L'Infinito di Giacomo Leopardi: parafrasi e commento
Indice
1L'introduzione a L'infinito
L’infinito, che occupa la dodicesima posizione dei Canti, è uno dei testi più rappresentativi di Leopardi e di tutta la letteratura italiana. È una composizione appartenente al genere dell’idillio, ed è in perfetto equilibrio tra sensazioni, emozioni e riflessioni: il dato fisico (il colle solitario, la siepe, il vento, il fruscio delle foglie), dopo essere stato percepito dai sensi permette all’immaginazione di innalzarsi e di vagare in «interminati spazi», finché anche il cuore prova una forte emozione: «ove per poco / il cor non si spaura», (vv. 7-8).
Questo breve idillio esprime il desiderio del giovane poeta di godere dell’immensità. Infinito spaziale («interminati spazi»), infinito temporale («e mi sovvien l’eterno») si fondono insieme, ma sempre partendo da un dato oggettivo e fisico: la siepe nel primo caso; il vento nel secondo. Quindi non è un infinito mistico-spirituale, ma solo materiale: i sensi sono sempre il punto di partenza di ogni possibile riflessione. Di fronte all’infinito materiale il cuore ha un sussulto, un brivido, che gli deriva dal pensiero.
Possiamo quindi dire che Leopardi ha un’emozione intellettuale, perché non nasce da un affetto (come l’amore), ma da un cosciente ragionamento. A ben vedere, poi, l’uomo è sempre stato spaventato nel contemplare l’immensità: la trova bellissima e tremenda, come un cielo stellato. Eppure l’uomo ha in dono la capacità di immaginare, ma anche, in un certo senso, la condanna del desiderio di oltrepassare ogni limite, esperienza connaturata all’uomo. Siamo arrivati sulla Luna e, se potessimo, vorremmo toccare ogni sponda dell’Universo. Perché, appunto, l’uomo ha immaginato di poterlo fare, e immaginandolo, l’ha desiderato. La poesia è stata frutto di numerose rielaborazioni da parte del poeta, segno che non si trattava di uno sfogo lirico, ma di una precisa ricerca intellettuale che si è protratta nel tempo. Appartiene al genere degli Idilli, che, al punto di vista lirico-soggettivo, associano sempre il desiderio di indagare la realtà nella sua interezza. Una necessità, quindi, di interrogarsi su tutto ciò che riguarda la vita dell’uomo sulla Terra.
2Testo e parafrasi
Testo
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani 5
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce 10
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare. 15
Parafrasi
e questa siepe, che impedisce al mio sguardo
di scorgere l’interezza dell’estremo orizzonte. Ma quando sono qui seduto, e guardo, comincio
a immaginarmi spazi sterminati al di là di essa,
e un silenzio sovrumano, e una pace abissale,
fin quasi a sentire il cuore tremante di paura. E non appena sento il fruscio degli alberi carezzati
dal vento, questa voce paragono
a quel silenzio infinito: e d’improvviso nella mia mente
affiora l’eternità, e tutte le ere ormai trascorse,
e quella presente, viva, con la sua voce. Così il mio pensiero è sommerso in quest’immensità
ed è dolce, per me, inabissarmi in questo mare.
3Analisi testuale
L’infinito, formato da quindici endecasillabi sciolti, ha un andamento ritmico che tende a dilatare il verso, come se ognuno sconfinasse nel successivo, grazie all’utilizzo diffuso dell’enjambement (gli enjambements, ossia il verso che spezza la continuità sintattica della frase, li troviamo ai vv. 2-3; vv. 4-5; vv. 5-6; vv. 8-9; vv. 9-10; vv. 13-14; quindi in tutta la poesia, a parte, in particolare, il primo e l’ultimo verso).
Il testo si apre con la parola “sempre”, che rimanda a una dimensione temporale indeterminata e infinita. La descrizione paesaggistica è avviata da due elementi determinati: il colle solitario (“quest’ermo colle”, v. 1) e la siepe (“e questa siepe”, v. 2) che accompagnano lo sguardo verso l’orizzonte, l’illusione ottica per eccellenza, raggiungibile solo con uno sforzo immaginativo. Quindi il primo senso stimolato è quello della vista. La siepe è un ostacolo alla contemplazione dell’intero orizzonte: lo smarrimento dell’infinito deve allora essere conquistato con l’immaginazione.
L’aggettivazione è indeterminata, vaga: “interminati spazi”, “sovrumani silenzi”, “profondissima quiete”. Gli aggettivi occupano sempre il primo posto rispetto al sostantivo cui si riferiscono, creando come l’attesa di esso. A ben vedere si tratta sempre di nomi tutt’altro che perfettamente identificabili: lo spazio, dopotutto, è assenza di qualcosa; il silenzio, nella sua forma assoluta, non esiste – c’è solo qualcosa che, sempre in assenza di altro, possiamo definire silenzio; stesso discorso vale per la “quiete”, non facilmente determinabile, se non soggettivamente. Certa è l’estrema solitudine di questo momento lirico vissuto dal poeta, e la volontà di conquista dell’immensità, non solo attraverso gli enjambements, ma anche attraverso il polisindeto “e”, il quale fa sì che le immagini si propaghino per accumulazione, una dopo l’altra, in espansione, come onde marine (anticipano quindi il “mare” dell’ultimo verso).
L’atto di immaginare (bellissima l’espressione leopardiana «io nel pensier mi fingo», v. 7) poggia su due gerundi («sedendo e mirando», v. 4) che contribuiscono a conservare quel senso di vaghezza e sospensione che permea tutta la poesia. Tra i vv. 7-8 c’è lo snodo decisivo dell’idillio: l’immaginazione è spinta talmente in avanti che il cuore prova smarrimento: l’uomo, così piccolo e limitato, può contemplare dentro sé l’immenso («Io nel pensier mi fingo», v. 7), e questa immensità, solo immaginabile, nasce dalla percezione dei sensi.
C’è un punto fermo tra i vv. 7-8, sebbene essi siano uniti nella metrica dalla sinalefe. A ben vedere, non è l’unione dei due versi (non solo), ma l’unione strettissima delle due parti di cui si compone l’idillio, quella contemplativo-razionale e la successiva con il conseguente smarrimento dei sensi e della mente. La sinalefe ha quindi un ruolo decisivo: infatti i due momenti (vv. 1-8; vv. 8-15), pur distinti, sono un unico fluire.
Nel secondo momento, il vento muove le foglie degli alberi, e sembra, per il poeta, quasi che il silenzio stesso abbia una voce propria («io quello / Infinito silenzio a questa voce / Vo comparando», vv. 9-11). Questo scatto intellettuale, altamente soggettivo, permette di dare voce fisica, oggettiva, all’immaginazione dell’eterno come un silenzio infinito, in cui c’è lo svolgersi di tutte le ere, tutti i tempi, anche i più remoti. Eppure l’eternità deriva dalla percezione dello spazio fisico, dell’infinità spaziale: quindi spazio e tempo (le due categorie della conoscenza umana) sono percepite prima nel loro essere limitabili (la siepe esclude lo sguardo del poeta; la stagione presente esclude tutte le altre). Poi, attraverso l’immaginazione, si arriva a concepire spazio e tempo infiniti. Una spia di questa operazione ce la danno i deittici questo/quello. Il primo indica vicinanza a chi parla, il secondo lontananza rispetto a chi parla. Nel primo verso abbiamo «quest’ermo colle», perché siamo proprio lì, e anche «questa siepe» (v. 2).
Poi capiamo bene che abbiamo attraversato il limite: «di là da quella», cioè oltre la siepe, e siamo nel regno dell’immaginazione: l’abbiamo, in un certo senso, scavalcata. È dietro di noi. Anche gli alberi sono vicini, «queste piante» (v. 9), ma ecco che «quello / infinito silenzio», vv. 9-10, diventa «questa voce», v. 10. Allora l’immensità stessa si fa vicina, tangibile: «questa / immensità», v. 13-14, e non “quella”, lontana. Si è fatta vicina all’io, tanto che l’io vi si immerge, appunto. E il mare infinito sommerge la finitezza dell’uomo: «questo mare», v. 15.
Da un punto di vista fonico prevalgono suoni aperti e parole piane, che aumentano il senso di distensione, necessario a disegnare il paesaggio e le sensazioni che ne scaturiscono. Il linguaggio utilizzato da Leopardi è ancora quello della tradizione lirica italiana, cioè quello che da Petrarca era giunto fino a Foscolo e Monti.
4Commento
Affidiamoci, adesso, ad alcune riflessioni di Leopardi: «Il sentimento che si prova alla vista di una campagna o di qualunque altra cosa v’ispiri idee e pensieri vaghi e indefiniti quantunque dilettosissimo, è pur come un diletto che non si può afferrare, e può paragonarsi a quello di chi corra dietro a una farfalla bella e dipinta senza poterla cogliere: e perciò lascia sempre nell’anima un gran desiderio: pur questo è il sommo de’ nostri diletti, e tutto quello ch’è determinato e certo è molto più lungi dall’appagarci, di questo che per la sua incertezza non ci può mai appagare». (Zibaldone, p. 75 del manoscritto).
L’infinito, dunque, è strettamente connesso alla teoria del piacere di Leopardi: il piacere che possiamo provare è finito, ma il desiderio di esso è senza fine. L’infinito è come inseguire una farfalla: godiamo nell’atto stesso di rincorrerla più che nell’afferrarla. Così il paesaggio davanti a noi, che non riusciremo mai a dominare completamente perché questo è impossibile, proprio a causa della nostra limitatezza. Ciononostante, il limite è una possibilità di cui approfittare per arrivare al piacere e a quella che possiamo definire l’emozione intellettuale (ossia la mente che va talmente in profondità da spaventarsi dei suoi stessi pensieri: «ove per poco / Il cor non si spaura», vv. 7-8). Il certo è troppo circoscritto per la sete di grandezza dell’uomo, mentre l’incerto ci lascia desiderare e immaginare. Permette cioè di proiettare l’idea di questo piacere (l’immagine di questo piacere) in uno spazio e in una durata non quantificabili. In un certo senso, infiniti, ossia senza un vero e proprio confine.
Siamo nelle prime fasi del pessimismo storico leopardiano, quando cioè il poeta capiva che il progressivo distacco dell’uomo dalla natura, l’avvento della civiltà, aveva creato disagio nell’umanità, e vagheggiava le ere antiche, specie quelle dei Greci, come momento più alto di questa relazione Io-Mondo. Leopardi riconosce la forza oggettiva del limite, quale condizione umana, ma anche l’ambizione di tentare di superarlo, che è pure propria dell’uomo. Come a dire: siamo limitati, ma per nostra natura siamo portati sempre a tentare di superare i limiti esterni che ci vengono imposti. Intelligenza e sensibilità possono riportarci in una condizione favorevole dove questa opposizione torna ad essere positiva.
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Domande & Risposte
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Cosa vuol dire Io nel pensier mi fingo?
L’atto di immaginare: l’immaginazione è spinta talmente in avanti che il cuore prova smarrimento. L’uomo così piccolo e limitato può contemplare dentro sé l’immenso e questa immensità nasce dalla percezione dei sensi.
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Che cosa rappresenta l’Infinito per Leopardi?
L’infinito è legato alla teoria del piacere: il piacere che possiamo provare è finito, ma il desiderio di esso è senza fine. L’infinito è come inseguire una farfalla: godiamo nell’atto stesso di rincorrerla più che nell’afferrarla.
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Cosa vuol dire Il naufragar m’è dolce in questo mare?
Il naufragar m’è dolce in questo mare è un ossimoro che sta a significare come lo sprofondare nell’infinito possa suscitare una certa serenità.