La ginestra di Leopardi: testo, parafrasi, analisi
Indice
1La ginestra di Leopardi: testo e parafrasi
Testo
Καὶ ἠγάπησαν οἱ ἄνθρωποι µᾶλλον τὸ σκότος ἢ τὸ φῶς
E gli uomini vollero piuttosto le tenebre che la luce.
Giovanni, III, 19
Qui sull'arida schiena 1
del formidabil monte
sterminator Vesevo,
la qual null'altro allegra arbor né fiore,
tuoi cespi solitari intorno spargi, 5
odorata ginestra,
contenta dei deserti. Anco ti vidi
de' tuoi steli abbellir l'erme contrade
che cingon la cittade
la qual fu donna de' mortali un tempo, 10
e del perduto impero
par che col grave e taciturno aspetto
faccian fede e ricordo al passeggero.
Or ti riveggo in questo suol, di tristi
lochi e dal mondo abbandonati amante, 15
e d'afflitte fortune ognor compagna.
Questi campi cosparsi
di ceneri infeconde, e ricoperti
dell'impietrata lava,
che sotto i passi al peregrin risona; 20
dove s'annida e si contorce al sole
la serpe, e dove al noto
cavernoso covil torna il coniglio;
fur liete ville e colti,
e biondeggiàr di spiche, e risonaro 25
di muggito d'armenti;
fur giardini e palagi,
agli ozi de' potenti
gradito ospizio; e fur città famose
che coi torrenti suoi l'altero monte 30
dall'ignea bocca fulminando oppresse
con gli abitanti insieme. Or tutto intorno
una ruina involve,
dove tu siedi, o fior gentile, e quasi
i danni altrui commiserando, al cielo 35
di dolcissimo odor mandi un profumo,
che il deserto consola. A queste piagge
venga colui che d'esaltar con lode
il nostro stato ha in uso, e vegga quanto
è il gener nostro in cura 40
all'amante natura. E la possanza
qui con giusta misura
anco estimar potrà dell'uman seme,
cui la dura nutrice, ov'ei men teme,
con lieve moto in un momento annulla 45
in parte, e può con moti
poco men lievi ancor subitamente
annichilare in tutto.
Dipinte in queste rive
son dell'umana gente 50
le magnifiche sorti e progressive.
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che il calle insino allora
dal risorto pensier segnato innanti 55
abbandonasti, e volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e procedere il chiami.
Al tuo pargoleggiar gl'ingegni tutti,
di cui lor sorte rea padre ti fece 60
vanno adulando, ancora
ch'a ludibrio talora
t'abbian fra se. Non io
con tal vergogna scenderò sotterra;
ma il disprezzo piuttosto che si serra 65
di te nel petto mio,
mostrato avrò quanto si possa aperto:
ben ch'io sappia che obblio
preme chi troppo all'età propria increbbe.
Di questo mal, che teco 70
mi fia comune, assai finor mi rido.
Libertà vai sognando, e servo a un tempo
vuoi di nuovo il pensiero,
sol per cui risorgemmo
della barbarie in parte, e per cui solo 75
si cresce in civiltà, che sola in meglio
guida i pubblici fati.
Così ti spiacque il vero
dell'aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo 80
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe palese: e, fuggitivo, appelli
vil chi lui segue, e solo
magnanimo colui
che se schernendo o gli altri, astuto o folle, 85
fin sopra gli astri il mortal grado estolle.
Uom di povero stato e membra inferme
che sia dell'alma generoso ed alto,
non chiama se nè stima
ricco d'or nè gagliardo, 90
e di splendida vita o di valente
persona infra la gente
non fa risibil mostra,
ma se di forza e di tesor mendico
lascia parer senza vergogna, e noma 95
parlando, apertamente, e di sue cose
fa stima al vero uguale.
Magnanimo animale
non credo io già, ma stolto,
quel che nato a perir, nutrito in pene, 100
dice, a goder son fatto,
e di fetido orgoglio
empie le carte, eccelsi fati e nove
felicità, quali il ciel tutto ignora,
non pur quest'orbe, promettendo in terra 105
a popoli che un'onda
di mar commosso, un fiato
d'aura maligna, un sotterraneo crollo
distrugge sì che avanza
a gran pena di lor la rimembranza. 110
Nobil natura è quella
che a sollevar s'ardisce
gli occhi mortali incontra
al comun fato, e che con franca lingua,
nulla al ver detraendo, 115
confessa il mal che ci fu dato in sorte,
e il basso stato e frale;
quella che grande e forte
mostra se nel soffrir, nè gli odii e l'ire
fraterne, ancor più gravi 120
d'ogni altro danno accresce
alle miserie sue, l'uomo incolpando
del suo dolor, ma dà la colpa a quella
Che veramente è rea, che de' mortali
Madre è di parto e di voler matrigna.
Costei chiama inimica; e incontro a questa 125
congiunta esser pensando,
siccome è il vero, ed ordinata in pria
l'umana compagnia
tutti fra se confederati estima 130
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese 135
dell'uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede così, qual fora in campo
cinto d'oste contraria, in sul più vivo
incalzar degli assalti, 140
gl'inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.
Così fatti pensieri 145
quando fien, come fur, palesi al volgo,
e quell'orror che primo
contro l'empia natura
strinse i mortali in social catena,
fia ricondotto in parte 150
da verace saper, l'onesto e il retto
conversar cittadino,
e giustizia e pietade, altra radice
avranno allor che non superbe fole,
ove fondata probità del volgo 155
così star suole in piede
quale star può quel ch'ha in error la sede.
Sovente in queste rive,
che, desolate, a bruno
veste il flutto indurato, e par che ondeggi, 160
seggo la notte; e sulla mesta landa
in purissimo azzurro
veggo dall'alto fiammeggiar le stelle,
cui di lontan fa specchio
il mare, e tutto di scintille in giro 165
per lo vòto seren brillare il mondo.
E poi che gli occhi a quelle luci appunto,
ch'a lor sembrano un punto,
e sono immense, in guisa
che un punto a petto a lor son terra e mare 170
veracemente; a cui
l'uomo non pur, ma questo
globo ove l'uomo è nulla,
sconosciuto è del tutto; e quando miro
quegli ancor più senza alcun fin remoti 175
nodi quasi di stelle,
ch'a noi paion qual nebbia, a cui non l'uomo
e non la terra sol, ma tutte in uno,
del numero infinite e della mole,
con l'aureo sole insiem, le nostre stelle 180
o sono ignote, o così paion come
essi alla terra, un punto
di luce nebulosa; al pensier mio
che sembri allora, o prole
dell'uomo? E rimembrando 185
il tuo stato quaggiù, di cui fa segno
il suol ch'io premo; e poi dall'altra parte,
che te signora e fine
credi tu data al Tutto, e quante volte
favoleggiar ti piacque, in questo oscuro 190
granel di sabbia, il qual di terra ha nome,
per tua cagion, dell'universe cose
scender gli autori, e conversar sovente
co' tuoi piacevolmente, e che i derisi
sogni rinnovellando, ai saggi insulta 195
fin la presente età, che in conoscenza
ed in civil costume
sembra tutte avanzar; qual moto allora,
mortal prole infelice, o qual pensiero
verso te finalmente il cor m'assale? 200
Non so se il riso o la pietà prevale.
Come d'arbor cadendo un picciol pomo,
cui là nel tardo autunno
maturità senz'altra forza atterra,
d'un popol di formiche i dolci alberghi, 205
cavati in molle gleba
con gran lavoro, e l'opre
e le ricchezze che adunate a prova
con lungo affaticar l'assidua gente
avea provvidamente al tempo estivo, 210
schiaccia, diserta e copre
in un punto; così d'alto piombando,
dall'utero tonante
scagliata al ciel profondo,
di ceneri e di pomici e di sassi 215
notte e ruina, infusa
di bollenti ruscelli,
o pel montano fianco
furiosa tra l'erba
di liquefatti massi 220
e di metalli e d'infocata arena
scendendo immensa piena,
le cittadi che il mar là sull'estremo
lido aspergea, confuse
e infranse e ricoperse 225
in pochi istanti: onde su quelle or pasce
la capra, e città nove
sorgon dall'altra banda, a cui sgabello
son le sepolte, e le prostrate mura
l'arduo monte al suo piè quasi calpesta. 230
Non ha natura al seme
dell'uom più stima o cura
che alla formica: e se più rara in quello
che nell'altra è la strage,
non avvien ciò d'altronde 235
fuor che l'uom sue prosapie ha men feconde.
Ben mille ed ottocento
anni varcàr poi che spariro, oppressi
dall'ignea forza, i popolati seggi,
e il villanello intento 240
ai vigneti, che a stento in questi campi
nutre la morta zolla e incenerita,
ancor leva lo sguardo
sospettoso alla vetta
fatal, che nulla mai fatta più mite 245
ancor siede tremenda, ancor minaccia
a lui strage ed ai figli ed agli averi
lor poverelli. E spesso
il meschino in sul tetto
dell'ostel villereccio, alla vagante 250
aura giacendo tutta notte insonne,
e balzando più volte, esplora il corso
del temuto bollor, che si riversa
dall'inesausto grembo
sull'arenoso dorso, a cui riluce 255
di Capri la marina
e di Napoli il porto e Mergellina.
E se appressar lo vede, o se nel cupo
del domestico pozzo ode mai l'acqua
fervendo gorgogliar, desta i figliuoli, 260
desta la moglie in fretta, e via, con quanto
di lor cose rapir posson, fuggendo,
vede lontan l'usato
suo nido, e il picciol campo,
che gli fu dalla fame unico schermo, 265
preda al flutto rovente,
che crepitando giunge, e inesorato
durabilmente sovra quei si spiega.
Torna al celeste raggio
dopo l'antica obblivion l'estinta 270
Pompei, come sepolto
scheletro, cui di terra
avarizia o pietà rende all'aperto;
e dal deserto foro
diritto infra le file 275
dei mozzi colonnati il peregrino
lunge contempla il bipartito giogo
e la cresta fumante,
che alla sparsa ruina ancor minaccia.
E nell'orror della secreta notte 280
per li vacui teatri,
per li templi deformi e per le rotte
case, ove i parti il pipistrello asconde,
come sinistra face
che per voti palagi atra s'aggiri, 285
corre il baglior della funerea lava,
che di lontan per l'ombre
rosseggia e i lochi intorno intorno tinge.
Così, dell'uomo ignara e dell'etadi
ch'ei chiama antiche, e del seguir che fanno 290
dopo gli avi i nepoti,
sta natura ognor verde, anzi procede
per sì lungo cammino
che sembra star. Caggiono i regni intanto,
passan genti e linguaggi: ella nol vede: 295
e l'uom d'eternità s'arroga il vanto.
E tu, lenta ginestra,
che di selve odorate
queste campagne dispogliate adorni,
anche tu presto alla crudel possanza 300
soccomberai del sotterraneo foco,
che ritornando al loco
già noto, stenderà l'avaro lembo
su tue molli foreste. E piegherai
sotto il fascio mortal non renitente 305
il tuo capo innocente:
ma non piegato insino allora indarno
codardamente supplicando innanzi
al futuro oppressor; ma non eretto
con forsennato orgoglio inver le stelle, 310
nè sul deserto, dove
e la sede e i natali
non per voler ma per fortuna avesti;
ma più saggia, ma tanto
meno inferma dell'uom, quanto le frali 315
tue stirpi non credesti
o dal fato o da te fatte immortali.
Parafrasi
2La ginestra di Leopardi: analisi
La ginestra o il fiore del deserto è una canzone che Leopardi ha composto nella primavera del 1836, con ogni probabilità prima del Tramonto della luna. La canzone fu poi stampata postuma nei Canti del 1845: la collocazione alla fine della raccolta, le dimensioni straordinarie e le caratteristiche tematiche e formali ne fanno una sorta di testamento lirico-filosofico di Giacomo Leopardi.
2.1Quello della Ginestra è un testo 'eccezionale'
La ginestra è il testo più lungo dei Canti di Leopardi: le sue sette strofe hanno dimensioni eccezionali e i suoi lunghi periodi si snodano a volte a cavallo di decine di versi (vv. 17-32, 98-110, 167-185). Si tratta, quindi, di un vero e proprio poemetto lirico-filosofico, che per dimensioni e per genere può farci tornare in mente i Sepolcri di Ugo Foscolo: dai Sepolcri lo distingue, però, un superiore grado di innovazione, di audacia formale e di radicalità intellettuale.
Lo stile del testo della Ginestra è molto vario e intreccia in modo inestricabile toni diversi: quelli aspri e infuocati della polemica, quelli difficili e sublimi della contemplazione che produce ragionamento, e quelli più dolci del dialogo lirico.
La materia è distribuita nelle sette strofe in modo che ognuna costituisca un'unità tematica e presenti una ricca gradazione di toni, dal sarcasmo all'invettiva, dalla compassione all'elegia commossa.
2.2Struttura e temi
Nella prima strofa la ginestra è scelta come interlocutrice del poeta e le pendici del Vesuvio, sede un tempo di città fiorenti e ora deserte e cosparse di rovine (prodotte dalle eruzioni del vulcano), costituiscono lo 'spazio simbolico' del destino tragico dell'umanità. A prevalere, in questa strofa iniziale, è il sarcasmo, che culmina con l'irrisione dei falsi idoli del progresso umano («le magnifiche sorti e progressive», v. 51).
Nella seconda strofa il poeta definisce l'Ottocento «secol superbo e sciocco» (v. 53) e lo accusa di avere rifiutato le coraggiose verità del pensiero razionalista; a dominare sono ancora il tono e le parole sprezzanti dell'invettiva.
La terza strofa oppone la stupidità di chi si rifiuta di constatare la miseria umana alla grandezza di chi osa guardare in faccia questa miseria e attribuirne la responsabilità alla natura, contro la quale gli uomini sono chiamati a far fronte comune e a stringere legami di solidarietà sociale («social catena», v. 149).
Nella quarta strofa la prospettiva dell'infelicità umana si allarga: dall'esperienza individuale del poeta – che rievoca momenti di contemplazione notturna dello spazio sconfinato – scaturisce una meditazione universale indotta dalla visione degli spazi celesti. Di fronte alle inutili pretese dell'uomo di essere il centro dell'universo si stempera il tono sdegnato del sarcasmo, e il poeta – così scrive – non sa se cedere alla compassione o al riso.
La quinta strofa contiene una lunga similitudine: come un frutto che distrugge, cadendo da un albero, un intero formicaio, allo stesso modo l'eruzione del Vesuvio del 79 d.C. si riversò disastrosamente sulle città sottostanti (Pompei, Ercolano, Stabia), cancellandole; per la natura indifferente, dunque, il destino dell'uomo non conta più di quello di una formica.
Nella sesta strofa si osserva l'incessante potenzialità distruttiva del vulcano e viene presentato un raffronto fra il tempo umano e i grandi cicli naturali, che in un moto lentissimo ma continuo travolgono ogni cosa, anche se appaiono immobili.
Nella settima e ultima strofa il poeta si rivolge nuovamente alla ginestra e ne elogia l'umiltà e il coraggio: fragile consolatrice del deserto, anche la ginestra è destinata a soccombere alla «crudel possanza» (v. 300) della natura; ciò non ne scalfisce l''eroismo', ma, anzi, lo esalta. Qui, il tono oramai commosso e il lessico vago («lenta, odorate, adorni, molli») suggeriscono la partecipazione del poeta al destino di annientamento di tutte le cose e, in particolare, all'eroica (r)esistenza della ginestra.
2.3Il paesaggio e la natura
Il tema fondamentale della poesia è la contemplazione del paesaggio vesuviano, specchio perfetto della condizione umana e del rapporto tra uomo e natura. Il paesaggio appare di volta in volta desertico, minaccioso, imponente, estraneo: esso incarna l'indifferenza e la ferocia che Leopardi, a questo punto della sua riflessione poetica e filosofica, attribuisce alla natura.
La natura è la responsabile del dolore degli uomini e, più in generale, della sofferenza di tutti gli esseri viventi. Questa posizione è radicalmente diversa da quella che Leopardi aveva sostenuto anni prima, al tempo del cosiddetto 'pessimismo storico', quando, cioè, la negatività del presente era vista come perdita di una condizione primitiva relativamente felice.
Il cambiamento di prospettiva si è operato intorno al 1824 con la scrittura delle Operette morali. Nel Dialogo della Natura e di un Islandese appare, infatti, per la prima volta l'immagine di una natura 'matrigna', che infligge alle proprie creature ogni sorta di sofferenza (intemperie, cataclismi, malattie), fino a portarle alla morte, necessaria al rinnovamento del ciclo biologico. Questa concezione della natura resta sullo sfondo nei Canti fino al periodo napoletano, quando diventa centrale nella serie di poesie che culmina nella Ginestra.
È questa visione negativa della natura, per cui ogni essere vivente è condannato all'infelicità, che ha motivato la definizione di 'pessimismo cosmico' per la seconda fase del pensiero leopardiano. Lo sguardo di Leopardi, dapprima proiettato indietro, nel tempo di un mitico passato felice, adesso comprende nel suo destino di infelicità l'intero universo, superando i confini del mondo terrestre («il ciel tutto ignora, / non pur quest'orbe», vv. 104-105; «nodi quasi di stelle», v. 176).
2.4Natura, storia e civiltà
Rispetto a questa natura onnipotente e distruttrice, simboleggiata dal terribile Vesuvio, la storia umana sembra non avere senso: i «mille e ottocento / anni» (vv. 237-238) trascorsi dalla distruzione di Pompei non hanno visto cambiare in nulla la fragilità degli uomini, sempre esposti alla stessa minaccia mortale.
Forte di questa evidenza, Leopardi deride l'ottimismo dei pensatori suoi contemporanei, sostenitori delle «magnifiche sorti e progressive» dell'umanità (v. 51), e accusa di codardia il suo tempo, che rifiuta di vedere la realtà delle cose.
Eppure, anche se la storia umana appare inutile perché condizionata dalle leggi della natura, la civiltà assume per Leopardi un valore positivo: la «social catena», ossia la solidarietà, permette infatti agli uomini di reagire alle ingiustizie della natura.
Qui mira e qui ti specchia, / secol superbo e sciocco, / che il calle insino allora / dal risorto pensier segnato innanti / abbandonasti, e volti addietro i passi, / del ritornar ti vanti, / e procedere il chiami.
Giacomo Leopardi, La Ginestra (vv. 52-58)
3Ascolta la lezione dedicata alle opere di Giacomo Leopardi
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4Guarda il video su La ginestra
In questo video Emanuele Bosi ci spiega qualcosa in più su La ginestra di Leopardi.
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