La mia sera: testo, analisi e parafrasi alla poesia di Giovanni Pascoli

La mia sera di Giovanni Pascoli: testo, parafrasi e figure retoriche della poesia La mia sera di Giovanni Pascoli, appartenente alla raccolta I canti di Castelvecchio e composta nel 1900.
La mia sera: testo, analisi e parafrasi alla poesia di Giovanni Pascoli
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1I Canti di Castelvecchio: tra il "Fanciullino" e il Simbolismo

Giovanni Pascoli (1855-1912)
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I Canti di Castelvecchio vedono la loro prima pubblicazione nel 1903, cioè nello stesso anno della sesta e ultima edizione della prima, grande raccolta poetica pascoliana, Myricae, della quale per toni e contenuti si presenta come una prosecuzione, un’intenzione che emerge chiaramente già nella dedicazione d’apertura alla madre.

Nei Canti di Castelvecchio domina, ancora, l’attenzione per gli eventi quotidiani, per le scene contadine e campestri, i ricordi d’infanzia e il fluire del tempo e delle stagioni; un racconto concentrato su situazioni umili che vengono narrate con toni altrettanto umili che, tuttavia, raggiungono vette di straordinaria eleganza.

La ripresa di temi e toni viene evidenziata dallo stesso autore che, sempre nello scritto introduttivo, giustappone le liriche di Myricae a quelle dei Canti di Castelvecchio definendo queste ultime ‘autunnali’, in opposizione quindi alle prime, più giovanili

Che i Canti di Castelvecchio possano essere letti come un punto di arrivo, una dimostrazione della raggiunta maturità artistica di Pascoli, lo si può intendere anche guardando alla cronologia della sua produzione letteraria: il 1907, infatti, è anche l’anno della pubblicazione dell’edizione definitiva del saggio Il fanciullino, universalmente riconosciuto come il manifesto dell’ideale poetico pascoliano.

Nella sua produzione poetica si ritrovano anche alcune tendenze simboliste che sembrano richiamare certi autori francesi come Mallarmé e Baudelaire ma, a differenza di questi, Pascoli non arriva mai a ridurre il mondo a un’astrazione, a produrre una poesia slegata dalla realtà concreta delle cose; pur rimanendo tangibile, però, nella poetica pascoliana il reale si apre comunque ad interpretazioni allusive, nasconde verità che la sensibilità del poeta-fanciullo è in grado di recepire, cogliere e raccontare.

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2Analisi de La mia sera

Lo studio di Giovanni Pascoli a Castelvecchio, Toscana
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Questa dimensione allusiva, capace di dare agli eventi della quotidianità significati nuovi e ulteriori per chi vi si approccia con spirito sensibile, e che viene resa attraverso metafore e figure retoriche, si ritrova nel componimento La mia sera

Si tratta di una poesia composta da cinque strofe di otto versi ciascuna, i primi sette sono dei novenari, cioè versi dove l’accento cade sull’ottava sillaba metrica, e da un ultimo verso senario, cioè composto di sei sillabe con accenti che cadono sulla seconda e la quinta, e l’ultima parola di ogni strofa è sempre ‘sera

A livello ritmico tutte le strofe rispettano lo schema ABABCDCD, ad eccezione dell'ultima, che presenta uno schema irregolare

Il confronto tra una giornata di tempesta e una sera placida e tranquilla danno l’avvio alla metafora tra un passato fatto di sofferenza e tribolazioni e un presente tranquillo, un’oscillazione tra significati contrapposti che si ripropone per tutta la lunghezza della poesia e in ogni strofa.

Il componimento stesso parte con questa contrapposizione che si esprime in maniera esplicita già ai vv. 1-3, dove la giornata di burrasca, seppur appena trascorsa, viene posta in un passato lontano grazie all’uso del passato remoto, mentre la tranquillità della sera è annunciata come una promessa imminente dall’uso del futuro semplice; il periodo si chiude con la sinestesia le tacite stelle (v. 3) che riprende l’immagine del verso precedente rafforzandola.

Chiuso il periodo del v. 3 se ne aprono altri due ai vv. 3-4 e ai vv. 5-6. Nel primo si trova, al v.4, un’onomatopea data dall’utilizzo del gre gre che rende il gracidare delle rane: si tratta di una figura retorica che consiste nella riproduzione mimetica, attraverso le parole, di suoni e che è molto comune nella poetica pascoliana.

Assai più complesso è il periodo dei vv. 5-6: spezzato da un enjambement, si tratta di un’allegoria in cui il tremolìo delle foglie dei pioppi ancora umide per le piogge diventano simbolo di quella gioia leggiera (v.6), cioè della serenità portata dalla fine della tempesta.

La strofa si chiude con due versi che ripropongono il tema del contrasto tra un giorno tumultuoso di lampi e scoppi (v. 7), la cui irruenza viene sottolineata dalle forme esclamative, e la pace (v. 8) della sera.

La seconda strofa si apre con una metonimia al v. 9: l'aprirsi del cielo, il suo ripulirsi dalle nubi, viene riferito alle stelle in un processo di traslazione che rafforza l'immagine visiva delle stelle che conquistano il cielo con la loro luminosità, un'immagine che introduce alle metafore del verso successivo, dove il cielo viene definito tenero e vivo, a significare la limpidezza e la luce acquisite dopo la tempesta.

Il distico successivo riporta la narrazione all'ambientazione campestre tanto cara a Pascoli: le ranelle (v. 11) vengono personificate e il loro gracidìo diventa sintomo di allegria, alla quale si contrappone il verso successivo, dove un'altra personificazione fa riferimento alla tristezza del rivo che, con il suo fluire monotono, produce un suono simile a quello di un singhiozzo.

I quattro versi conclusivi della strofa ripropongono la contrapposizione già vista nei versi finali della prima strofa: i vv. 13-14 sottolineano la violenza della tempesta mattutina con l'anafora in fase iniziale di Di tutto, cui segue un gioco di assonanza della vocale 'u' in cupo tumulto (v. 13) e di consonanza della 'r' in aspra bufera (v. 14); i vv. 15-16 insistono invece sull'immagine della sera tranquilla anche se il dolce singulto del v. 16 l'adombra di malinconia.

La terza strofa si connota per la riproposizione, sollecita, del contrasto tra la giornata di bufera e la sera serena, che si concretizza già con l'anastrofe di infinita / finita ai vv. 17-18, dove il v. 18 è arricchito dalla metafora del rivo canoro, ulteriore personificazione che il poeta attribuisce al ruscello.  

Il distico dei vv. 19-20 è spezzato da un enjambement e presenta un ossimoro al primo verso, i fragili fulmini (v. 19), e una metafora al v. 20, i cirri di porpora e d'oro.  

Il v. 21, oltre ad essere un'apostrofe che spezza la strofa nel suo gioco di giustapposizioni, presenta anche un'altra figura retorica, la personificazione dello stanco riposo.  

La serie di contrapposizioni ricomincia subito al verso successivo prolungandosi fino alla conclusione, tre versi in cui Pascoli ritorna a descrivere il cielo nero del mattino confrontandolo con quello della sera, reso roseo dalla luce tenue del tramonto.  

La quarta strofa si apre con una coppia di versi in forma paratattica, al contrario il distico dei vv. 27-28 racchiude un periodo, rotto da un enjambement, in cui con due metonimie, la fame del povero giorno e la garrula cena, il digiuno del giorno si contrappone alla serenità di un lauto pasto serale.

Un'altra metonimia si ritrova nel periodo successivo in cui l'attenzione della descrizione ritorna sulle rondini, e in particolare sui loro piccoli: in questo caso la metonimia si ritrova nella parola nidi un contenitore che in realtà allude ai pulcini in esso contenuti.

Al v. 31 il poeta fa entrare sé stesso nel racconto poetico anticipando il tema della strofa conclusiva.

La quinta strofa rivela tutto il piano autobiografico e allegorico del componimento: il confronto costante, il parallelismo tra la giornata cupa e tempestosa e la sera quieta, malinconica ma serena, rispecchia in pieno la vita del poeta che, dopo una gioventù costellata di lutti famigliari, arriva ad una maturità pacifica in cui l'infanzia diventa un ricordo dolce e lontano, un luogo di felicità da ricostruire attraverso la memoria.

Si rompe lo schema ritmico tenuto fino a quel momento per tutta il componimento, e in questo senso va notato quanto accade al v. 36 che termina con la parola sussurra, che può essere collegata per consonanza ai vv. 37 e 39 che terminano in culla e nulla.

I primi tre versi si caratterizzano per l'uso delle onomatopee che riproducono il suono delle campane al v. 33 e per l'uso dei verbi sussurrano e bisbigliano che riproducono suoni attutiti e sibilati; i primi tre versi, inoltre, si caratterizzano anche per i periodi brevissimi che si succedono in posizione paratattica.

L'anastrofe del v. 36 contiene anche la sinestesia delle voci di tenebra azzurra: in questo caso la sinestesia è resa dalla descrizione delle voci lontane nel buio della sera attraverso un complesso trasferimento di qualità di colori alle voci che si sentono in lontananza, così una sensazione uditiva e una visiva risultano mescolate e indistinte.

Gli ultimi quattro versi della poesia segnano il definitivo ripiegamento narrativo sul piano personale: la tranquillità e l'ambiente rarefatto della sera aprono al ricordo malinconico dell'infanzia perduta, alla nostalgia per la figura materna. Se i versi precedenti si basano tutti su ricche descrizioni basate su ciò che i sensi riescono a percepire, gli ultimi descrivono invece il progressivo abbandono del poeta che, cullato dai ricordi, arriva a non sentire più nulla (v. 39) in una sensazione che può tanto alludere al sonno quanto alla morte.

3La mia sera: testo e parafrasi

Testo

Il giorno fu pieno di lampi;
ma ora verranno le stelle,
le tacite stelle. Nei campi
c’è un breve gre gre di ranelle.
Le tremule foglie dei pioppi
trascorre una gioia leggiera.
Nel giorno, che lampi! che scoppi!
Che pace, la sera!

Si devono aprire le stelle
nel cielo sì tenero e vivo.
Là, presso le allegre ranelle,
singhiozza monotono un rivo.
Di tutto quel cupo tumulto,
di tutta quell’aspra bufera,
non resta che un dolce singulto
nell’umida sera.

È, quella infinita tempesta,
finita in un rivo canoro.
Dei fulmini fragili restano
cirri di porpora e d’oro.
O stanco dolore, riposa!
La nube nel giorno più nera
fu quella che vedo più rosa
nell’ultima sera.

Che voli di rondini intorno!
che gridi nell’aria serena!
La fame del povero giorno
prolunga la garrula cena.
La parte, sì piccola, i nidi
nel giorno non l’ebbero intera.
Nè io... e che voli, che gridi,
mia limpida sera!

Don... Don... E mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
là, voci di tenebra azzurra...
Mi sembrano canti di culla,
che fanno ch’io torni com’era...
sentivo mia madre... poi nulla...
sul far della sera.

Parafrasi

È stata una giornata di tempesta
ma ora verranno le stelle,
le silenziose stelle. Nei campi
si sente il gracidìo delle rane
Sulle tremanti foglie dei pioppi
scivola leggera la felicità.
In giornata i lampi! E fragorosi tuoni
Di sera la pace!

Le stelle si lasciano vedere
nel cielo limpido e sereno.
Lì vicino a dove gracidano le rane,
un ruscello scorre tranquillo.
Di tutto quel buio sconquasso
di tutta quella violenta tempesta,
non resta che un calmo singhiozzo
nell'umida sera.

Quella tempesta che pareva infinita
s'è conclusa nel gorgoglìo di un ruscello.
Dei fulmini improvvisi rimangono
nuvole rosse e dorate.
Oh, vecchio dolore, riposa!
La nuvola più nera della giornata
è quella che mi appare più rosea
alla fine della sera.

Come volano le rondini in stormi!
Come garriscono nel cielo sereno!
La fame dovuta al giorno frugale
prolunga la cena gioiosa.
La loro parte, già piccola, i pulcini
nel nido non l'hanno avuta tutta durante il giorno.
E nemmeno io... che bei voli, e che belle grida,
oh mia serena sera!

Don... Don... Mi dicono, Dormi!
mi cantano, Dormi! sussurrano,
Dormi! bisbigliano, Dormi!
In lontananza, voci nella notte blu e oscura...
Mi sembrano nenie per la culla,
che mi fanno tornare bambino...
sentivo la voce di mia madre... poi il silenzio
quando si faceva sera.

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