La peste di Atene di Tucidide: traduzione del brano
Come tradurre il brano La peste di Atene di Tucidide (47-53). Traduzione del brano in cui lo storico greco racconta la terribile esperienza del morbo
TUCIDIDE, LA PESTE DI ATENE
Traduzione del brano di Tucidide relativo alla peste di Atene del 430-429 a.C.:
Così si svolse la sepoltura quell’inverno e quando esso fu trascorso, terminò il primo anno di questa guerra.
Subito all’inizio dell’estate i Peloponnesiaci e i loro alleati invasero l’Attica con i due terzi (delle loro forze), come (avevano fatto) anche in precedenza (li comandava Archidamo, figlio di Zeussidamo e re dei Lacedemoni) e dopo essersi accampati cominciarono a devastare la terra. Erano nell’Attica solo da pochi giorni,quando il morbo cominciò a manifestarsi per la prima volta tra gli Ateniesi, benché si dicesse che anche prima fosse scoppiato in molti luoghi, nelle vicinanze di Lemno e in altre terre, e non si ricordava che ci fosse stata da nessuna parte né una pestilenza simile (a questa), né una tale strage di uomini. I medici nulla potevano, per fronteggiare questo morbo ignoto, che tentavano di curare per la prima volta, ma morivano più degli altri, in quanto più (degli altri) si avvicinavano (ai malati), né serviva nessun altra tecnica umana; per quanto si formulassero suppliche nei templi o si ricorresse agli oracoli e a cose del genere, tutto si rivelò inutile, alla fine rinunciarono a questi tentativi, vinti dal morbo funesto.
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Dapprima, a quanto si dice, (la peste) incominciò in Etiopia, in quella (regione) al di là dell’Egitto, poi discese anche in Egitto e in Libia e nella maggior parte della terra del re.
Nella città di Atene piombò improvvisamente, e dapprima contagiò gli uomini al Pireo, così che da questi (cioè gli ateniesi) fu detto, che i Peloponnesiaci avevano gettato dei veleni nei pozzi, infatti là non vi erano ancora fontane. Poi (la peste) raggiunse anche la città alta e già molto di più morivano.
Dica dunque riguardo a ciò ciascuno a seconda delle sue conoscenze sia il medico sia il profano, da che cosa era probabile che essa fosse sorta, e (dica) quali cause di un simile sconvolgimento ritiene siano capaci di avere una forza (tale da provocare) il cambiamento (dello stato di salute); io invece dirò quale fu e in base a quali sintomi uno, dopo un’attenta osservazione, sarebbe massimamente in grado di riconoscerla sapendone in precedenza qualche cosa, casomai scoppiasse una seconda volta, quei sintomi mostrerò, poiché io stesso ne fui affetto e vidi altri malati.
LA PESTE DI ATENE, TUCIDIDE: TRADUZIONE
49)
Quell’anno, come era riconosciuto da tutti, era stato, in misura eccezionale, immune da altre malattie: ma se anche uno aveva contratto in precedenza (prima dell’arrivo della peste) una qualche malattia, in ogni caso essa andava a confluire in questa.
Gli altri invece senza alcuna motivazione visibile, ma d’improvviso mentre erano sani, inizialmente erano presi da vampate di calore alla testa, arrossamenti degli occhi e infiammazioni.
E le parti interne, sia la faringe che la gola subito erano sanguinanti e emettevano un alito strano e maleodorante.
E in seguito dopo questi sintomi sopraggiungevano starnuti e raucedine e in non molto tempo la malattia scendeva al petto con uno spasmo violento e ogni volta che si stabiliva nello stomaco, lo rivolgeva, e sopraggiungevano svuotamenti di bile di tutti quei generi che sono stati catalogati dai medici, e questi (avvenivano) tra grandi sofferenze.
Ai più capitavano vani sforzi di vomito che generavano, all’interno, violenti convulsioni, le quali, in alcuni, cessavano subito dopo questi, in altri invece anche dopo molto tempo.
Il corpo, all’esterno, per chi lo toccava non era troppo caldo, né era pallido, ma rossastro, livido e fiorito di piccole pustole e di ulcere; ma le parti interne bruciavano così tanto da non riuscire a sopportare le vesti, nemmeno quelle più leggere, ne altro fuorché (l’essere) nudi, e si sarebbero gettati con sommo piacere nell’acqua fredda.
E molti dei malati trascurati lo fecero davvero (gettandosi) nei pozzi, oppressi da una sete inestinguibile, ma il bere di più o di meno non comportava alcuna differenza.
E la difficoltà di riposare e l’insonnia li opprimeva continuamente. E il corpo, per tutto il tempo in cui la malattia era al suo culmine, non si logorava, ma resisteva, contrariamente a quanto ci si aspettava, cosicché o la maggior parte moriva, o al nono o al settimo giorno per effetto del calore interno avendo ancora un po’ di forza, oppure se superavano (la fase acuta) poiché la malattia scendeva nell’intestino e verificandosi un’ulcerazione forte e contemporaneamente verificandosi una violenta diarrea, i più morivano in seguito, per la debolezza causata da essa. Infatti il male, inizialmente localizzatosi nella testa, scorreva attraverso tutto il corpo, cominciando dall’alto e se uno fosse scampato ai mali più gravi, l’affezione alle sue estremità lasciava un indizio evidente (della malattia).
E infatti il male scendeva fino ai genitali e alle punte delle mani e dei piedi, e molti sfuggivano alla malattia privati di queste e alcuni restando privi anche degli occhi.
E altri poi erano colti da dimenticanze di tutte le cose subito dopo essere guariti e non riconoscevano loro stessi e i (loro) familiari.
50.1)
La natura del male infatti, che era superiore ad ogni (possibilità di) descrizione, quanto al resto, colpiva ciascuno più violentemente di quanto la natura umana potesse sopportare, ma soprattutto nel particolare seguente mostrò di essere diverso da uno dei soliti; infatti gli uccelli e i quadrupedi, quanti si cibano delle carcasse degli uomini, benché molti fossero insepolti o non si avvicinavano (ai cadaveri umani) o, se se ne cibavano, morivano.
Eccone la prova: di questo tipo di uccelli si verificò un’evidente scomparsa, e non se ne vedevano ne altrove ne vicino a nulla del genere (ossia: vicino al cadavere); i cani invece offrivano maggiormente una percezione di ciò che accedeva, a causa del loro vivere insieme (all’uomo).
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La malattia infatti, pur tralasciando molti altri aspetti insoliti, a seconda di come si manifestava in ciascuno, un po’ diversamente dall’uno all’altro, era di questo tipo.
E durante quel periodo nessuna di quelle solite malattie affliggeva e anche se questo si fosse manifestato, si risolveva comunque in questo malanno. Alcuni morivano per trascuratezza, altri del tutto curati.
E infatti per così dire non si riuscì a stabilire nemmeno un unico rimedio, che si dovesse somministrare per dare giovamento: infatti quello che era di giovamento a uno proprio questo era nocivo per un altro.
Nessun corpo, mostrava di essere sufficientemente forte, di fronte a questo morbo, forte o debole che fosse, ma tutti quanti la malattia li colpiva anche quelli curati da tutti i punti di vista. Ma la cosa più terribile in assoluto della malattia era lo scoraggiamento ogni volta che qualcuno si rendeva conto di essere malato (infatti subito volgendosi nello spirito alla disperazione, si lasciavano andare molto di più anche del necessario e non resistevano) e poiché si contagiavano mentre si curavano a vicenda, morivano come bestie; e questo fatto provocava la più grande moria.
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C’erano dei sopravvissuti che maggiormente avevano compassione per chi stava morendo o era malato, perché ne avevano già fatto esperienza ed erano ormai in uno stato d’animo fiducioso; infatti la malattia non prendeva due volte la stessa persona, per lo meno non in modo da ucciderla.
Ed erano considerati beati dagli altri e anche da loro stessi per l’esultanza del momento e anche per il tempo avvenire avevano una qualche vana speranza di non morire mai più per un’altra malattia.
TUCIDIDE PESTE TESTO
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E oltre al male già esistente li opprimeva per di più l’afflusso di corpi nella città e soprattutto (opprimeva) quelli appena arrivati. Infatti non essendoci case a sufficienza ma vivendo in baracche soffocanti in quella stagione dell’anno, la moria avveniva senza ordine e dei cadaveri giacevano a terra morti gli uni sugli altri e si aggiravano strisciando semimorti per le strade e intorno tutte le fontane mezzi morti, per il desiderio d’acqua.
E anche i santuari nei quali si erano accampati erano pieni di cadaveri, dal momento che morivano li dentro. Infatti poiché il male sovrastava al di sopra della sopportazione, gli uomini non sapendo quale sarebbe stata la loro sorte, si abbandonavano all’indifferenza per le cose sacre e in ugual misura, per quelle umane.
Furono sconvolte tutte le usanze delle quali si servivano in precedenza riguardo alla sepoltura e seppellivano (i corpi) ciascuna come poteva.
E molti ricorrevano a sistemi indecorosi di sepoltura per mancanza delle casse necessarie, poiché avevano già avuto molte morti in famiglia. Infatti alcuni dopo aver disposto il loro morto sulla pira di un altro, precedendo quelli che l’avevano innalzata, vi appiccavano fuoco subito, altri mentre un altro stava bruciando, dopo avervi gettato sopra quello che portavano, se ne andavano.
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Anche in altri campi la malattia segnò l’inizio, in città, di uno stato di maggiore illegalità. Più facilmente uno osava, quello che prima faceva solo di nascosto, per assecondare il proprio piacere, che vedeva che improvviso (era) il mutamento tra coloro che erano felici e morivano improvvisamente e coloro che prima non possedevano nulla e avevano poi i beni di quelli (dei ricchi).
Pertanto ritenevano giusto procurarsi rapidamente anche le soddisfazioni riguardanti il piacere, giudicando effimere sia la vita che le ricchezze.
E da una parte, a sopportare prolungate fatiche per ciò che era considerato nobile, più nessuno era disposto, poiché pensava che era incerto se non sarebbe morto prima di raggiungerlo; ciò che invece era piacevole già (nel presente), e che da qualunque parte venisse, era vantaggioso per questo scopo, tutto ciò era divenuto bello e utile.
Nessun timore degli dei o legge degli uomini li tratteneva, poiché giudicavano che non vi fosse alcuna differenza tra onorare gli dei e non onorarli, in base alla constatazione che tutti senza distinzioni morivano, e, dall’altra, poiché nessuno s’immaginava, vivendo fino a che non ci fosse un processo, di dover scontare la pena per i (propri) misfatti, ma (credendo) molto più grave la condanna già sentenziata per loro, che pendeva (sopra le loro teste), e che prima che essa si abbattesse (su di loro), fosse opportuno godere della vita.
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