La quiete dopo la tempesta: testo, parafrasi e figure retoriche

La quiete dopo la tempesta di Giacomo Leopardi: testo, analisi metrica e figure retoriche della poesia in cui emerge il pessimismo cosmico del poeta

La quiete dopo la tempesta: testo, parafrasi e figure retoriche
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La quiete dopo la tempesta di Giacomo Leopardi

Giacomo Leopardi
Fonte: redazione

La quiete dopo la tempesta è una poesia composta da Giacomo Leopardi nel 1829, durante il suo ultimo soggiorno a Recanati, e pubblicata per la prima volta nell’edizione dei Canti del 1831. Il componimento viene successivamente riunito insieme a tanti altri del periodo fra Pisa e Recanati del 1828-1830 sotto il nome di “Grandi Idilli” da Francesco De Sanctis, facendo riferimento all’idillio del 1820-1821. Ne La quiete dopo la tempesta viene affrontata da Leopardi la sua teoria del piacere, secondo la quale l’unica gioia concessa all’essere umano è l’assenza del dolore; inoltre insieme a Il sabato del villaggio, rappresenta un dittico.

La poesia La quiete dopo la tempesta si apre con la rappresentazione idilliaca della vita del borgo di Recanati dopo la tempesta: gli animali della campagna tornano alle loro occupazioni così come gli abitanti recanatesi riprendono i loro doveri quotidiani: chi affacciandosi sulla porta per guardare il cielo prima della laboriosa giornata, chi come le fanciulle andando a raccogliere l’acqua appena caduta o chi come gli erbivendoli già sul sentiero da attraversare. Il cielo si schiarisce e il sole torna a risplendere permettendo ad ogni uomo di affrontare un nuovo giorno con rinnovata felicità: questa è La quiete dopo la tempesta.

Alla parte descrittiva segue quella riflessiva e filosofica delle strofe seguenti con le quali Leopardi espone il suo pessimismo sotto forma di ironia. La gioia che viene espressa nella prima parte della lirica si presenta come un ottimo espediente per una meditazione complessiva della condizione umana. La vita secondo il poeta è bella proprio dopo che è passata la tempesta ed ogni uomo si rallegra perché, come la natura vuole, al dolore segue il piacere che è tanto raro ed effimero che si riduce a niente. Quest’ultimo a differenza del dolore che domina la vita degli uomini. La quiete, ossia il piacere, dopo un lungo momento di sofferenza e di terrore della morte scuote anche la gente che detestava o svalutava la vita. Riprendendo i versi di LeopardiPiacer figlio d’affanno”, o per dirla in altre parole: la gioia non è altro che “frutto/del passato timore”. 

La strofa finale è un’apostrofe alla natura matrigna concepita dal poeta così come negli ultimi anni della sua vita con il pessimismo cosmico. L’ironia dei versi 42-54 si trasforma in sarcasmo, poiché la natura ironicamente definita “cortese” ed in grado di concedere “a larga mano” i doni che ha da offrire agli uomini. Questi doni in realtà non sono altro che affanni e sofferenze, e quel tanto di piacere che ne scaturisce invece è così poco da sembrare un guadagno. Il finale pessimistico dell’opera è un augurio di felicità assoluta, recuperabile solo con la morte.

Testo

Passata è la tempesta:
Odo augelli far festa, e la gallina,
Tornata in su la via,
Che ripete il suo verso.

Ecco il sereno
Rompe là da ponente, alla montagna;
Sgombrasi la campagna,
E chiaro nella valle il fiume appare.
Ogni cor si rallegra, in ogni lato
Risorge il romorio
Torna il lavoro usato.
L’artigiano a mirar l’umido cielo,
Con l’opra in man, cantando,
Fassi in su l’uscio; a prova
Vien fuor la femminetta a còr dell’acqua
Della novella piova;
E l’erbaiuol rinnova
Di sentiero in sentiero
Il grido giornaliero.
Ecco il Sol che ritorna, ecco sorride
Per li poggi e le ville. Apre i balconi,
Apre terrazzi e logge la famiglia:
E, dalla via corrente, odi lontano
Tintinnio di sonagli; il carro stride
Del passegger che il suo cammin ripiglia.

Si rallegra ogni core.
Sì dolce, sì gradita
Quand’è, com’or, la vita?
Quando con tanto amore
L’uomo a’ suoi studi intende?
O torna all’opre? o cosa nova imprende?
Quando de’ mali suoi men si ricorda?
Piacer figlio d’affanno;
Gioia vana, ch’è frutto
Del passato timore, onde si scosse
E paventò la morte
Chi la vita abborria;
Onde in lungo tormento,
Fredde, tacite, smorte,
Sudàr le genti e palpitàr, vedendo
Mossi alle nostre offese
Folgori, nembi e vento.

O natura cortese,
Son questi i doni tuoi,
Questi i diletti sono
Che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
E’ diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
Spontaneo sorge: e di piacer, quel tanto
Che per mostro e miracolo talvolta
Nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
Prole cara agli eterni! assai felice
Se respirar ti lice
D’alcun dolor: beata
Se te d’ogni dolor morte risana.

La quiete dopo la tempesta: analisi e figure retoriche

Analisi

La quiete dopo la tempesta è una canzone libera di endecasillabi e settenari, composta da tre strofe di lunghezza differente. Il lessico della poesia è vario poiché vi è un’alternanza di parole d’uso comune a parole “peregrine” come “odo, augelli, mirar, studi, onde etc.”. Sono inoltre da sottolineare i latinismi nella lirica, quali “famiglia, nova, lice etc.” La sintassi della poesia è varia: nella parte descrittiva idilliaca essa si presenta piana e scorrevole; nella seconda parte, filosofica e contemplativa, la sintassi si fa più complessa e articolata con una alternanza di periodi paratattici ed ipotattici e frasi ellittiche del soggetto, ciò dovuto alla visione drammatica della vita che si trasmette anche nella sintassi.

Figure retoriche

Nella canzone sono presenti numerose figure retoriche.

Metafora ai versi 19-20:

"Ecco il sol che ritorna, ecco sorride
per li poggi e le ville. Apre i balconi".

Anastrofe al verso 47-48:

"Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge e di piacer, quel tanto".

Climax ascendente al verso 38: "fredde, tacite, smorte".

Chiasmo ai versi 43-44:

"son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono"
.

Apostrofe nell’ultima strofa dell’opera:

"O natura cortese,
son questi i doni tuoi,
questi i diletti sono
che tu porgi ai mortali. Uscir di pena
è diletto fra noi.
Pene tu spargi a larga mano; il duolo
spontaneo sorge e di piacer, quel tanto
che per mostro e miracolo talvolta

nasce d’affanno, è gran guadagno. Umana
prole cara agli eterni! assai felice
se respirar ti lice
d’alcun dolor; beata
se te d’ogni dolor morte risana
".

Il poeta inoltre in diversi punti della lirica utilizza i verbi coniugati alla seconda persona singolare per coinvolgere maggiormente il lettore in ciò che vuole comunicare, come è nel verso 22: "e, dalla via corrente, odi lontano".

La quiete dopo la tempesta e il pessimismo cosmico

Negli ultimi versi della poesia Leopardi esprime una sua considerazione: l’ “umana prole” si dimostra felice se le è concesso un solo attimo di riposo dai mali incessanti della vita, e beata se libera da ogni affanno con il sopraggiungere della morte. Il pensiero del poeta espresso nelle poche parole conclusive all’opera è quello caratterizzante il pessimismo cosmico, in cui Leopardi perde la speranza di ogni illusione e si riduce a contemplare in modo distaccato la vita come il saggio stoico, la cui atarassia è fondamentale. Persa ogni reazione titanica il poeta si rassegna a considerare il destino dell’uomo inevitabile ed eguale per tutti, il cui rimedio non è altro che la morte. Nell’evoluzione del pensiero leopardiano riscontriamo qualche affinità con l’evoluzione di quello foscoliano, ma ribaltato in successione temporale. In un primo momento della sua vita Ugo Foscolo considera la morte, ed in particolare il suicidio, secondo la filosofia stoica, come il rimedio ai tormenti della vita dell’uomo. Gli anni però portano il poeta a creare delle illusioni, quale l’arte e la poesia, che assumono un carattere consolatorio e lo portano a rifugiarsi in esse pur di scampare al destino inevitabile dell’uomo.

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