei ritmi e nei riti della vita agricola in un’epoca nella quale la letteratura europea si misurava con i temi del progresso industriale e del ruolo dell’arte all’interno della trionfante società borghese. Un poeta, dunque, che riflette l’arretratezza economica, sociale e culturale di allora, ma che, ciò nonostante, riesce ad attingere vette poetiche degne della più alta lirica europea. 

Altro esempio significativo è quello di Italo Svevo (1861-1928) per la narrativa: vive e opera a Trieste, lontano dunque dai centri culturali più vivaci come Milano, Firenze o Roma, ma questa sua perifericità sembra quasi aiutarlo a scrivere romanzi innovativi e in linea con le più avanzate esperienze della narrativa europea. 

La biblioteca di casa Leopardi
Fonte: ansa

Negli anni della sua formazione Leopardi viveva a Recanati, una cittadina alla periferia del già di per sé periferico Stato della Chiesa. Recanati non aveva una vita culturale, era estranea ai dibattiti intorno alle nuove forme letterarie che si svolgevano a Milano o a Firenze, non conosceva i fermenti politici che agitavano gli intellettuali impegnati nella polemica tra classicisti e romantici. L’unico strumento a disposizione di Leopardi per formarsi una cultura era la ricca biblioteca di suo padre, e quindi, più che sui moderni si era formato sui classici greci e latini. Solo in seguito, era venuto a contatto con la moderna cultura borghese (soprattutto a Milano e Firenze), ma a essa si era sempre sentito estraneo.  

Eppure, è uno dei pochi intellettuali italiani prima dell’Unità in linea con la cultura europea dell’epoca.

2La vita

Giacomo è un bambino straordinariamente precoce. Per molti anni si dedica intensamente agli studi nella ricca biblioteca che il padre Monaldo aveva raccolto nel palazzo di Recanati. 

Casa Leopardi a Recanati
Fonte: ansa

Sono gli anni che lui stesso definirà «di studio matto e disperatissimo». Acquisisce una così profonda conoscenza delle lingue e delle culture antiche (latine, greche ed ebraica) da essere considerato un filologo classico di livello europeo.

È tramite questi studi che arriva a concepire il mito, a cui resterà a lungo fedele, dell’antichità come età felice dell’uomo, di un’epoca cioè nella quale gli uomini, non corrotti dalla conoscenza, vivendo in simbiosi con la natura potevano coltivare le loro illusioni sulla vita e sul mondo, alimentarsi di immaginazioni, nutrire forti sentimenti ed esercitare la virtù.

Nel biennio 1815-16 accanto all’interesse per gli studi eruditi e filologici si fa sempre più forte quello per i valori artistici e per letteratura, anche contemporanea: Leopardi parla di «conversione dall’erudizione al bello».

Il colle dell'Infinito
Fonte: ansa

Nascono così i primi esperimenti poetici, che culmineranno nel 1818 con le due canzoni ‘patriottiche’ (All’Italia, Sopra il monumento di Dante), nelle quali sostiene che l’esempio degli antichi può risvegliare l’Italia dall’inerzia morale, culturale e politica in cui è caduta, e nel 1819 con i primi ‘idilli’ (L’infinito, Alla luna).   

E nascono anche i primi tentativi di inserirsi nel dibattito culturale prendendo posizione nella polemica fra i classicisti e i romantici. Questo interesse è stimolato anche dall’amicizia che nel 1816 stringe con Pietro Giordani, un letterato classicista tra i più importanti di quegli anni.

Il 1819, segnato da un tentativo di fuga da Recanati per andare a Roma, capitale dello Stato, dalla crisi del rapporto con la famiglia e da una profonda depressione, è un anno di volta, di «conversione filosofica» secondo lo stesso Leopardi.

Egli elabora una visione sempre più pessimistica della condizione dell’uomo nella storia, condannato all’infelicità proprio dall’avanzare della conoscenza e del progresso, e dello stato non riformabile della società, mentre in lui si fa più acuto e doloroso il sentimento di essere un escluso.

Idee e sentimenti che trovano espressione nelle poesie scritte a partire dal 1820, in particolare nelle ‘canzoni’, e nei pensieri di vario argomento annotati su una specie di diario intellettuale che Leopardi intitola Zibaldone.  

Dopo il 1823 per alcuni anni non scrive più poesie e si dedica soprattutto a comporre prose satiriche e filosofiche poi raccolte sotto il titolo di Operette morali.  

A parte un deludente soggiorno a Roma fra il 1822 e il ’23, Leopardi lascia Recanati nel 1825: prima abita a Milano, dove lavora a progetti editoriali presso l’editore-stampatore Angelo Stella, poi a Bologna, e infine, nel ’27, si trasferisce a Firenze.

In questa città rimane (tranne un soggiorno a Pisa nell’inverno 1827-’28, un rientro a Recanati di 16 mesi fra il ’28 e il ’29, e un viaggio a Roma fra il ’31 e il ’32) fino all’ottobre del 1833. A Milano e, soprattutto, a Firenze entra in contato con alcuni dei più vivaci ambienti culturali e politici del suo tempo.

Litografia dello scrittore Giovan Pietro Vieusseux (1779 – 1863)
Fonte: ansa

Il legame che a Firenze stringe con il gabinetto di lettura diretto da Giovan Pietro Vieusseux e con il gruppo di intellettuali legato alla rivista «Antologia» lo inserisce tra i circoli liberali toscani. Eppure Leopardi si mostra ostile ai nuovi strumenti di comunicazione rappresentati dalla stampa e dall’editoria popolare, alle scienze sociali quali la statistica e l’economia, e sostanzialmente estraneo ai movimenti politici liberali e progressisti. Non condivide né l’idea di progresso sociale né quella di allargare la cultura e la conoscenza a cerchie più ampie.

Nel 1828 ritorna alla poesia, che non abbandonerà più, e nel 1831 pubblica la prima edizione dei Canti.  

La critica all’idea di progresso e alle illusioni dei liberali si fa ancora più aspra nell’ultimo periodo di vita, trascorso a Napoli dal 1833 in compagnia dell’amico Antonio Ranieri.

Nel frattempo si è radicalizzato anche il suo pessimismo, che adesso poggia su una concezione materialistica dell’esistenza. Ecco dunque che alla critica ai liberali si associa la satira di quelli che egli chiama «nuovi credenti», vale a dire i letterati cattolici napoletani.

Nella sua ultima poesia, La ginestra, si affaccia però una idea nuova: gli uomini devono lasciare la presunzione di potersi opporre al potere della natura, riconoscersi deboli e proprio perciò, invece di combattersi tra loro, unirsi solidali contro il vero nemico, quel potere cieco che li domina.   

3Il pensiero filosofico

Se lo giudichiamo con un metro politico, è evidente che Leopardi non appartiene al movimento rinnovatore di stampo liberale promosso dalla borghesia più avanzata. Ciò non significa che egli sia un reazionario, cioè che aspiri a ritornare ritorno al vecchio ordine politico-sociale spazzato via dalla Rivoluzione francese. La sua avversione alle conquiste tecnologiche, scientifiche e democratiche è perfettamente coerente con i principi di fondo della sua concezione filosofica della vita. La visione leopardiana dell’uomo, della storia e della natura, pur mantenendo una impostazione pessimistica di fondo, evolve nel corso degli anni. Schematicamente, si possono distinguere due grandi fasi. A differenziarle è una diversa o, meglio ancora, opposta concezione della natura, e di conseguenza dei rapporti fra natura, esistenza e civiltà.    

Nella prima fase la natura si presenta come una madre benefica che ha donato agli antichi (e alle popolazioni primitive rimaste in età moderna) sentimenti forti, passioni, ideali e una grande capacità immaginativa, dalla quale si originano le illusioni, cioè le immaginazioni e le credenze senza le quali, secondo Leopardi, «non c’è vita né azione»: agli antichi, dunque, la natura ha dato una vita piena, degna di essere vissuta.

Ma poi sono intervenuti la razionalità, la conoscenza, il progresso scientifico che, gradatamente, hanno ucciso la fantasia, le credenze mitiche e con ciò inaridito ogni fonte di piacere creando un mondo di individui votati all’infelicità. La civiltà moderna nasce dal distacco dell’uomo dalla natura, dalla perdita della piena comunanza tra uomo e natura. L’infelicità dell’uomo moderno, pertanto, è un portato della storia, della sua evoluzione: tradendo la sua naturalità, l’uomo ha perso ciò che aveva di più prezioso.

In questa prima fase Leopardi, in modo del tutto autonomo e indipendente, si mostra in forte consonanza con il pensiero romantico tra Sette e Ottocento. Anche Leopardi dà voce alla frustrazione dell’uomo moderno. Il mondo del lavoro sempre più invadente, la vita in agglomerati urbani che impediscono la socializzazione, la necessità di circoscrivere il proprio lavoro in ambiti specialistici fanno sì che l’uomo moderno si senta alienato, diviso, non più padrone fino in fondo di sé stesso e delle proprie azioni. A questa sensazione di perdita della totalità, del rapporto pieno e appagante con gli altri uomini e con la natura, i romantici contrapponevano la nostalgia per un mitico passato. Anche per Leopardi l’epoca della sintonia vitale dell’uomo con la natura è quella degli antichi. In genere si etichetta questa prima fase come quella del “pessimismo storico”.

In seguito, attraverso un percorso nel quale si incrociano esperienze esistenziali e scoperte di tipo intellettuale, come quella dell’esistenza di correnti pessimistiche già nell’antica Grecia, Leopardi approda a una visione del tutto diversa: la natura diventa una madre cattiva, una matrigna. È la fase che viene definita del “pessimismo cosmico”. 

In questa fase Leopardi segue una strada filosofica originale, tutta sua: non cerca più la totalità, l’abbraccio con la natura che solo dà la felicità. È arrivato infatti alla convinzione che l’uomo non sia mai stato felice nella sua storia e ciò non perché il progresso della conoscenza lo ha allontanato dalle illusione dell’età antica, ma perché quella felicità non è mai esistita: non c’è mai stata la fusione felice con la natura. L’uomo non è che una entità senza scopo in un universo retto da leggi meccaniche privo anch’esso di scopo e finalità. Il genere umano e tutte gli altri esseri viventi non hanno uno scopo diverso da quello di conservare la specie, la vita universale. La natura, dunque, non è più, come nella prima fase del pensiero leopardiano, una entità quasi divina, che interviene in positivo o in negativo sulla sorte degli uomini.

La natura è solo un insieme di leggi fisiche rispetto alle quali il destino degli uomini è del tutto insignificante. L’infelicità, quindi, non è un accidente della storia, ma la condizione ineliminabile di ogni vivente, e come tale non può essere né arginata, né superata: è senza fine e senza senso. Non c’è progresso né miglioramento possibile, non c’è vita oltre la morte, non c’è possibilità di trovare senso all’esistenza.

La nobiltà dell’uomo, la sua vera forma di eroismo, consiste nel riconoscere questa verità, nell’accettare la propria condizione rinunciando alle consolazioni della religione e alla illusione che lo sviluppo delle conoscenze possa condurlo alla felicità. Leopardi diventa in tal modo l’unico poeta-pensatore italiano che esprima una visione coerentemente materialista dell’esistenza umana.

Leopardi non dedica libri specifici a illustrare il suo pensiero filosofico, ma ne fa un ingrediente indispensabile di ogni suo scritto, comprese le poesie. Tuttavia due opere, lo Zibaldone e le Operette morali, lo espongono, se non in maniera sistematica, in modo più esteso e articolato. 

Lo Zibaldone, cioè ‘mescolanza’, ‘guazzabuglio’, è una imponente raccolta di considerazioni e pensieri relativi a questioni filologico-erudite, linguistiche, letterarie, filosofiche, nonché di abbozzi poetici, pagine saggistiche, note psicologiche e autobiografiche. 

Due verità che gli uomini generalmente non crederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non essere nulla. Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non aver nulla a sperare dopo la morte. (Zibaldone, 1832)

Una specie di ‘diario intellettuale’, dunque, che Leopardi ha tenuto fra il 1817 e il 1832. Gli indici e i rimandi interni che vi ha apposto rivelano che il disordine e l’estemporaneità delle annotazioni sono solo apparenti, ma che in realtà i pensieri, soprattutto estetici e filosofici, formano un insieme organico.

Le Operette morali sono costituite da 24 prose di breve dimensione, molto varie per stile e struttura, in grande maggioranza scritte durante il periodo del silenzio poetico, fra il 1824 e il ’28. A unificare testi che si presentano diversi tra loro è il fatto che essi espongono i temi più importanti del maturo pensiero filosofico di Leopardi, sia quelli relativi al rapporto tra uomo e natura (come nel Dialogo della Natura e dell’Islandese) sia quelli relativi al rapporto tra l’uomo contemporaneo e la società moderna (come nel Dialogo di Tristano e di un amico). 

4Le idee sulla poesia

L’età borghese, razionalista, devota alle verità della sola scienza, ha inaridito la capacità umana, di cui gli antichi ancora godevano, di immaginare realtà illusorie dalle quali ricavare il piacere di vivere e lo stimolo a operare. La noia, il tedio, cioè l’incapacità di godere della vita e di provare felicità adesso regnano sovrani.

Fonte: istock

L’uomo moderno, però, può sperimentare qualcosa di simile allo stato di grazia degli antichi nella sua infanzia, quando la ragione e la conoscenza sono sovrastati dall’immaginazione e dalla fantasia. All’uomo adulto resta un solo strumento per avvicinarsi, almeno in parte, a quella condizione, la poesia.

Solo la poesia, infatti, può appagare, per quanto in modo provvisorio e parziale, il bisogno innato in ogni uomo del piacere, della felicità. Bisogno che, in ultima analisi, è un bisogno di assoluto. Il desiderio del piacere, infatti, è infinito, sia perché non cessa mai nel corso della vita sia perché non è il desiderio di un oggetto particolare, ma del piacere in sé. Ne consegue che un piacere particolare non può soddisfarlo, perché risponde con qualcosa di finito a una richiesta infinita. Solamente l’immaginazione, capace di creare infiniti illusori, può appagarlo, come avveniva per l’appunto ai popoli antichi. Presso i popoli civilizzati è la poesia il solo veicolo rimasto per esaudire in parte quel desiderio, e questo perché essa attiva l’immaginazione.

Lo fa soprattutto creando sensazioni vaghe e indefinite, che in quanto indeterminate esulano dalla conoscenza razionale e suscitano illusioni. Fondamentali diventano allora le scelte formali.

La principale consiste nell’usare parole che si distacchino dal lessico tecnico-scientifico e che non si riferiscano in modo univoco e preciso agli oggetti che denotano, ma capaci di convogliare un insieme vago di senso, che Leopardi chiama “idee accessorie”.

Altrettanto importante è l’uso di accostamenti nuovi e inusuali, che Leopardi chiama “ardiri”, capaci di mettere in moto l’immaginazione.

La "teoria del piacere", che è il punto di aggancio delle riflessioni di estetica a quelle filosofiche, continuerà a occupare un posto centrale nel pensiero di Leopardi, anche quando l’immagine della natura avrà cambiato segno e sarà diventata negativa: allora, anziché insistere sul potere benefico delle illusioni, garantito dalla natura agli antichi e ai fanciulli, Leopardi insisterà sul carattere illusorio e vano del piacere: il piacere è un puro fantasma, un oggetto chimerico, e la sola realtà è quella della sofferenza fisica e della noia. Della felicità, però, resta, inestinguibile, il desiderio.

5I Canti

Il libro dei Canti – pubblicato la prima volta nel 1831, poi, accresciuto, nel ’35 e infine nel 1845, dopo la morte dell’autore, curato dall’amico Ranieri con l’aggiunta delle ultime poesie – contiene quasi tutte le poesie liriche di Leopardi. 

Questo libro rappresenta una novità nella tradizione italiana, a cominciare dal titolo: Canti, in effetti, non significano “canzoni”, ma indicano semplicemente che i testi raccolti sono componimenti lirici, a prescindere dalle loro specifiche caratteristiche metriche e stilistiche (canzoni, idilli, canzoni libere). I titolo, insomma, indica che il principio intorno al quale si organizza la raccolta non è, diversamente da quanto avveniva nella maggior parte di quelle anteriori, di carattere metrico e stilistico. 

Siccome nel libro confluisce quasi tutta la produzione poetica leopardiana e siccome Leopardi ha sperimentato molte maniere poetiche diverse, i Canti si presentano assai sfaccettati sia nei temi sia nelle forme metriche sia nello stile. Non per caso, dunque, i 41 componimenti dell’edizione definitiva sono raggruppabili in sezioni ciascuna delle quali è fornita di una sua fisionomia particolare.

Il libro si apre con un gruppo di nove canzoni (fra cui All’Italia e l’Ultimo canto di Saffo) unificate dalla forma metrica, dalla scrittura retoricamente complessa e, soprattutto, dal fatto che, complessivamente, esse dipanano il tema del dilagare dell’infelicità a causa del progressivo e inarrestabile distacco dell’uomo dalla felice fusione con la natura. 

Seguono (preceduti dal Passero solitario di incerta datazione) cinque idilli, in endecasillabi sciolti, cioè non rimati, nei quali il discorso eminentemente filosofico e incentrato sull’uomo in generale si trasforma nell’analisi, condotta con stile vago e indefinito, di esperienze interiori del soggetto che dice io, come quelle dell’Infinito, della Sera del dì di festa, di Alla luna. Questi due gruppi contengono testi quasi tutti scritti prima del 1823.  

I "canti pisano-recanatesi" (un tempo chiamati anche "piccoli idilli" in opposizione-continuità con i "Grandi idilli" precedenti) sono i componimenti scritti tra Pisa e Recanati, dopo il lungo silenzio poetico, fra il 1828 e il 1830: tra essi, A Silvia, Canto notturno di un pastore dell’Asia, Il sabato del villaggio. Si tratta di poesie lirico-filosofiche nelle quali i due soggetti che nelle canzoni e negli idilli si presentavano distinti (il noi rappresentativo dell’uomo in generale nelle canzoni e l’io esistenziale degli idilli) si unificano in un io che parla di "noi tutti". Per la prima volta Leopardi sperimenta quello che sarà la sua forma metrica più caratteristica, la canzone libera, una canzone cioè le cui strofe sono di lunghezza variabile e non hanno vincoli di rima. 

Con il nome di "canti fiorentini" si intendono le poesie di argomento amoroso scritte a Firenze negli anni 1830-’33; sono detti anche "ciclo d’Aspasia" dal nome di un’etera greca che Leopardi attribuisce alla donna che aveva scatenato il lui la passione (ma la poesia intitolata Aspasia è stata scritta a Napoli). L’amore è l’ultima illusione che ancora accende Leopardi, ma ben presto segue un amaro disinganno e il riconoscimento che tutto è vano (A se stesso).  

L’ultima sezione è costituita dai "canti napoletani", composti nell’ultimo periodo di vita. Li accomuna un’impostazione impersonale, universale e filosofica nella si esprime la nuova concezione materialistica dell’esistenza.  

La ginestra è un vero e proprio poemetto filosofico, nel quale discorso soggettivo e discorso filosofico si compenetrano in una sintesi superiore: una nuova forma di poesia, una "poesia-pensiero" che non è paragonabile nemmeno con gli stessi precedenti leopardiani. 

5.1Il racconto poetico del pensiero leopardiano

Il libro dei Canti, dunque, è una sorta di summa delle diverse fasi stilistiche e concettuali attraversate dalla poesia leopardiana nell’arco di quasi un ventennio; eppure, nonostante l’apparente disorganicità, esso dà l’impressione di essere una costruzione unitaria.  

Tale percezione scaturisce in primo luogo dal fatto che i componimenti vi sono disposti rispettando grosso modo l’ordine cronologico di composizione, se non dei singoli testi, per lo meno dei singoli insiemi stilistico-tematici nei quali possono essere raggruppati, e ciò fa sì che il libro si presenti come un percorso o, meglio ancora, come un racconto: il racconto poetico della storia del pensiero leopardiano.  

Si passa da una prima fase, rappresentata dal gruppo delle canzoni, nella quale Leopardi delinea, prima, il progressivo cadere dell’umanità dalla felicità primitiva nell’infelicità moderna e poi argomenta come anche la felicità primitiva non sia mai esistita, sia solo una illusione, a una fase, rappresentata dagli idilli, incentrata sulla sua personale infelicità. Il blocco delle canzoni pisano-recanatesi fonde entrambi i discorsi nella considerazione che l’infelicità personale dell’autore è parte del più generale destino dell’uomo. Con i canti fiorentini ogni illusione, su sé stesso e sull’umanità, è definitivamente caduta. Solo alla fine del percorso, con i canti scritti a Napoli, si affaccia l’idea che gli uomini possono reagire e allearsi fra loro, se non per cambiare, almeno per mitigare il loro destino doloroso.

La componente speculativa è l’altro decisivo elemento unitario della raccolta. Questa è percorsa da una costante tensione conoscitiva che, in molti casi, si fa riflessione filosofica vera e propria. Nella storia della poesia italiana una lirica filosofica già di per sé rappresenta una grande novità; la novità appare straordinaria se si pensa che la poesia non è per Leopardi un involucro per trasmette idee sulla vita e sul mondo elaborate in altra sede, cioè una bella forma da applicare a un duro contenuto, ma è essa stessa impastata di pensiero, è poesia-pensante

Sul piano formale la più grande innovazione introdotta da Leopardi è l’apertura delle forme metriche attraverso l’invenzione della canzone libera, cioè di un componimento non vincolato dalla ripetizione di stanze della stessa misura e con lo stesso schema metrico, ma articolato in unità (lasse) di numero e lunghezza variabile, giocate su una libera disposizione di rime.  

Al livello dell’impostazione discorsiva l’invenzione di quello che viene definito "io lirico" rappresenta il dato più moderno della poesia leopardiana, quello che più l’avvicina alle esperienze avanzate del lirismo romantico europeo. L’io che parla in molti testi leopardiani è un io individuale ma non strettamente autobiografico, non è cioè una mera proiezione dell’autore; racconta esperienze soggettive non generalizzabili nel loro contenuto, mettendo in scena però i processi di coscienza, questi sì generalizzabili, innescati da quelle esperienze: è un io, dunque, che può essere sentito come un noi.

6La fortuna

Leopardi non ha goduto di grande fortuna né nei suoi anni né per parecchi decenni dopo. Il suo pessimismo sembra fatto apposta per dispiacere a tutti: ai liberali-progressisti, fautori della modernizzazione e del progresso, per la negazione di ogni idea di miglioramento dell’uomo che esso contiene; ai cattolici e agli spiritualisti in generale per i suoi fondamenti materialistici. La cultura italiana ha fatto a gara per cercare di neutralizzare o quanto meno rendere più innocue, le punte del suo pensiero.

Il mito della "vita strozzata" è stato usato sia contro il pensatore, pessimista perché condizionato dalla sua triste condizione esistenziale, sia, in fondo, anche contro il poeta, che raggiungerebbe i momenti più alti quando riesce a svincolarsi dal pessimismo.

Gabriele D'Annunzio
Fonte: ansa

La lezione dei Canti comincerà a essere recepita solo verso la fine dell’Ottocento da poeti come Giovanni Pascoli e Gabriele d’Annunzio, per poi esercitare una grande attrattiva su molti lirici del Novecento.  

In questo secolo si sviluppa una linea leopardiana che, partendo per l’appunto da Pascoli, arriva a toccare poeti come Guido Gozzano, Umberto Saba, Vincenzo Cardarelli, Eugenio Montale.  

L’apprezzamento del Leopardi filosofo, iniziato nel secondo dopoguerra, è poi enormemente cresciuto, tanto che oggi sembra perfino sovrastare quello per il poeta.  

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