La Ginestra di Leopardi: parafrasi del testo

Leggi la parafrasi de La Ginestra di Giacomo Leopardi e comprendi i temi del pessimismo cosmico, il ruolo della solidarietà umana e il simbolismo del fiore nella poetica leopardiana

La Ginestra di Leopardi: parafrasi del testo
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La ginestra

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L'interrogazione su Giacomo Leopardi si avvicina e, leggendo la poesia La Ginestra, non sai come venirne a capo? Non ti preoccupare: noi di Studenti.it abbiamo preparato per te una dettagliata parafrasi del componimento dell'autore di Recanati, dalla quale potrai attingere per portare a termine l'analisi del testo.

La ginestra: parafrasi

VV. 1-51

Qui sulle aride pendici
del terribile vulcano
distruttore, il Vesuvio,
che non sono rallegrate da nessun albero né fiore,
tu spargi i tuoi rami solitari,
o profumata Ginestra,
felice di trovarti nei deserti. Ti ho già vista
abbellire con i tuoi steli le campagne disabitate
che circondano la città (Roma)
che un tempo fu dominatrice degli esseri umani,
e sembra che questi luoghi col loro aspetto cupo e silenzioso
testimonino e ricordino a chi passa
il grande impero perduto.
Ti rivedo ora su questo suolo, tu che sei amante
di luoghi tristi e abbandonati dal mondo,
e sempre compagna di grandezze decadute.
Questi terreni, cosparsi
di ceneri sterili, e ricoperti
dalla lava solidificata,
che risuona sotto i passi del viandante;
dove si annida e si contorce sotto al sole
il serpente, e dove il coniglio torna
all’abituale tana tra le caverne;
furono città ricche e campi coltivati,
biondeggiarono di campi di grano, e risuonarono
di muggiti delle mandrie;
furono giardini e ville sontuose,
un gradito rifugio
per l’ozio dei potenti; e furono città famose
che il vulcano indomabile, eruttando
dalla bocca di fuoco torrenti di lava
distrusse insieme con i loro abitanti. Ora qui intorno
la rovina avvolge tutto,
là dove tu hai radici, o fiore gentile e, quasi
compiangendo le miserie altrui, verso il cielo
emani un profumo assai dolce,
che allieta il paesaggio desertico. A questi luoghi deserti
si rechi chi è solito esaltare ed elogiare
la nostra umana condizione, e veda
quanto la natura benigna si preoccupa
dell’uomo. E in maniera opportuna
potrà anche valutare
la potenza del genere umano,
che la natura, crudele nutrice, quando l’uomo meno se l’aspetta,
con una scossa impercettibile distrugge in parte
in un solo momento, è può con moti
poco meno lievi all’improvviso
annientare del tutto.

VV. 52-86

Qui guardati e ammira la tua immagine riflessa,
secolo superbo e stolto,
che hai abbandonato la strada segnata
sin qui dal pensiero rinascimentale,
e tornato sui tuoi passi,
ti vanti del tuo procedere all’indietro,
e lo chiami addirittura progresso.
Tutti gli ingegni,
di cui una sorte malvagia ti ha reso padre,
sono intenti ad adulare il tuo atteggiamento infantile,
benché a volte, tra di loro,
si facciano beffe di te. Io non
verrò sotterrato macchiandomi di una simile vergogna;
ma piuttosto avrò mostrato chiaramente
il disprezzo nei tuoi confronti
che è rinchiuso nel mio cuore:
benché io sappia che all’oblio
è destinato chi troppo ha biasimato il proprio tempo.
Di questo male, che sarà in comune
tra me e te, finora ne rido molto.
Vai sognando la libertà, e nel frattempo vuoi
che il pensiero sia di nuovo servo, (quel pensiero)
in virtù del quale soltanto risorgemmo
in parte dalla barbarie, e per cui solo
si può crescere in civilizzazione, che da sola guida
i destini dei popoli verso il meglio.


Perciò ti ha infastidito la verità
sulla sorte amara e sul mondo infelice
che la natura ci ha assegnato. Per questo motivo,
vigliaccamente hai voltato le spalle al pensiero
che ci ha mostrato queste cose: e, mentre fuggi,
chiami vile chi segue quella via,
e definisci magnanimo solo chi,
astuto o stolto, illudendo sé stesso o gli altri,
esalta fin sopra le stelle la condizione umana.

VV. 87-157

Un uomo di umile condizione e salute cagionevole,
che abbia grandezza d’animo e nobili sentimenti,
non definisce né reputa se stesso
ricco di beni o di vigore fisico,
e non ostenta ridicolmente
tra la gente la sua vita lussuosa
o il suo bell’aspetto;
ma senza vergogna si mostra privo
di forza fisica e di beni materiali, e chiama
apertamente le cose col loro nome, e stima
le sue cose in modo aderente alla verità.
Non penso che sia un essere
magnanimo, ma sciocco chi,
nato per morire, nutrito di sofferenze,
afferma: “Sono stato creato per essere felice”,
e di nauseante orgoglio
riempie i suoi scritti, promettendo in terra,
a quei popoli che un’onda di
un mare tempesta,
una pestilenza, un terremoto
possono distruggere in modo che
ne sopravviva a stento il ricordo,
un destino esaltante e straordinarie
felicità, che il cielo stesso ignora.
Nobile spirito è quello
che ha il coraggio di sollevare
i propri occhi mortali contro
il destino comune, e che con parole oneste,
senza nulla togliere alla verità,
confessa il male che ci è stato assegnato,
e la nostra insignificante e fragile condizione;
quello che si mostra coraggioso e forte
nella sofferenza, e che non aggiunge
alle sue sciagure
né gli odi né le ire fraterne,
più gravi ancora di ogni altro danno,
dando la responsabilità all’uomo del suo dolore,
ma dà la colpa a colei che è davvero responsabile (la natura),
che per gli uomini è madre perché li ha generati e matrigna per come li tratta.
Chiama nemica costei (la natura); e pensando
di essere, com’è vero,
unita e schierata contro di lei,
la società umana
ritiene che tutti gli uomini siano alleati tra loro
e tutti li stringe in un abbraccio
con vera partecipazione, offrendo
ed aspettando un valido e rapido aiuto
nelle alterne difficoltà e nelle sofferenze
della comune lotta. E crede che
sia cosa stolta armarsi e porre insidie
per contrastare un proprio simile,
così come sarebbe stupido,
in un campo di battaglia circondato dai nemici,
nel momento più feroce dell’assalto,
dimenticando i nemici, aprire
aspre ostilità contro i proprio compagni
e disseminare la fuga o tirare colpi di spada
tra i propri guerrieri.
Quando considerazioni di questo tipo
saranno, come lo sono state in passato, evidenti al popolo;
e quel terrore che per primo
unì gli uomini contro la natura malvagia
in una catena di solidarietà,
sarà ricondotto in parte
a una vera sapienza, allora l’onestà e la rettitudine
degli esseri umani
e la giustizia e la pietà, avranno un’altra radice
che non l’ottusa fiducia,
sulle cui fondamenta la mentalità del popolo
è solita star in equilibrio come può stare
chi ha il proprio fondamento nell’errore.

VV. 158-201

Spesso siedo nottetempo su questi luoghi,
che, deserti, la lava solidificata,
e sembra muoversi ancora, ricopre di un colore
marrone scuro; e sul triste paesaggio,
sotto un cielo terso e pulitissimo
vedo risplendere le stelle nel cielo,
alle quali il mare, da lontano, fa da specchio,
e tutto il mondo brilla di scintille
per l’universo sereno.
E fissando con gli occhi quelle luci,
che a loro paiono solo dei puntini,
e invece sono talmente grandi, che in realtà
terra e mare sono solo un punto al loro
cospetto; alle quali
non solo l’uomo,
ma questa stessa Terra dove l’uomo vale nulla,
è del tutto sconosciuto; e quando ammiro
quelle lontane e infinite
costellazioni di stelle,
che ci sembrano come una nebbia, alle quali non l’uomo,
non la terra soltanto, ma tutte insieme le nostre stelle,
infinite per numero e per mole,
insieme col sole dorato
o sono sconosciute o appaiono come
loro sembrano alla Terra, e cioè
un punto di luce fioca; allora come appari
al mio pensiero,
o stirpe umana? E ricordando
il tuo stato sulla terra, di cui è testimonianza
il suolo vulcanico che io calpesto; e d’altra parte
(ricordando) che ti reputi padrona
e fine ultimo dell’universo; e (ricordando) quante volte
ti è piaciuto fantasticare su come i creatori (gli dei)
del mondo siano scesi su questo oscuro
granello di sabbia, che ha nome Terra,
per causa tua, e su come spesso abbiano conversato
piacevolmente con i tuoi simili; e (ricordando)
che perfino la presente età, che per conoscenza
e costume civile
sembra essere così superiore alle età precedenti,
insulta i saggi, raccontando di nuovo
sogni già derisi in passato;
che sentimento o che pensiero, o umanità infelice,
assale alla fine il mio cuore nei tuoi confronti?
Non so se prevale il riso o la pietà.

VV. 202-236

Come un piccolo frutto cadendo dall’albero,
che nell’autunno inoltrato la maturazione
fa precipitare a terra senza altra forza,
schiaccia, annienta e sommerge
in un attimo gli accoglienti nidi di un popolo di formiche,
scavati nel terreno molle
con gran lavoro, e le gallerie
e le riserve di cibo che con lunga fatica
le infaticabili formiche in gara tra loro hanno
raccolto con previdenza nella stagione estiva;
così, piombando dall’alto,
dalle viscere rumorose del vulcano
scagliate in alto verso il cielo,
le tenebre
fatte di cenere, pomice e sasso,
mescolate ai bollenti ruscelli,
oppure un’immensa piena
di massi liquefatti
di metalli e di sabbia infuocata,
che scende furiosa tra l’erba,
lungo il fianco del monte
sconvolse, distrusse e ricoprì
in pochi attimi
le città che il mare bagnava
sulla costa: così ora su quelle città pascola
la capra, e nuove città
sorgono all’esterno della colata, a cui fanno
da sgabello le città sepolte, e l’alto monte
quasi calpesta col suo piede le mura crollate.


La natura non nutre per il genere
umano maggiore stima o cura
che per la formica: e se la strage
avviene più raramente tra quelli (gli uomini) che tra queste (le formiche),
ciò avviene d’altra solo perché
la stirpe degli uomini è meno feconda.

VV. 237-296

Sono passati ben mille e ottocento
anni da quando scomparirono, sepolti
dalla forza della lava infuocata, le affollate città
e il contadino intento a lavorare
nei vigneti, che la terra arida e bruciata,
nutre a fatica in questi campi,
alza tuttora lo sguardo
sospettoso verso la cima del vulcano
portatore di morte, che per nulla resa più mite,
ancora lo sovrasta tremenda, ancora minaccia
una strage a lui (il contadino), ai suoi figli
e ai loro miseri averi. E spesso
il poverello sul tetto
della sua rustica casa, trascorrendo
insonne tutta la notte all’aperto,
e sobbalzando più volte (per la paura), osserva ansioso
il procedere del temuto ribollire, che cola
dalle inesauribili viscere
sul pendio sabbioso, al cui bagliore risplende
la marina di Capri
e il porto di Napoli e il quartiere Mergellina.
E se lo vede avvicinarsi, o se sente
per caso gorgogliare in fermento
nel profondo del pozzo di casa, sveglia i figli,
sveglia la moglie in fretta, e subito va via, con quanto
delle loro cose possono prendere e, in fuggendo,
vede da lontano la quotidiana
abitazione, e il modesto campo,
che costituì per lui l’unica difesa alla fame,
preda della colata incandescente
che avanza con mille crepitii, e inesorabile
si stende per sempre sopra quelli (campo e casa).
Alla luce del sole torna,
dopo un oblio secolare, l’estinta
Pompei, come uno scheletro
sepolto, che dalla terra viene all’aperto
per desiderio di ricchezza o pietà;
e dal foro deserto
dritto in mezzo alle fila
dei colonnati diroccati il pellegrino
contempla da lontano la doppia cima (il Vesuvio e il monte Somma)
e il pennacchio di fumo,
che ancora minaccia le rovine sparse (di Pompei).
E nell’orrore della notte oscura
per i teatri abbandonati,
per i templi crollati e le case
devastate, dove il pipistrello nasconde i propri figli,
come una fiaccola misteriosa
che si aggiri lugubre tra i palazzi vuoti,
corre il bagliore della lava assassina,
che da lontano in mezzo all’ombra
rosseggia e colora i luoghi tutt’intorno.
Così, del tutto indifferente all’uomo e alle ere
che egli chiama antiche, e del susseguirsi
delle generazioni umane,
la natura rimane sempre giovane e vigorosa, ed anzi procede
per un cammino così lungo che ella pare
immobile. Nel frattempo, crollano i governi,
passano le genti e le culture: ella non se ne accorge:
e l’uomo pretende il diritto all’eternità.

VV. 297-317

E tu, flessibile ginestra,
che con i tuoi cespugli odorosi
adorni queste campagne desertificate,
anche tu presto soccomberai alla potenza
crudele della lava in eruzione,
che ritornando ai luoghi
già colpiti, stenderà sui tuoi molli rami
il suo mantello avido di morte.

E piegherai
sotto la colata mortale senza opporre resistenza
il tuo capo innocente:
ma senza averlo piegato fino a quel momento,
con suppliche inutili e codarde
al futuro oppressore; e senza averlo alzato
con forsennato orgoglio contro le stelle,
né sul deserto, dove
tu sei nata e hai dimora
non per scelta ma per gioco del caso;
ma più saggia, e tanto
meno debole ed insensata dell’uomo, poiché
non hai mai creduto che la tua specie
fosse stata resa immortale o dal destino o da te stessa.

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