Le Grazie di Ugo Foscolo: testo e parafrasi

Testo e parafrasi de Le Grazie, il poema incompiuto di Ugo Foscolo scritto per il famoso scultore neoclassico Antonio Canova che stava lavorando al gruppo marmoreo delle Grazie.
Le Grazie di Ugo Foscolo: testo e parafrasi
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1Le Grazie: genesi di un poema incompiuto

Ugo Foscolo
Fonte: getty-images

Questo carme, che sarà rimaneggiato da Foscolo per tutta la sua vita ma che è destinato a rimanere incompiuto, inizia ad essere scritto nel 1803 inserendosi in una moda che vede il tema delle tre muse vivere una certa fortuna ed essere trattato sia sul piano figurativo che letterario; per quest’ultimo aspetto si ricordano la Musogonia di Monti (1793), in cui Giove affida alle Grazie il compito di civilizzare gli esseri umani, e l’Urania di Manzoni, un breve poema che s’incentra proprio sulla figura e il ruolo delle tre dee. 

L’idea foscoliana originaria e s’inserisce esattamente in questo percorso, e ha la suo centro la figura delle tre Grazie come divinità che elargiscono agli uomini i doni fatti loro dagli dèi, al fine di farli uscire dallo stato ferino, e in grado di creare Armonia tra i diversi aspetti della realtà

Ma la stesura vera e propria, cioè della parte più corposa di quest’opera, risale al biennio 1812-1813, e viene ispirata all'autore dal gruppo scultoreo che Antonio Canova stava dedicando alle tre divinità romane e che completerà nel 1814, per questo motivo il poeta decide di dedicargli il componimento; la dedica allo scultore e la ripetuta citazione della sua opera acquistano una particolare rilevanza se si pensa al forte legame che, nell’ideologia neoclassica, doveva esserci tra la poesia e le arti figurative: non è un caso, infatti, che Foscolo dichiari ripetutamente, lungo tutto il poema, di utilizzare la parola per descrivere come un pittore farebbe col suo pennello. 

Questa seconda fase di scrittura è quella più importante e intensa e avviene durante il soggiorno di Foscolo nella villa di Bellosguardo, località vicino Firenze che viene citata più volte nell'arco dell'intera composizione e che è il luogo in cui il poeta edifica l'immaginario altare dove, in compagnia dello scultore, si svolge il rito in onore delle Grazie. 

Rimasto incompleto e mai pubblicato - eccezion fatta per alcuni stralci che vennero resi pubblici nel 1822 quando Foscolo era a Londra - mentre l’autore era in vita, Le Grazie sono andate incontro ad una storia redazionale lunga e complessa, travagliata, e da giudizi critici che, partendo dall’incompiutezza dello scritto, lo hanno spesso considerato come un’opera malriuscita e zoppicante, priva di un qualche valore che non fosse quello meramente estetico e formale.

Questo giudizio è stato ribaltato dalla critica novecentesca che, a seguito di un lungo lavoro di ricostruzione filologica e interpretativa, è riuscita a scorgere le correnti tematiche che percorrono l’intero scritto caratterizzandolo a livello ideologico, fino a definirla come una delle opere più importanti e significative dell’intera produzione foscoliana.

2Struttura interna de “Le Grazie”

Tre Grazie di Antonio Canova
Fonte: ansa

L’opera si compone di tre inni scritti in endecasillabi sciolti, ciascuno dei quali dedicato a una diversa divinità, il primo a Venere, il secondo a Vesta, il terzo ad Atena; i primi due presentano diverse interruzioni e lacune, ma appaiono compiuti nel loro complesso e dotati di filoni tematici che appaiono ricorrenti e che dotano i singoli inni di una certa coerenza interna, mentre il terzo finisce dopo soli 24 versi.

Il primo inno, quello dedicato a Venere, si apre con un proemio che descrive l’argomento di cui tratterà il carme, cioè di un inno dedicato alle tre divinità figlie di Afrodite che serva anche per rallegrare l’Italia afflitto dal dominio straniero; al proemio segue la dedica al Canova, che viene esortato dal Foscolo ad unirsi a lui nella celebrazione del rito in onore delle tre Grazie e descritto dalla sua poesia, e che si tiene presso l’immaginario altare che il poeta ha eretto per le tre divinità, circondato da un dolce corso d’acqua e da diverse specie di piante che danno ombra e rendono profumata l’aria.

Il nucleo centrale del primo inno, però, ruota attorno all’idea, dal vago sapore vichiano, della bellezza e della virtù che civilizzano l’uomo portandolo fuori dal suo stato primitivo e quasi animalesco. Riprendendo un’immagine botticelliana Foscolo racconta di Venere che emerge dal mar Egeo su di un cocchio a forma di conchiglia sospinto dalle Nereidi e da altre divinità marine, e con la dea stanno le Grazie; Foscolo descrive di come gli esseri umani, ancora selvaggi dediti alla caccia e ad altre efferatezze, si fermino e restino a guardare stupefatti lo spettacolo beatifico della comparsa di queste tre divinità.

L’inno si conclude con il ritorno di Venere al cielo, e con la dea che nella sua ascesa affida alle Grazie il compito di portare la specie umana verso la civiltà con i doni che ad essa faranno gli dèi.

Il secondo inno è dedicato alla dea Vesta, una delle divinità romane più arcaiche e nume tutelare della casa, ed è l’inno che presenta la redazione più completa e internamente coerente.

Foscolo descrive la scena di un rito che si svolge presso quel fantastico altare di Bellosguardo che aveva già descritto nel primo inno, ad officiarlo ci sono tre donne amate dal poeta: Eleonora Nencini, Cornelia Rossi Martinetti e Maddalena Marliani Bignami, che impersonano rispettivamente l’arte della musica, quella della poesia e della danza.

Le tre donne rappresentano perciò, su un piano assolutamente allegorico, la bellezza dell’arte pura, capace di dare beatitudine agli uomini sintetizzando i vari aspetti contrastanti della realtà in un unicum armonico che si muove su un piano differente da quello immediatamente reale.

Questo inno apre, perciò, a una riflessione sull’arte e in particolare sulla poesia che, dice in più occasioni Foscolo, non deve essere al servizio dei potenti o cantare le lodi degli uomini che hanno la fortuna dalla loro parte, anzi, aggiunge il poeta, è proprio questo tipo di poesia che non è apprezzato dalle Grazie; al contrario è il verso libero e l’attenzione agli sfortunati che rende la poesia degna.

Monumento a Ugo Foscolo. Statua realizzata da Antonio Berti. Firenze, 1938
Fonte: getty-images

Il terzo inno, dedicato ad Atena, è quello più incompleto. Racconta della fuga delle Grazie dal mondo degli uomini e del loro riparo sull’isola di Atlantide, dove Atena fa cucire per loro un velo che le nasconda dagli sguardi dei profani e dai desideri dei mortali.

Nel suo complesso Le Grazie si presenta come un’opera vasta e complessa, ricca di rimandi dotti, citazioni – in particolar modo alla storia e alla mitologia classica - e nuclei tematici che il poeta affronta e intreccia lungo tutto il corso del carme e che riaffiorano di continuo nel distendersi della narrazione poetica.

Se in un primo momento la critica aveva tacciato quest’opera di formalismo, cioè di essere una mera, per quanto elevata, espressione stilistica, in seguito è stato rilevato come il tema patriottico e la riflessione sulla poesia e il suo ruolo emergessero continuamente articolando dei veri e propri discorsi interni: l’ambientazione mitica e lo scenografia classicista non vengono più, quindi, intese come espressioni di un’ideale di bellezza e perfezione rarefatte e eteree, ma costituiscono piuttosto la cornice di discorsi che hanno un riscontro concreto nella dimensione reale, sia politica che personale, del poeta.

Questa sintesi tra mito e realtà va a formare un’armonia che il poeta concepisce – lo si vede nel corso del secondo inno - come l’unione, su un piano superiore, di elementi contrastanti: questo piano prodotto dalla sintesi armonica, è determinante a definire l’impianto dell’intera opera.

3Le Grazie di Ugo Foscolo: parafrasi

3.1Inno Primo: Venere

Oh Grazie, cantando delle virtù divine
con cui il cielo vi abbellisce, e della gioia
che voi caste date alla terra,
oh, belle vergini! a voi chiedo la misteriosa
armonia del verso capace di dipingere
la vostra bellezza; in modo che all'Italia
afflitta dalla guerra dei re stranieri
voli rapida la mia poesia a rallegrarla.
Nella valle dove le colline si alzano fino al cielo
di Bellosguardo dove io innalzo
fra la quiete dell'ombra di mille
giovani cipressi alle tre dee
un altare cinto di acqua limpida, e un sacro cespuglio di lauri
lo protegge come fosse un tempio, al dolce rito
vieni, oh Canova, e a cantare gl'inni. Al mio cuore ne fece
dono la bella Dea che tu consacrasti
qui sull'Arno, oh custode delle belle arti,
ed essa di luce immortale e di ambrosia
la sua sacra immagine avvolse.
Forse (io lo spero!) oh creatore di dèi,
insieme a me darai nuova vita a quelle Grazie
che ora per mano tua escono fuori dal marmo: anch'io
dipingo, e do vita alle immagini che creo;
e disprezzo quella poesia la cui melodia non è in grado di creare;
perché Apollo mi disse: io per primo Fidia
ed Apelle ispirai con la mia cetra.
Già c'erano l'Olimpo e Giove e il Fato
e il tridente di Nettuno faceva tremare
la Terra creatrice; Amore dalle stelle
colpiva Plutone: ma ancora non c'erano le Grazie.
Una dea correva per tutto il creato
e lo fecondava ed era chiamata Natura
un nome austeri; Tra gli dèi siede ora
su cento troni, e con tanti nomi e altari
la venerano i mortali, e più di tutti le piace
quel canto che la chiama bella Citerea.
Perché compassionevole verso di noi, che vide addolorati
affaticarci, e carichi d'ira, un giorno la sacra
Dea uscì da quelle onde dove s'immerse
per dar vita al gregge di Neréo
e apparve con le Grazie; e le accolse
per primo il mar Ionio, la cui onda amica
della bella costa ospitale e muschiosa
dall'isola di Citera ogni giorno arriva amorosa
ai miei colli natali: lì quando ero fanciullo
adorai la dea Venere.
Salve, Zacinto! alle terre venete
ultimo rifugio dei sacri lari di Troia
e dei miei antenati, darò i miei versi e i miei resti
e a te il pensiero, poiché non parla con affetto
a queste dee chi dimentica la patria.
Zacinto è una città sacra. Si ergevano i suoi templi
e sulle sue colline l'ombra dei boschi era
sacra all'onore di Diana e alla sua corte,
prima che Nettuno al traditore Laomedonte
desse torri gloriose in guerra per difendere Troia.
Bella è Zacinto. Sulle sue coste versano ricchezze
le navi inglesi; su di lei dall'alto invia
i suoi raggi vitali l'eterno sole.
Giove le concede nuvole bianche
E grandi boschi d'ulivi, e le generose
coltivazioni di Liéo; una salute in fiore
è la promessa di quell'aria che fa crescere fiori spontanei
e rigogliosamente perpetui i cedri.
Tutto quel mare splendeva quando sostenne
sedute sulla conchiglia, e vezzeggiate
da Venere le Grazie; e sulla cresta dell'onda
come alla prima folata di Zefiro
gli sciami di dolci api arrivano
in massa ronzando come in gara l'una con l'altra
formando come lunghi grappoli sospesi in aria
svolazzano su fori come fossero calici colmi di nettare
e il loro cuore è contento del miele che faranno,
allo stesso modo sul pelo dell'onda spumosa
ardivano a mostrarsi per metà con il petto nudo
le amorose Nereidi Oceanine,
e agilissime in piccoli gruppi seguivano
la Gioia alata, che preannuncia gli dèi,
gettando perle; delle pure Grazie
le Nereidi sospiravano il bacio.
Poi appena i passi di Venere e il riso
delle sue Grazie ebbero reso la spiaggia
di Citera sacra, una violetta sconosciuta
spuntò ai piedi dei cipressi, e improvvisamente
molte rose di color rosso acceso soavemente
divennero bianche. Perciò divenne
un rito quelle di versare il latte
incoronati di rose bianche, e cantare gli inni
sotto ai cipressi, e offrire all'altare
le perle e il fiore che annuncia il mese d'aprile.
Una subito alla Dea con il luminoso
pettine ordina e asciuga i dolcemente e intreccia
i capelli mossi dall'onda azzurra del mare:
l'altra sorella agli zefiri consegna
per far rifiorire i prati in primavera
il sudore d'ambrosia di cui è madido il seno
della figlia di Giove: castamente
la terza serva ricompone il peplo
sulle spalle divine, e le nasconde
alla vista di quei selvaggi intontiti dal desiderio.
Non inni di preghiera né danze matrimoniali
ma dei cani randagi l'instancabile ululato
si udiva per tutta l'isola, e il suono delle frecce
e le urla degli uomini sul corpo morto dell'orso a fare rissa
e i lamenti dei cacciatori feriti.
Cerere inutilmente aveva donato l'aratro
a quei selvaggi, invano dall'India
chiamò un giorno Bacco un giovane dio
ad abbellire i campi con la vite:
il santo strumento arrugginiva sui piccoli
solchi a malapena iniziati, disprezzato; la vite era divorata prima
che i grappoli appena maturati arrossassero
al sole d'autunno: e solo
quando apparivano le Grazie i cacciatori
e le miserevoli fanciulle e i ragazzi
lasciavano l'arco e la paura per ammirarle.
Con le ruote immerse in mare per metà andava intanto
la conchiglia sfiorando la spiaggia, e alla spiaggia
la spingevano con le braccia le dolci
Nereidi. Spontaneamente si misero al giogo
per trainare la biga due delle cerve
che nei boschi del monte Dicte manteneva vergini
e educava alle redini la dea Diana; e dopo che le aveva
addomesticate si beavano ai suoi cocchi al riparo
dalle frecce degli uomini. Queste per decisione della sorte
vagando dopo essere fuggite erano arrivate
avventurandosi, e corsero a condurre
il viaggio di Venere. Fulminea
Iri che insegue gli Zefiri in volo
si sedette a far da auriga, e diresse il cocchio verso l'istmo
della Laconia. Ancora Citera
non sedeva come la regina del golfo:
dove ora puoi vedere le vele alte sulle onde
scendeva oscura una foresta, da cui era stata allontanata
ogni divinità dagli uomini, occupati
a combattersi per derubarsi: i vincitori
si nutrivano di carne umana.
Videro il cocchio e urlarono come animali
agitando il bastone. Strinse al petto
sotto il suo manto le giovani riparatesi
nel suo mantello, e, Oh foresta, sommergiti!
disse Venere, e fu sommersa. Ah, che forse
così erano tutti gli antenati dell'uomo!
Quindi in noi, miserabili, serpeggia un innato
desiderio delirante di battaglie e se per pietà
non lo frenano le dee, l'oscuro fuoco si riaccende
e ostenta le ossa degli altri uomini come fossero un trofeo;
che io possa non vedere tutto ciò almeno ora che in Italia
quelle ossa bianche stanno nei campi senza sepoltura!
Qui c'è il golfo di Fare
circondato di grotte che piacciono ai delfini
qui Sparta e le fluenti acque del fiume Eurota
che piacciono ai cigni; e Messene offriva sicuri
nidi alle tortore nei suoi boschetti
qui da Augia il laghetto rimasto inviolato
dal pescatore mandava acque purificatrici
alla santa Brisea da cui il vicino
Taigeto sentiva urlare la misteriosa
festa e i riti con i quali il coro di donne
placò Lieo; tornavano i giovani con il capo
coperto di ghirlande alle giovani dell'Amicle
terra ricca di fiori; e la maremma di Eloa
non li trattenne e nemmeno Laa che fra tre monti
[…]  

Ma e dove, oh vergini divine, ditemi dove
si trova quel primo tempio a voi dedicato, così pure se invano
io lo cerchi sulla terra, almeno quell'antica
sacralità in quel luogo io senta.
Mentre procedono ricoperte di veli verso l'alta
Dorio che vede gli Arcadi da lontano,
le belle dee arrivarono a Trio; l'Alfeo
ritirò le sue acque, e diede un guado al loro passaggio
che ancora i viaggiatori di oggi attraversano e venerano.
Questo miracolo manifestò ai Greci
la presenza della dea; da lontano
sentirono soffiare l'aria divina.    

Non sono falsi dei. Io dal mio colle
quando non soffiano i venti tra le torri
della bella Firenze ascolto un Silvano
che è ospite misterioso dei silenziosi
monaci eremiti del vicino Oliveto: egli nel pomeriggio
prende rifugio tra le frasche, e suonando una zampogna
richiama alla fonte le sue pecorelle.
Chiama due ninfe brune alla sera
che ballando non sembrano nemmeno toccare terra.
È lui a dirigere il ballo. Ce n'erano molte
sotto il colle di Fiesole in una valle
che è circondata da sei piccoli monti
che scendono come a formare un teatro greco.
Affrico l'allegro ruscelletto scese
dalla montagna sentendo la loro musica, e rischiarì
la valle con un freschissimo laghetto.
Non aveva ancora udito nulla delle Ninfe
Fiammetta quando per svago
raccontando di amori e gentilezze
con le amiche stava seduta, o faceva il bagno
senza malizia; e forse la spiavi
lei, la più bella tra quelle acque limpide.
Furono poi svelati in quegli svaghi i dolci
misteri, e Dioneo re della brigata
tentò di sedurre le Grazie. Colpì i colombi
sulle folte ali essi che stavano sospesi
a guardia di una grotta; soffrivano inutilmente
sotto le frustate i colpi del mirto con cui Dioneo li incalzò
gli facevano ombra attorno, e gli chiedevano
di non avvicinarsi; sanguinanti e inermi
se ne andarono svolazzando verso il cielo.
La luna illumina gli anfratti della grotta,
e addormentata tra un mucchio di gigli
illumina una Napéa abbracciata a un Fauno.
Di quell'esempio ne gioì l'arrogante Dioneo, e spera
di sedurre Fiammetta; e perciò pregò tutti
i vecchi satiri di aiutarlo
e tutte le ninfe escluse da quei giochi d'amore
e da quei segreti: e questi furbi
nei loro ozii ogni notte a Dioneo
di scherzi, di luoghi nascosti, e di letti di fiori
raccontarono storie. Ora di questo si compone il libro
dettato dagli dèi; ma è sfortunata
quella ragazza che lo sfoglia.
Subito avrebbe smarrito il pudore natìo
dal viso, e la capacità di arrossire per finta
non può far innamorare chi ha le Grazie nel cuore.    

E solitarie percorrevano le dolci pendici
dell'Olimpo solcato di sorgenti. E quando
furono più vicine al cielo dove di una rosea
luce le vette del sacro monte sono spruzzate
e da dove sembrano tutte dorate le stelle
alle sue vergini che la seguono
la sacra Venere rivolse queste parole:
Assai beato oh giovani è il regno
degli dèi a cui io ritorno. Sulla disgraziata
Terra con i suoi figli voi rimanete
per consolarli; solo grazie a voi su di essa
gli dèi faranno cadere i loro doni.
E se essi saranno più vendicativi che clementi
davanti al trono di Giove io con le mie mani
vi guiderò per farli placare. Alla mia partenza
udirete una tale armonia dall'alto
e da voi diffusa nell'aria renderà più sopportabili
i dolori degli uomini. Un rifugio amichevole
talvolta vi saranno i Campi Elisi, e sorridete
ai poeti puri che raccoglievano l'alloro
e ai principi misericordiosi, e alle pie
giovani madri che il proprio latte
davano ai figli, e alle giovani donne
che un amore clandestino fece finire innocenti sul rogo,
e ai giovani morti per la patria.
Siate immortali. Disse e le guardava
e con lo sguardo diffond...    

Poi con un suo bacio diede conforto alle tristi
Grazie che la seguivano con quegli occhi
che velava il pianto, e lei era in alto
e la vedevano appena, e udirono queste parole:
il destino vi darà nuovi dolori
e la gioia eterna. E sparì: e mentre volava attraverso
i primi due cieli si circondava della
pura luce della sua costellazione. Udì il suo ritorno Armonia
ed esultando commosse il cielo per la sua felicità.
Poiché quando la Citerea ritorna ai
cori divini, Armonia per le strade celesti piene di stelle
applaude a quella dea per il cui favore
un giorno diede forma all'universo.
E senza cantarle, chi potrebbe
descrivere tutte gli atti degli dèi? Irrequieto
il mio canto vagabondo corre ad incontrare
le menti delle Grazie pronte ad ascoltarlo
Eppure non so dirvi, mie dolci sorelle, addio,
e il pensiero mi detta canti più maestosi.
Ma dove potrò seguirvi, se il Fato
da molto tempo ormai vi rese profughe
togliendovi dalla Grecia, e se l'Italia
che è come una seconda patria per voi i vostri doni
mostra con superficialità e dimentica la vostra deità?
Eppure molti suoi figli liberi ancora
a voi si rivolgono. Finché io vivrò
gli allori daranno ombra a Bellosguardo
ne farò un tetto per il vostro altare, e saranno un'offerta
i frutti che produrrà nell'anno, e tutti i
profumi che sprigiona ad inizio aprile.
E la fonte, e questi odori e i cipressi
e il mio pianto segreto e la sprezzante
poesia, e i silenzi e le arti vi saranno consacrati.
Io incoronato tra le arti e le muse
dirò alla Patria in che maniera voi misericordiose
tornate ad essere sue ospiti, così che essa
in una reggia ancora più splendida, e con solenni
cerimonie vi onori: e ascolterà come è stata riscattata
due volte dalle vostre azioni, quando il sacro Fuoco
Vesta pose sul Tevere, e poi quando Minerva
diede a Firenze l'Ulivo attico.
Venite o dee, soffiate oh dee, spargete
la materna essenza divina, e di nuovo
l’armonia le menti d’Italia prenderanno dall’Olimpo: e a voi solo
e non potreste darci un premio migliore
a voi Grazie chiederemo solo un sorriso.    

3.2Inno Secondo: Vesta

Tre dolcissime donne le cui trecce
adorna di rigogliose rose italiane
la giovinezza, e per le quali splende più intensamente
il giorno sul loro volto, al vostro altare
queste sacerdotesse, oh care Grazie, io guido.
E qui anche voi che non foste rapiti alle vostre in guerra da Marte
correte, e voi che in silenzio diventate pallidi
nella parte più nascosta del tempio della dea pensosa
Urania era la più lieta  

dove le Grazie l’azzurro
manto della dea le ornavano. Con loro
qui nel luogo dove io canto Galileo sedeva
a guardare le stelle
della loro regina, e lo distraeva
nella notte il lontano rumore dello scorrere dell’acqua
che sotto ai pioppi che stavano sulle rive dell’Arno
rapida e illuminata dalla luce argentea della luna si nascondeva al suo sguardo.
Qui l’alba la luna e il sole gli mostravano
con diversi colori ora le cupe
nuvole sulla bianca cresta delle montagne,
ora la pianura che scende al mar Tirreno
vasto scenario e pieno di città e boschi
e di templi e di contadini beati dalla ricchezza dei campi
ora le cento colline con cui l’Appennino fa corona
d’ulivi e rifugi e ville di marmo
l’elegante città dove con Flora
le Grazie hanno ghirlande e la dolce lingua.
Cominciate, oh giovinetti, il rito
e dal limite dello spazio sacro
allontanate i profani. Andate oh voi insolenti
genii dell’amore lussurioso, e anche voi oscuro seguito
di Momo, e voi che da Ascra prendete denaro.
Su questo altare l’oscena lussuria, e l’adulazione
non hanno posto, né la freccia della maldicenza
così cari ai profani e alla gente volgare,
davanti a quest’altare hanno potere, allontanatevi profani.
Alle Grazie piace la voce pudica
e l’offerta riservata; ora uscite
dalle stanze materne dove state solitarie
e l’Amore vi tende trappole, oh giovani donne uscite;
l’Amore promette gioia e invece dà sofferenza.
Qui sull’altare le rose e le colombe
deponete e tre bicchieri ricolmi
di latte consacrato; e finché il rito
non vi chiami a cantare, state sedute in silenzio.
Per i profeti il silenzio è sacro; e abbellisce il vostro volto
più di un sorriso. E tu che sulla terra osi
dare al marmo la forma di un’eterna giovinezza,
ora l’armonia della bellezza, il vivo
svolazzo delle vesti delle tre sacerdotesse
che io conduco alla musica, ai canti e alle danze
qui vedrai di certo; e tu potrai farle rimanere
eterne tra noi uomini, prima che vadano ai Campi Elisi
sulle misteriose ali del tempo.
In modo soave da un palazzo decorato
che per lei che un giorno avrebbe abitato a Firenze
dopo aver smesso di dipingere costruiva
il fabbro di Urbino, esce la prima
bella donna, e siede vicino all’altare, e il bisso
si piega aderendo al profilo
delle sue forme eleganti, e tra il candore
si arrossano i polpastrelli delle dita
mentre suonano le corde dell’arpa vicino la suo petto.
Escon fuori da quegli inquieti fili vibranti in aria
come raggi di sole che filtrano dalle nubi
pietà e gioia insieme, dopo che con il loro suono
ricordano come il ciel consegnò l’uomo
al piacere e al dolore per i quali
è equilibrato e vario il volo della sua vita
e come il dolore guidi alla virtù
e il sorriso e il pianto vaghino sul labbro
delle Grazie, e per chi sono benevolmente presenti
dolcemente il suo cuore si rallegri, e di gioia pianga.
Una simile melodia se è vera la leggenda
un giorno Aspasia suonava vicino l’Illisso,
allora era sacerdotessa delle Dee
e concentrato su quella musica Socrate sacrificava
sorridente a quell’altare, e col pensiero
arrivò su fin quasi alla serenità dell’Olimpo.
Da lì il vecchio vide muoversi obliquamente
ora percorrendo la strada fin sulle nuvole
ora precipitando nei gorghi del fiume Lete
la veloce quadriga della Fortuna
inseguita dagli uomini; e quel vecchio pietoso
inutilmente gridò dall’alto: Una cieca guida
voi seguite oh miseri, e vi conduce
dove la pietà è stata scacciata, dove Giove
lancia i fulmini più furiosi
sulla Terra terrorizzata. Oh voi che siete nati per soffrire
e faticare, se la virtù vi guida
dalla fonte del dolore sgorga il conforto.
Ah ma è nemico della pace un altro dio
più della fortuna, e assale gli innocenti;
guarda come l’arpa di costei se ne addolora!
Si addolora che l’invidioso Amore sfiori
il petto di tante ragazzette e nel pieno delle danze
le faccia piangere.
Già con le dita del piede e con il suo vagabondante
estro, e con gli occhi attenti al suono delle corde
ispirata suona le giuste corde
perché dipingano come
agli astri all’aria e alla vagante
Terra sull’acqua, e come ruppe
il Creato uniforme in mille parti
attraverso la luce e l’ombra riunendoli poi nell’unità
e i suoni all’aria, e diede i colori al sole
e la continuamente mutevole essenza
alla Fortuna che smuove e al tempo
in modo che quelle cose che insieme sono disarmoniche
insieme siano immagine di armonia divina
e facciano sollevare le menti oltre la materialità terrena.
Proprio come quando l’Euro soffia più impetuoso e increspa
il Lario tranquillo all’alba, e a quel soffio
canta il timoniere, e si rallegrano i vicini
liuti, e dolcemente il flauto si lamenta
di giovani innamorati e di ninfe
sulle gondole vaganti; e dalle rive
risponde il pastorello con la sua zampogna
e tra le valli risuona la musica dei corni da caccia
che terrorizzano i caprioli, mentre a cadenza regolare
il martello di Lecco
tuona dalle officine; stupefatto
il pescatore ascolta questa musica e lascia cadere le reti.
Così dell’arpa si diffonde il suono
per la nostra valle, e mentre la posa
la suonatrice, ancora la sua musica si ode.
Ora oh vergini portatele i cesti
e le rose egli allori per i quali furono maternamente
giardinieri nel giardino di Boboli ricco di ombra
le divinità etrusche del bosco, per fare più leggiadro
il giovane petto delle donne etrusche
che gareggiano tra loro per beltà e ornamenti;
danno una dolce ansia a quel viaggiatore che entra
se entra improvvisamente nei teatri pieni di luci
e quel piacere intenso dato dal canto
e quel vagare d’un dolce desiderio d’amore
vede sui volti delle donne, e l’aria
impregnata del profumo dei fiori gli confonde il cuore.
Portate insieme ai fiori i vasetti
d’alabastro ricolmi di fresca
acqua, e di vita, purtroppo breve, per i gelsomini
di montagna, e alla mammola che si dispiace
di non poter morire sul seno della fuggiasca
Ninfa di Pratolino, o soffiata
dal solitario leggero vento della notte.
Date il giglio di campagna, e se è meno alto
dei fiori della sua specie, indossa la veste
di un amaranto puro; mettete insieme
i giacinti d’oro e azzurri alle giunchiglie
di Bellosguardo che per il suo amante
raccoglie Pomona, e ai garofani superbi
della diversità della loro specie e dei colori,
e ai fiori che dai giardini d’Oriente
come un nuovo bottino portarono sulle nostre coste
soffiando vittoriosi gli Zefiri sulle vele,
e ora fra i cedri che si addossano al suo letto
con amore e con il caldo artificiale
questa gentile sacerdotessa fa crescere.
Soffia confuso ma armonioso sia agli occhi
che alle orecchie il suono, risplende l’insieme
che tanti colori mischia e degli odori
e il fiore che superbo con il loro nome
hanno fatto diventare tutti i dodici dei sceglie, e sull’altare
ve lo poe oh Dee, e in cuor suo silenziosamente prega.
E di quei fiori di cui è nutrice, qualcuno
vi piaccia intrecciarne alle rose divine
che il sesto giorno d’aprile in val di Sorga
tutti gli anni oh belle dee raccogliete
per portarle alla Madre. Ora l’alata
Polinnia dalle molte lire, e più di tutte le
altre Muse può cantare in modo vario, esulti
perché io con i suoi fiori decorerò il mio cantare; ora arriva
come sacerdotessa al rito che io officio una seconda
bella donna, e porta all’altare un favo
in memoria del miele di cui per le Grazie
con un continuo ronzio producono un tesoro
le eterne api di Vesta, e chi lo assaggia
parla dolcemente agli uomini. Invano Imetto
le richiama dal giorno in cui sulla cresta delle onde
dell’Egeo le sante volanti del coro
di Elicona seguirono ascoltando
il triste pianto d’addio di Apollo.
Ma quando nella valle di Ascra
lanciando alla carica la cavalleria turca
Marte distrusse ogni pianta, e i sacri
resti dei poeti vennero profanate da un superbo
discendente di Ottomano, allora l’Italia
divenne il giardino di quei fiori, e qui lo sciame
produttore del miele dorato mise per la sua discendenza
il fertile alveare. Le apollinee
api (ma la ninfa ne possiede anche di crudeli)
non scappano dai lamenti della ninfa invisibile
che per sempre delusa nelle sue speranze d’amore
continua a diffondere i suoi gemiti di dolore nell’aria
e ama e richiama il suo superbo nemico;
Tanta leggerezza infusero le Grazie
alla voce della Ninfa avendone pietà
che le lor api scordandosi del loro lavoro
stupefatte in Italia ascoltano la poesia
che riecheggia in bellezza l’antica poesia.
Oh dee fanciulle che siete gioia del canto
In vostro onore la bella donna i vostri riti
imita e si cura delle api di questo mondo
sui colli di Bologna da dove il pastore
guarda ad Astrea che ora è beata in cielo e nelle sere d’estate
si addormenta in mare; di piante indiane
ed esotiche con le quali dà ombra alla sua dimora
prepara riparo e divertimento al vagabondo
sciame
da una grotta che risuona d’armonia sono protette
dal gelo e dal caldo torrido dell’estate e dalle nuvole.
La bella donna con la sua mano i bianchi
fiori del limone, e la pudicizia
delle viole, e il timo che le api amano
innaffia, e invoca la rugiada più bela
dalle stelle tranquille; e supplica i favi
che vi consacra e in cuore suo prega in silenzio.
Pregate insieme a lei, oh giovinette, e insieme a me
oh voi giovanotti guardatela. L’inudibile
sospiro, il riso delle sue labbra, il dolce
fuoco che brilla nei suoi occhi
vi facciano capire quale sia la sua poesia e il modo
in cui l’ascoltano le dee: e certamente chiede
che il gentile messaggio delle dee
lei realizzi. Le preghiere che dal cielo
per pietà dei mortali fanno le divine
vergini caste, non sono destinate a voi,
giovani poeti e artisti eleganti,
ma alla donna che più leggiadramente le imita.
Correte da lei; e sentirete le Grazie
ispiratrici di dolci sentimenti e di
immagini soavi. Ah vi ricordi
che l’amore lussurioso le spaventa!
Torna, torna a suonare donna dell’arpa
e guarda la tua bella compagna; ella per ultima
arriva al rito colei che con le sue danze adorna l’altare.
Eppure quella città di cui Pale riempie i pascoli
delle valli per mezzo di molte chiuse, e i grassi buoi
al fruscio di mille pioppi che svettano in aria
riempiono i campi, ora la richiama
alle feste notturne, e fra quei giardini
tenuti freschi dalle chiome degli alberi e lunghe le rive dell’Olona
risplendenti di cocchi dorati. E già tornava
questa sacerdotessa al suo paese tranquillo,
così
Perché dal Tevere all’Arno dove l’Italia è più sacra
non trovò un solo altare, dove dare alle Grazie
il voto di una sposa regale;
Ma udì il cantare e il suono dell’arpa e verso di noi venne
agile come lo è in cielo l’agile Ebe.
Con il braccio regge un giovane cigno
e si toglie dalla fronte un leggero
filo di perle per darlo all’animale.
Questi lentamente col suo collo flessuoso
si attorciglia al collo della donna, e sente le di lei ciocche
di capelli neri sulle sue piume color latte
sciolte scivolare, e più felice la guarda
mentre lei apre le labbra per dire queste parole:
SONO GRATA AGLI DEI PER IL RITORNO DI MIO MARITO
DAI FIUMI ARGENTEI DEL NORD DOV'È LA PATRIA DEI CIGNI
ALLE VERGINI GRAZIE OFFRE
LA MIA REGINA UN CIGNO BIANCO.
Prendete il cigno, oh garzoni, e sulle pulite
acque che scorrono attorno all'altare e al bosco
deponetelo, in modo che diventi padrone
del nostro ruscello; e i suoi movimenti armonici e aggraziati
e il suo biancore rispecchino le onde e goda
della sua stessa bellezza come se dicesse a chi lo guarda:
Io sono il simbolo della bellezza. Felicemente
e cantando togliete le fronde o giovinette
al mirto e al roseto lungo le anse
del ruscello, e versatele sul ruscello,
donateli, e a quel veloce nuotatore
che veleggia con ali di pura neve
fate ostacoli con i fiori, e il più bello tra i
fiori donatigli che per voi scelga col becco rosso
appuntatevelo sul petto. Fra tutti gli animali alati
che stanno sia sull'erba che in cielo o sui laghi
il cigno è il signore più amabile, e con il comando
modesto della sua bellezza governa
i suoi vassalli, e agli altri volatili sorride
e guarda felice alle superbe aquile.
Sopra la sua gamba nuotano sicuri
i pesciolini d'argento, e come un ospite sincero
lo guardano s'egli s'immerge all'alba
nelle correnti più profonde desideroso
di acque più fresche, grazie alle quali risplenda
sulle sue piume il chiaro sole.
Riempitelo di gigli. Al dolce rito
la Donna lo invia che nella bella villa
dei tigli (amabile pianta! E ai profumi delicati
favorevole, e al santo amore coniugale)
lo nutriva addolorata; e a lei dal laghetto della villa
felice accorreva agitando le acque tranquille
al riparo degli allori. Oh Donna, che sei ornamento di
benevole virtù nella reggia milanese!
Finché piacque agli dèi, o gentile protettrice
degli infelici, e di tre graziose figliole
gentile madre; la più bella tra tutte
le figlie dei re, e amica degli dèi!
Tutto il cielo ti ascoltava quando a tuo marito
che era in guerra per impedire che i nemici conquistassero l'Elba
pregavi sommessamente la Parca invisibile
che accompagna gli eroi predicendo
il loro canto funebre e l'alto sepolcro e le armi
più limpide e i bianchi destrieri uniti alla quadriga
che corrono per l'eternità nei Campi Elisi.
Non amano coloro che cantano le vittorie della fortuna
le mie Grazie, e fanno bello solo l'alloro
che incorona i principi sfortunati.
Ma ancor più alle mie dee piace quella poesia
che di singolare bellezza l'anima e il corpo
fa nuovamente vivi con la sua musicalità che dipinge;
Spesso in vista di altre epoche se l'idioma
d'Italia giungerà puro ai posteri
(e quell'idioma è vostro, e voi lo conservate, oh Grazie!)
provai a ritrarre l'immagine coi miei versi  

3.3Inno Terzo: Pallade

Pari al numero delle Grazie si levino i canti
alle vergini sante, armoniosi
per il suono vagabondo unico e differente
di tre lingue diverse. Intento ascolta, oh Canova:
che io vedo tutt'intorno fumare l'incenso
allo stesso modo in cui si spandeva sugli altari ai versi misteriosi
di Anfione: ecco che arriva
il nitrito dei cavalli tebani, nonostante che Ippocrene
li dissetasse, e li faceva riposare del vento
di Eolo, e preannunciatrice volava un'aquila
e con le sue bardature li abbelliva il Sole
e pure Pindaro fece fermare quei cavalli vagabondi
vicino al Cefiso, e venerò le Grazie.
Ascoltate ascoltae, oh fanciulle; una poesia latina
viene danzando canti nuziali dall'isoletta
di Sirmione attraverso il Garda argentato
risuonante della superba onda del mare
da quando le nozze di Peléo narrate col canto
nella reggia del mare, l'aureo Catullo
cantò al suo Garda. Oh sacri poeti
date a me l'arte e gli spiriti
dei vostri idiomi, e con i modi toscani
abbellirò più arditamente
le storie conosciute, e quelle

4Guarda la video spiegazione del poema Le Grazie