La ricotta di Pier Paolo Pasolini: trama, significato e censura
La ricotta: trama, significato e analisi del cortometraggio di Pier Paolo Pasolini, presente nel film Ro.Go.Pa.G. Storia e censura del film
Indice
La ricotta di Pasolini
Il mediometraggio La Ricotta di Pier Paolo Pasolini, girato nel pieno della sua maturità artistica, sviluppa e sintetizza i temi centrali del suo pensiero: il difficile e contraddittorio rapporto con il cattolicesimo, il fascino per la vivacità della vita di borgata, la capacità di rileggere il passato in chiave moderna e analizzare criticamente i cambiamenti socio-culturali della sua epoca.
La ricotta: trama
La Ricotta (1963) è un mediometraggio (35 min) di Pier Paolo Pasolini, inserito all'interno del film a episodi Ro-Go-Pa-G (Rossellini, Godard, Pasolini, Gregoretti).
La pellicola di Pasolini è incentrata sulle vicende di una troupe alle prese con un kolossal su Cristo, una riflessione metacinematografica sul compito del regista e quindi la maniera “migliore” di parlare della Passione.
Mentre il regista, interpretato da Orson Welles, è assorto nel rappresentare complicati tableaux vivans manieristi, Stracci (Mario Cipriani), una comparsa pescata tra sottoproletari di Roma dalla fame atavica, vive una serie di sfortunate vicissitudini che porta il pubblico a identificare in lui il vero “Cristo”, della Passione e Crocefissione, il Cristo deriso e flagellato.
Un "morto di fame" che dona tutto il suo pranzo alla numerosa famiglia, consumato in un prato che assume il valore di una vera e propria eucaristia. Dopo aver nascosto il pane sotto un sasso, non se la sente di punire seppur giustamente “il cane de 'na miliardara” che gli sta mangiando il cibo. Infine dopo essere stato deriso da tutta la troupe per la propria fame che lo spinge a trangugiare ogni cosa del banchetto dell’ultima cena che gli è lanciata, morirà davvero sulla croce durante la scena della crocefissione, come ladrone buono, per indigestione, nella generale indifferenza.
Ascolta su Spreaker.Orson Welles e Stracci
Orson Welles, il regista, è contrapposto alla figura di Stracci: il primo rappresenta il mondo delle classi dominanti, è un uomo “colto, estetizzante, cinico”, divorato da una fame estetica, alla ricerca di un’arcaica spiritualità che lo spinge a riprodurre opere lontane, irreali nei colori e alienate dal mondo e dalle esigenze concrete delle borgate romane con cui il regista entra contatto, ma con le quali non sa dialogare. Anzi tale ambiente gli rimane estraneo e viene da lui criticato nel momento in cui interrompono brutalmente le riprese più sacre.
Certamente negli anni ’60 Welles, già da tutti conosciuto, evocava l’immagine di un intellettuale di successo, autore di grandi capolavori del cinema, un regista per eccellenza. Perciò senza dubbio, ciò su cui voleva riflettere Pasolini, non era la particolare dinamica che si sviluppa durante la ripresa di un film e neppure voleva introdurre il nome di Welles nel cast per accreditarsi il favore del pubblico. Voleva osservare attentamente i “rischi” dell’intellettuale che non riesce a esprimere quella che è la vera essenza del Vangelo che vuole rappresentare.
La semplice e triste vita di Stracci rispecchia in maniera più naturale e spontanea la passione di Cristo, rispetto a quella “nobilitata” da riferimenti a Jacopone da Todi, a Scarlatti e ai Manieristi.
L’artificiosa sacralità della crocefissione del kolossal è contrapposta alla smania di Stracci di fronte al cibo (resa con la tecnica dell’accelerazione, riprendendo Ridolini e Charlot) data da una fame che non è più quella estetica del regista, ma quella irrequieta e assolutamente biologica del sottoproletario.
Tuttavia “La ricotta” non si limita a questo primo, seppur profondo, piano di lettura, ma riesce a riflettere con attenzione sulla questione stessa del manierismo e pure a inserire le riflessioni che caratterizzano il pensiero antropologico di Pasolini.
Orson Welles e Pasolini
La questione stessa della presenza di Orson Welles come regista nel film si articola ulteriormente se si mette a confronto il regista con Pasolini stesso.
A livello tecnico “non è possibile concepire un regista più lontano da Pasolini di Welles” (A. Marchesini, Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini) Orson Welles, influenzato dal teatro, ricerca nei suoi attori un tipo di recitazione shakespeariana, d’intensa espressione facciale e mimica. Pasolini invece raccoglie uomini dalle borgate romane come attori; Anna Magnani, dopo aver lavorato nel film “Mamma Roma”, esplicita il proprio disagio nei confronti delle riprese di Pasolini, che non le permettevano “di portare a termine un’emozione” (M. Maffei, Una contro tutti). Alla ricerca tecnica esasperata di Orson Welles, il virtuosismo dell’uso della macchina da presa e alle sue doti di raffinato sperimentatore (Andrè Bazin, Orson Welles), si contrappone la rozzezza della maniera pasoliniana, volutamente arcaica e ingenua.
Se da un lato i due registi presentano caratteristiche del tutto distanti, Pasolini dice:
“[...] il regista Orson Welles, ne La Ricotta, non rappresenta me stesso, e quindi le cose che lui dice le dice in proprio: probabilmente in regista è una specie di caricatura di me stesso, un me stesso andato al di là di certi limiti e caricaturizzato e visto come se io fossi diventato, per un certo processo di inaridimento interiore e di conseguente cinismo, un ex-comunista” (Pasolini, Una discussione del ’64, in “Pasolini nel dibattito culturale contemporaneo”).
Pasolini si identifica ambiguamente in un personaggio che rappresenta, deforma ed esorcizza il suo snobismo intellettuale che rischia di condurlo a imporre uno squisito ma corrotto gusto manierista a una troupe di rozzi proletari.
La critica sociale e la poetica dialettale
Attraverso Orson Welles, Pasolini non riesce a trattenersi dallo scagliarsi contro il consumismo e il conformismo della società capitalistico-borghese.
Durante le riprese del film sul set giunge un giornalista di "Teglie sera", e con fare deferente e complimentoso e con una faccia “che pare di pane inzuppato” ( Alì dagli occhi azzurri, raccolta delle sceneggiature tra cui La Ricotta) scatena con alcune domande una durissima critica all’uomo medio, uomo della cultura di massa.
Come già emerge in moltissimi suoi scritti e film, Pasolini è profondamente affascinato dal mondo contadino, che continua a sopravvivere al capitalismo in un lento ripetersi delle tradizioni; è il mondo arcaico delle campagne friulane, che, immutabile, viene escluso dalla storia.
Trasferitosi a Roma, entra in contatto con il proletariato di Pietralata, Tiburtino e Quarticciolo, una massa di “indesiderabili” che vive ai margini della capitale, soffocato dalla povertà, ma che pure ammalia per l’arrogante oziosità. È proprio questa Roma ostile e disperata, decadente ma ancora dotata di una primitiva bellezza, che diviene oggetto dei romanzi Ragazzi di vita e Vita violenta.
L’inventiva e il dinamismo linguistico dei dialetti locali dei suoi romanzi e delle poesie sono le sole possibilità, attraverso il linguaggio del corpo e le espressioni popolari, di riuscire a esprimere “certi sentimenti al limite dell’esprimibile” (una sorta di linguaggio assoluto, di ascendenza simbolista). Tuttavia Pasolini prevede già la scomparsa dei dialetti, della cultura popolare e “umanistica”, come scrive nei provocatori Scritti Corsari, a causa di un’aggressiva cultura tecnica e scientifica che teme sarà imposta dal capitalismo. Si pone come voce critica dell’Italia borghese nel dopoguerra, inebriata dal boom economico, che porta con sé un edonismo sfrenato e incontrollabile. Oggetti di critica sono dunque il benessere, il potere corruttore della televisione che egli chiamerà “spaventosamente antidemocratica” e il profondo conformismo che tende ad annullare le sfumature linguistiche, culturali e ideologiche italiane.
Pasolini (intellettuale borghese) profondamente consapevole della propria diversità dal popolo, dimostra nel cortometraggio di non voler dimenticare le sue esigenze con speculazioni intellettuali.
Rosso Fiorentino e il Pontormo
Nelle riprese s’inseriscono due citazioni pittoriche:
- la Deposizione di Rosso Fiorentino;
- il Trasporto di Cristo al sepolcro del Pontormo.
Da un intervento del regista alla tavola rotonda sul Romanino, per Pasolini il manierismo si configura come una consapevole corruzione del classicismo, in un clima di miscredenza e demonismo, quasi si trattasse principalmente di una diserzione a livello religioso dal mondo “integro, totale, armonioso” del primo Cinquecento. “Il manierismo era miscredente. Il Pontormo, il Rosso Fiorentino dipingevano la crocefissione, però evidentemente nel loro fondo erano diabolici, erano miscredenti.” (Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini, Marchesini).
Già Vasari parla del diabolismo del Rosso dal temperamento violento e bizzarro, e della vena eretica, malinconica e introversa del Pontormo; Sul cortometraggio non influì tanto Roberto Longhi, del quale Pasolini seguì varie lezioni, quanto “La Maniera italiana”di Giuliano Briganti.
La novità dei colori del Trasporto di Cristo al sepolcro del Pontormo è ripresa da Briganti e amplificata nelle pagine di Alì dagli occhi azzurri tramite l’accostamento di piante e fiori.
“ Pànfete, un’altra volta – a stacco netto- la Deposizione del Pontormo a colori, coi colori che sfolgorano in pieno petto. Colori? Chiamali colori...
Non so… prendete dei papaveri, lasciati alla luce del sole d’un pomeriggio melanconico, quando tutto tace, in un ardore di cimitero- se li prendete e li pestate, ecco ne viene fuori un succo che si secca subito; ebbene, annacquatelo un po’, su una tela bianca di bucato, e dite a un bambino di passare un dito umido su quel liquido: al centro di quella ditata verrà fuori un rosso pallido pallido, quasi rosa, ma splendido per il candore di bucato che cià sotto; e agli orli delle ditate si raccoglierà un filo rosso violento e prezioso, appena appena sbiadito; si asciugherà subito, diventerà opaco, come sopra una mano di calce… Ma proprio in quello sbiadirsi cartaceo conserverà, morto, il suo vivo rossore. Questo per il rosso.
(..)”
Pasolini è consapevole della profanazione degli elementi religiosi tradizionali che comportano queste due opere. Viene associata, infatti, una passione ricreata sui modelli di due pittori eccentrici, scandalosi e volutamente trasgressivi, raffinati sperimentatori di maniere diverse, a un regista (Orson Welles) “infernale” , allucinatorio e aggressivo. Il regista Orson Welles tenta pateticamente di elevare spiritualmente il proprio film, impreziosendo i tableaux vivants con la Lauda di Jacopone da Todi e un brano di Scarlatti, che Pasolini fa interrompere bruscamente da un chiassoso twist e dalle risate delle comparse, quasi a ricordare la concretezza del proletariato sulle speculazioni intellettuali.
Il distacco tra il mondo reale e la finzione spesso fine a se stessa è accentuato dall’alternanza della monocromia e policromia che provocano un’inversione paradossale dei rapporti tra realtà e finzione: le scene della passione di Stracci sono nel bianco-nero che si riallaccia al neorealismo italiano di De Sica e Rossellini, particolarmente attento ai problemi delle classi disagiate e lavoratrici; invece, i tableaux vivans sono a colori (apparentemente “vicini” alla realtà), ma di una tonalità pastello innaturale e piena d’inquietudine.
L’ambiguità, perciò, non è tanto nella contrapposizione tra la passione di Stracci e quella di Welles e i manieristi, ma nella ricchezza di sfumature della seconda.
I manieristi, infatti, non sono inseriti nel cortometraggio come un semplice contraltare alle vicende di Stracci; Pasolini è affascinato dalla profonda irrequietezza e dal disagio che essi vivevano in quel panorama artistico e culturale che ormai si prefiggeva solo una sterile imitazione dei modelli che non sarebbero mai più stati superati (Michelangelo, Raffaello e Leonardo da Vinci).
Durante il Novecento, il Manierismo viene ripreso con un nuovo interesse che evidenzia la straordinaria modernità nel raffigurare l’ inquietudine che mise in crisi la maniera rinascimentale.
Il Pontormo partecipa profondamente al dolore della propria opera, raffigurando se stesso a lato del dipinto, i cui colori paiono deformati dal disagio psichico che l’autore viveva, come anche nella Deposizione, l’uomo che per la disperazione nasconde il viso tra le mani è definito da Ciardi (Rosso e Volterra) un "autoritratto negato". Così Pasolini si espone a critiche nel momento in cui presenta nel suo mediometraggio un’immagine di sé in Orson Welles, sì deformata ed esorcizzata, ma che dimostra un forte coinvolgimento della sua stessa persona.
Esprime un’inquietudine e disagio nel confrontarsi con i modelli del passato che lo portano riconoscere se stesso un manierista, “il più moderno d'ogni moderno” (Alì dagli occhi azzurri), per il quale «la dissoluzione della forma è ottenuta attraverso la riproduzione e il riuso alterato e straniante di una pluralità di modelli e di stili, non solo letterari, del più recente passato».
Dietro un Pasolini che “aggredisce” il passato letterario con l’introduzione di testi e linguaggi moderni, in realtà c’è, paradossalmente, la riproposta dei valori etici dell’antica civiltà dell’umanesimo.
Certo, debitamente tradotti in espressioni e forme moderne.
“I due registi e i due pittori si propongono in un gioco speculare di riflessi e deformazioni, dove ogni elemento ritorna distorto o amplificato, ma mai uguale a se stesso.” (Citazioni pittoriche nel cinema di Pasolini, Marchesini.)
Il sequestro e la censura
Il film nel 1963 venne sequestrato e Pasolini condannato a quattro mesi di reclusione per vilipendio alla religione. “L’atmosfera religiosa creata viene distrutta con una irrisione tanto grave quanto immotivata. Al quadro vivente della deposizione del Rosso Fiorentino viene accoppiato come commento musicale un “twist” e poi un “cha-cha-cha” e il serafico volto del Cristo, serenamente composto nell’immagine della morte, proprio nel momento di più profonda e mesta religiosità della scena, si contrae in un riso sguaiato” (Atti del processo “La Ricotta”)
Il pubblico ministero non solo non riconobbe nelle scene del pranzo della famiglia di Stracci e della sua derisione il vero senso del Vangelo, che invece indirizzò alle deposizioni manieriste, ma soprattutto ritenne motivo di scandalo la rottura di questo presunto clima religioso.
L’uso ambiguo della ricostruzione dei dipinti, come la volontà di creare una scena “santa per poi denunciarne l’artificiosità”, infastidì l’accusa, da portarla a interpretare erroneamente il significato del film.
Pasolini riesce a trattare del ruolo dell’intellettuale in una critica lucida nei confronti della propria produzione, e soprattutto a proporre delle riflessioni assolutamente attuali sul cristianesimo e quella spiritualità religiosa popolare che tanto lo affascina. Si rifà alla pittura manierista cogliendone tutte le sfumature e contraddizioni che consapevolmente fa proprie. Il mondo classico e le suggestioni novecentesche si intrecciano continuamente nella produzione del poeta, influenzandosi e risignificandosi a vicenda, in una lettura assolutamente attuale ed eterna del mito e dell’arte.
"Nulla muore mai in una vita. Tutto sopravvive. Noi, insieme, viviamo e sopravviviamo. Così anche ogni cultura è sempre intessuta di sopravvivenze. Nel caso che stiamo ora esaminando [La ricotta] ciò che sopravvive sono quei famosi duemila anni di "imitatio Christi", quell'irrazionalismo religioso. Non hanno più senso, appartengono a un altro mondo, negato, rifiutato, superato: eppure sopravvivono. Sono elementi storicamente morti ma umanamente vivi che ci compongono. Mi sembra che sia ingenuo, superficiale, fazioso negarne o ignorarne l'esistenza. Io, per me, sono anticlericale (non ho mica paura a dirlo!), ma so che in me ci sono duemila anni di cristianesimo: io coi miei avi ho costruito le chiese romaniche, e poi le chiese gotiche, e poi le chiese barocche: esse sono il mio patrimonio, nel contenuto e nello stile. Sarei folle se negassi tale forza potente che è in me: se lasciassi ai preti il monopolio del Bene". (Pier Paolo Pasolini 1961)
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