Leopardi: classico o romantico?

Leopardi: classico o romantico? La poetica e il tentativo di Leopardi di inserirsi nel dibattito tra classicisti e romantici avvenuto nell'Ottocento

Leopardi: classico o romantico?
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LEOPARDI: CLASSICO O ROMANTICO?

Leopardi: classico o romantico?
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Giacomo Leopardi seguì con interesse il dibattito tra classicisti e romantici dell'800 anche se non partecipò mai attivamente.

Leopardi fece due tentativi: il primo fu nel 1916 con la Lettera ai redattori della "Biblioteca italiana" e il secondo fu nel 1918 con il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.

I due scritti però non vennero pubblicati e non poterono quindi incidere sul decorso del dibattito.

Col Discorso Leopardi si schierava dalla parte dei classicisti e, nel contempo, sferrava un pericoloso attacco contro la poetica romantica; tuttavia nella lettera usò argomentazioni sottili, ma poco radicali: questo spiega la mancata pubblicazione del Discorso, assieme alla quasi nulla notorietà dell'autore in un gruppo che vantava il fior fiore del mondo letterario dell'epoca.

Leopardi da una parte sostiene che la poesia classica sia stata più naturale, espressa in un linguaggio spontaneo e non contaminato dal razionalismo moderno; dall’altra attacca il carattere rivoluzionario del Romanticismo.

Leopardi sostiene che, ben lontano dal proporre svolte decisive, il nuovo movimento o fa scalpore per nulla (il rifiuto della mitologia e delle unità aristoteliche per esempio, avevano generato una polemica sproporzionata rispetto alla loro effettiva incidenza e presenza nella letteratura contemporanea), oppure si limita a riproporre temi e motivi, come il patetico, conosciuto e utilizzato dagli artisti antichi con molto più gusto di quanto non mostrassero di fare i romantici.

Chiaramente, la parte "positiva" del Romanticismo non si limitava, come Leopardi dà a credere, alla proposta del patetico, ma nel rilevarlo il poeta mostra una particolare sensibilità verso tale aspetto:

"[i romantici] distinguono [il patetico] con ragione dal trito e lugubre o sia dal malinconico proprio, quantunque esso patetico abbia ordinariamente o sempre un colore di malinconia [...].Patetico vuol denotare quello che comunemente con voce moderna se guardiamo al tempo, se guardiamo all'uso antichissimo, si chiama sentimentale".

Il poeta recanatese dunque da una parte è troppo "tiepido" per piacere ai classicisti, e dall'altra è troppo classicista per piacere ai Romantici.

Se a livello teorico egli si definisce senz'altro classicista e anti-romantico, su quello pratico tenta o progetta di tentare vari generi non sempre e solo classici: dalle canzoni civili a quelle lugubri-cimiteriali, dal romanzo autobiografico alle novelle psicologiche, dagli inni sacri all'idillio.

Di fatto però i due generi intrapresi nel 1818-19 e continuati fino a tutto il 1922 sono la canzone e l'Idillio.

LA LINGUA DELLA POETICA: I MODELLI DELLA CANZONE E DELL'IDILLIO

La conquista di una lingua poetica in grado di sostenere la complessa articolazione del proprio pensiero rappresentò per Leopardi un processo di svolgimento graduale, in stretto rapporto con la tradizione dantesca e petrarchesca, fino a una matura soluzione stilistica originale, decisamente innovativa rispetto alla conformità dei normali parametri metrici.

In questo senso ebbe grande rilevanza il nuovo assetto che egli propose nei confronti del modello della canzone, fino ad allora legata al rigoroso schematismo petrarchesco.

Il sempre più frequente uso dell'endecasillabo sciolto e la frammentazione lirica del discorso (Leopardi non rinunciò mai al carattere lirico della poesia, ponendosi apertamente in contrasto con la tendenza romantica, che al contrario operò scelte chiaramente popolari e più vicine a una funzione civile della poesia), aprirono la strada alla completa liberazione di un messaggio  esistenziale, nettamente in anticipo sui tempi della rivoluzione poetica attuata dai simbolisti della fine dell'Ottocento.

Per quanto riguarda la ricerca stilistica, Leopardi, attraverso un lavoro di attenta revisione dei testi, elabora un linguaggio piano ed essenziale, apparentemente spontaneo ma estremamente letterario e ricercato.

Lo stesso si può dire per quanto riguarda il ritmo e la musicalità dei versi liberi, dietro i quali traspare una tradizione poetica classica e moderna, da Omero a Petrarca, da Tasso a Ossian e a Monti, ma rivissuta in modo così intenso e personale dal poeta da diventare uno strumento espressivo del tutto nuovo.

Le innovazioni maggiori riguardano però l'idillio che, di fatto, diventa genere diverso rispetto a quello tradizionale. L'idillio classico era un piccolo componimento poetico a tema egreste e pastorale, ed era per lo più una rappresentazione bipolare: l'uomo posto di fronte alla natura in un atteggiamento contemplativo e meditativo che mirava all'armonia.

Il modello leopardiano ha di quello antico solo l'apparenza e lo spunto iniziale, infatti la sua rappresentazione è sostanzialmente monopolare: la natura è svuotata dalla sua intima consistenza e diventa, per così dire, spazio vuoto destinato ad accogliere e amplificare i sentimenti del poeta.

In altri termini non è più rappresentazione ma espressione di particolari sentimenti dell'autore: "idilli esprimenti situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo" (Disegni letterari, 1828).

Così la produzione degli anni 1819-1822 si dispone su due linee chiaramente distinte: da una parte le canzoni che, pur con le innovazioni, restano sostanzialmente in ambito neoclassico, e dall'altra l'idillio che invece, profondamente mutato, si colloca nell'ambito della poetica romantica.

Sullo Zibaldone Leopardi fissa in tre aggettivi i caratteri essenziali del nuovo linguaggio poetico necessario per la realizzazione dell'idillio:

  1. Vago. La "vaghezza" è collegata alla sua divisione in termini e parole: i termini danno al discorso efficacia e immediata chiarezza, poiché essi definiscono l'oggetto in tutte le sue parti, ma sono sostanzialmente "aridi". Le parole invece sono molto meno comunicative ma sono più "evocative" e poetiche.
  2. Sonoro. La "sonorità" è data dall'abbondanza e dall'incontro delle vocali (ossia dei suoni, poiché le consonanti sono considerate rumori). Il poeta si deve dunque ingegnare a curare e, possibilmente accrescere la sonorità della lingua poetica unendo quante più vocali possibili (es. porgea anziché porgevo, splendea per splendeva etc.).
  3. Peregrino. La terza qualità è collegata all'uso delle parole. Nel testo poetico è bene affiancare parole d'uso frequente ad altre rare e inusuali (come possiamo trovare in A Silvia: "D'in su i veroni del paterno ostello" per dire "dai balconi della casa paterna"), per evitare di dare un'aria "volgare" alla poesia.

Il problema che si pone Leopardi è dunque tutt'altro che semplice, poiché si tratta di "rivisitare" il linguaggio poetico tradizionale per adattarlo alla nuova sensibilità.

L'INFINITO: LA POETICA DELL'INDETERMINATEZZA

Composto nel 1819, nel momento più profondo della crisi giovanili, L'infinito è considerato, insieme con Alla luna, la prima compiuta manifestazione poetica leopardiana, quella in cui l'immaginazione del poeta si esprime in forma breve e perfetta, lontana ormai dal gusto erudito e dai toni retorici che avevano caratterizzato alcuni componimenti precedenti.

Il tema centrale è un evento interiore, un processo del pensiero che, per immagini e fantasie, giunge all'intuizione dell'infinito.

Un fatto inconsueto in Leopardi è dato dalla mancanza assoluta d'ogni riferimento all'occasione della poesia: L'infinito è dunque un testo dell'indistinto geografico e cronologico.

L'ambientazione è del tutto essenziale, quasi scheletrica e tratteggiata in maniera sommaria: il disegno del paesaggio non è dunque indispensabile a ricreare la situazione emotiva; la siepe è un ostacolo che priva la vista di uno sguardo certo sul mondo e sulla natura, ed essa funziona come limite statico da cui muovere attraverso l'immaginazione.

Da questo punto di vista la poesia risulta una proiezione, un vero e proprio viaggio mentale nello spazio e nel tempo. I sovrumani silenzi e la profondissima quiete rappresentano anzi due elementi centrali della teoria del piacere:

"il solo stato di quiete e d'inazione sì frequente e lungo nel selvaggio (insopportabile al civile) è certamente un piacere" (Zibaldone).

Nell'Infinito il pensiero parla grazie ai silenzi e alla quiete che il poeta vive nel momento in cui viene privato della vista oltre la siepe: anzi è proprio questo momento di crisi che gli apre la possibilità di figurare immagini, allusioni, suoni al di là di quella barriera.

Il silenzio va quindi inteso come un invito all'ascolto, come atmosfera in cui il pensiero guarda ascoltando: per indicare l'azione del guardare Leopardi non adopera termini anonimi o generici, ma dice invece "mirando", "nel pensier mi fingo", "mi sovvien".

Il pensare per mezzo della visione consiste nel cogliere, nel penetrare un'idea e una sensazione, quindi nel costruire il pensiero attraverso la finzione figurata, metaforica e simbolica, infine nel tornare alla mente e nel ricordare.

Il desiderio della vaghezza e dell'indefinito spinge il poeta a ricordare e a costruire nella mente una situazione di naufragio dei sensi, d'abbandono e di fuga davanti alla realtà dolorosa e reale.

La totale assenza di uno schema metrico, l'uso di parole libere di creare associazioni indeterminate, la disposizione dell'aggettivo, l'avverbio iniziale, l'anafora finale della e, tutti questi elementi proiettano il discorso in una rapida sequenza di flashes e suggestioni.

Il ritmo estremamente concentrato nel giro breve di quindici versi è scandito dal contrasto tra il guardare e il vedere, entrambi assenti in quanto azioni capaci di suscitare una percezione concreta, ed entrambi presenti nella semantica di sedendo e mirando... io nel pensier mi fingo, cioè nella continuità temporale dell'evento: all'assenza di movimento che si può individuare nei primi versi e nei verbi sedendo e mirando, si contrappone il movimento mentale, lo scambio che si attua nel pensiero tra immagine ferma e immagine in movimento.

L'infinito è una struttura metrica e semantica in cui gli elementi dello stile evidenziano segni ideologici e tematici, una lirica in cui lessico e sintassi sono funzionali all'elaborato mentale e filosofico che presiede all'ordinamento del tessuto linguistico.

La stessa dialettica filosofico-letteraria che Leopardi definisce in questo testo attraverso l'antinomia infinito-indefinito, è giocata essenzialmente sui meccanismi conoscitivi dell'immaginazione (cui il poeta riconosce una "facoltà conoscitrice") e sul desiderio di piacere assoluto, anch'esso prodotto dalla "naturale inclinazione dell'uomo all'infinito".

L'indefinito è una situazione poetica a priori: nello Zibaldone Leopardi scrive infatti che:

"circa le sensazioni che piacciono pel solo indefinito puoi vedere il mio idillio sull'Infinito, e richiamar l'idea di una campagna arditamente declive in guisa che la vista in certa lontananza non arrivi alla valle; e quella di una filare d'alberi, la cui fine si perde alla vista, o per la lunghezza del filare, o perch'esso sia posto in declivio. Una fabbrica una torre veduta in modo che ella paia innalzarsi sopra l'orizzonte, e questo non si veda, produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l'indefinito" (Zibaldone, 1 agosto 1821).

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