Il paesaggio nelle opere di Leopardi
La poetica e commento alle opere di Giacomo Leopardi in riferimento al tema del paesaggio. Esempi nelle opere e spiegazione
Indice
Giacomo Leopardi
Tra il 1828 e il 1830 dopo cinque anni di assenza dalla scena poetica Leopardi ricomincia a scrivere poesie e proprio in questo periodo nascono i suoi più famosi componimenti raccolti nei Grandi Idilli:
- 1) A Silvia
- 2) Le Ricordanze
- 3) La Quiete dopo la Tempesta
- 4) Canto notturno di un Pastore errante dell'Asia
- 5) Il Sabato del Villaggio
Quando Leopardi aveva circa 20 anni aveva già scritto 6 Piccoli Idilli (tra cui "Infinito", "Alla Luna", "La Sera del dì di Festa") attraverso i quali il poeta cercava di stabilire un rapporto con la Natura.
Idillio significa, in greco, piccolo quadro, piccola immagine. Era, nella letteratura greca antica, una visione circoscritta e aggraziata della vita pastorale, una poesia che ricava un contatto fresco e immediato con la natura. Ma nel Leopardi esso diviene un quadro tutto interiore, evocativo dove le limpidissime immagini naturali sono un pretesto per esprimere stati d'animo.
I Grandi Idilli sono così chiamati impropriamente eccezion fatta che per il Canto notturno di un Pastore errante dell'Asia: infatti per tutti gli altri la Natura, con i suoi elementi paesaggistici, viene sostituita con il borgo di Recanati. Questi Idilli contengono i racconti dell'adolescenza passata a Recanati, il paese verso cui il poeta ha provato sentimenti di amore e di odio: la vita è per esempio come un violento temporale che si abbatte sul paesino; in questi momenti tragici viene ricordata soprattutto la voglia di vivere del popolo che, passata la tempesta, si accende nei cuori di tutti più ardente che mai.
L'idillio è solitamente costituito da una prima parte descrittiva e rievocativa (descrive i ricordi di Recanati) e da una seconda meditativa e riflessiva in cui il Leopardi esprime tutto il suo pessimismo cosmico.
L'idillio leopardiano si distingue profondamente da quello della tradizione; il paesaggio non è più rappresentato come un quadretto bucolico, un componimento piacevole di ispirazione pastorale, ma diventa l'espressione poetica di un'avventura interiore, di un moto dello spirito nato dalla contemplazione nuova ed attonita di un aspetto della natura, o dalla rinnovata capacità di sentire e vedere. Da questa contemplazione "interiore" della natura, derivano alcune delle voci più nuove del poeta. Fin da fanciullo, lo ricorda lo "Zibaldone" nelle pagine scritte fra il 12 e il 13 Luglio del 1820, il poeta amava guardare il cielo "attraverso una finestra, una porta, una casa passatoia" (cioè attraverso l'andito o corridoio fra due case).
L'infinito
Nella poesia L'Infinito il poeta ha trovato le ragioni di questa preferenza: infatti, "da una veduta ristretta e confinata" di un paesaggio nasce il desiderio dell'infinito, perché allora in luogo della vista lavora l'immaginazione ed il fantastico si sostituisce al reale. L'anima immagina quello che non vede, ciò che quella siepe, quella torre gli nasconde ed erra in uno spazio immaginario, immaginando cose che non potrebbe, se la sua vista si estendesse da per tutto, perché il reale escluderebbe l'immaginario. L'immergersi in una coscienza cosmica dell'infinito non è inteso dal Leopardi come abbandono ad una pura emozione, ad un immediato vagheggiamento musicale, ma nasce sempre da una consapevolezza vigile della realtà.
Per questo si parla di una dimensione religiosa dell'Infinito nel Leopardi: quello che più tardi diventerà, nel "Canto notturno" o nella "Ginestra", meditazione ammirata dell'immensità della vita, del cosmo, qui è ancora ansia e vagheggiamento di assoluto e di eternità che nasce dalla coscienza della finitezza della propria realtà individuale.
L'infinito, come altri idilli, parte da un senso di negazione, di esclusione. La nota paesaggistica, rappresentata da una siepe, che gli preclude la vista dell'orizzonte lontano, diviene spontaneamente simbolo della nostra vita circoscritta nello spazio e nel tempo. Eppure questo limite ridesta più intenso un bisogno di un di là, di un infinito che l'anima scopre non nelle cose, ma ripiegandosi in sé, nel proprio centro e se lo figura come spazio indeterminato, quiete profondissima. E per poco il cuore non si spaura davanti a quella immensità che sembra sommergere, annullare la vita effimera dell'io. Poi, dopo una pausa lunghissima, il soffio del vento riconduce il senso di moto, della vita, del tempo. Ma è come una nuova siepe che spinge l'anima ad un nuovo slancio, all'intuizione di ciò che è di là del tempo, cioè dell'eterno.
E il poeta si abbandona dolcemente a quest'infinito.
"L'Infinito" si divide in due parti esattamente uguali, come dimostra il punto fermo a metà dell'ottavo verso. Nella prima metà della poesia è descritto l'infinito dello spazio, nella seconda metà, l'infinito del tempo: per definire l'infinito, ci dice il poeta, sono necessarie ambedue le coordinate, lo spazio e, appunto, il tempo.
Gli elementi esteriori si riducono ad un colle, ad una siepe che limita l'orizzonte, ad uno stormire di fronde. Sulla cima di un colle una siepe impedisce allo sguardo la vista di una grande parte dell'orizzonte. Ma quello che è l'ostacolo alla vista degli occhi diviene stimolo alla visione interiore, all'immaginare del poeta. Sorgono così dentro di lui gli "interminati spazi" del cielo, e i "sovrumani silenzi e la profondissima quiete" del vuoto; e quasi il cuore del poeta "non si spaura". Ma a proseguire l'idillio sopraggiunge un lieve rumore di vento, l'unico breve rumore sulle cime del colle. E da quella voce il poeta è ricondotto alle cose finite; e giunge al confronto di esse con l'eterno, al pensiero delle "morte stagioni", e della stagione presente così viva, così reale con i suoi rumori intorno al poeta.
Come da una siepe è nato l'infinito dello spazio, così da un soffio è sorto quello del tempo; un infinito ancora più sovrumano e indeterminato che la mente invano cerca di sondare.
Si noti, immediatamente, quanto l'idea dell'infinito sia lontana da qualsiasi determinazione scientifica o filosofica. Per questo i legami col reale o hanno la vaghezza di sogno, oppure si affidano alla purezza della sensazione immediatamente tradotta in fantasia, e la fantasia cresce in sentimento.
Emergono in particolare:
* L'indicazione di uno spazio concreto (l'area limitata della siepe) e di uno specifico, personale (consuetudine).
* Il processo di astrazione, visione mentale dello spazio.
* Il passaggio dall'immagine aspaziale a quella temporale. Contrapposizione fra spazio concreto e tempo.
* Lo smarrimento genera piacere.
Per il critico Lotman, l'elemento paesaggistico si contrappone tra:
- Spazio interno: spazio chiuso, rotondità della collina che lo delimita.
- Spazio esterno: sovrumano, immobile, mondo dei pensieri, mondo della morte, l'eternità
Zibaldone
Ecco i passi dello Zibaldone, citati da Italo Calvino (Lezioni Americane, Oscar Mondadori, Milano 1993) in cui Leopardi fa l'elogio del vago, elencando situazioni paesaggistiche propizie allo stato d'animo dell' "indefinito":
...La luce del sole o della luna, veduta in luogo dov'essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un luogo solamente in parte illuminato da detta luce, e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in luoghi dov'ella diventi incerta e impedita, e non bene si distingua, come attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi; la detta luce veduta in luogo, oggetto, dov'ella non entri e non percota dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od oggetto dov'ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al di fuori, e in una loggia parimente quei luoghi dove la luce si confonde colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte dell'ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce, per esempio, un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che passano per detto vetro; tutti quegli oggetti insomma che per diversi materiali e circostanze giungono alla nostra vista, udito in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor dell'ordinario…
La quiete dopo la Tempesta
Leopardi ricorda l'entusiasmo e la voglia di vivere della povera gente di Recanati che esce nelle strade dopo la tempesta. Ogni essere umano è creato per cercare il piacere e fuggire il dolore: dopo il rischio scampato uccelli e galline come l'uomo esprimono la loro felicità. Il Canto è segno di disposizione alla gioia e serenità interiore.
In questa parte descrittiva notiamo il piccolo borgo di Recanati in preda alla gioia dopo che la natura ha dimostrato il suo volto distruttivo.
La parte descrittiva cui segue una seconda parte riflessiva, ha dato luogo a un’interpretazione critica che isola la prima parte, considerandola perfetta in sé, una sorta di "quadretto fiammingo".
Si riconosce nella poesia la presenza di varie fonti greche: presenza sorprendente in un testo che sembrerebbe nascere semplicemente dall'osservazione di una realtà familiare. Sono possibili riscontri con Omero (immagine del cielo che si rompe). Leopardi rappresentò la quotidianità di Recanati avendo in mente quei poeti che egli giudicava ancora primitivi e naturali. Non è illegittimo supporre che nel mondo artigiano-contadino egli abbia in una certa misura trasferito il modello antico: che abbia visto l'erbaiolo, il carrettiere etc. non già come personaggi idillici ma come figure esemplari di una umanità arcaica e semplice. Solo che quando compone questi canti non può più credere che la condizione di ignoranza, la non problematicità sia una condizione di felicità: questa gli appare fragile e provvisoria, confinata nel breve momento che segue alla tempesta e ridotta per di più al solo e mediocre ritorno alle abitudini.
Leopardi finisce quindi per concedere anche agli "ignoranti" il triste privilegio dell'infelicità.
Nella prima strofa il poeta descrive ciò che accade appena passata la tempesta, agli animali, nella natura, tra gli uomini; la vita del borgo che torna al lavoro consueto; il senso di liberazione e di gioia nel borgo, dopo lo spavento del temporale.
La sera del dì di festa
Composto nell'estate del 1820, quest'idillio potrebbe venire considerato l'esempio tipico di come la situazione sentimentale dei Piccoli Idilli, tutta basata sull'aspirazione di sensazioni musicalmente vaghe ed indeterminate, si distenda sull'onda di ricordi di paesaggi e di intuizioni dell'anima e si raggeli invece ogni qual volta riaffiori un tema immediatamente personale e polemico. Così quest'idillio si racchiude soprattutto sulla descrizione del villaggio addormentato contemplato in un silenzio immobile in un'estasi sospesa; sull'eco musicale del canto che sale dalla strada, e sul ricordo della fanciullezza che questo canto suscita.
Il canto si apre con una straordinaria descrizione della notte illuminata dalla luna e si chiude in un malinconico indugio sulla propria infanzia ormai irrimediabilmente trascorsa.
Il primo motivo poetico dell'idillio è il vagheggiamento di una quieta notte lunare. Quello che maggiormente ci commuove è lo stato d'animo contemplativo raggiunto dal Leopardi, quell'improvviso contemplare e tacere di ogni altro senso, quell'aprirsi nuovo degli occhi dinanzi alle immagini della natura.
Il secondo motivo poetico è quello del canto notturno che si disperde nella campagna e muore a poco a poco allontanandosi; un idillio anche questo che cerca il senso della fugacità del trapassare e spegnersi di ogni vaghezza; che accompagna un altro degli aspetti della poesia leopardiana cioè la capacità di ritrovare nelle contemplazioni del momento, stupori, incanti e malinconie degli anni passati.
Questa poesia raccoglie concetti ed immagini che negli stessi anni compaiono anche negli appunti e nelle lettere. Essa è caratterizzata dalla compresenza, tipica di tutte le poesie leopardiane, ma qui più vistosa, di momenti descrittivi e di discorso polemico; la protesta è contro la natura che al poeta ha negato anche i mediocri divertimenti e le speranze che illudono gli altri uomini e si svolge in termini personali patetici.
Analisi:
Motivo dominante e unificante è la percezione del tempo, raffigurata attraverso tre situazioni di confronto che ne evidenziano il trascorrere e il movimento.
La sera di Recanati rispetto alla giornata festiva. Il presente storico rispetto all'antichità dei popoli scomparsi. Il momento personale che il poeta sta vivendo rispetto all'infanzia.
In pratica la poesia è riassumibile in due parti, sulla base di due relazioni:
Il poeta e la donna Il poeta ed il tempo
Il tema generale è rappresentato dall'infelicità del poeta che, senza amore, senza speranza, sente il tempo passare inesorabile. Queste emozioni sono comunicate dalla percezione del tempo che passa, fissata in tre storie:
- Villaggio: la piccola storia del villaggio.
- Mondo: la grande storia del mondo.
- Io: la vicenda dell'individuo.
Recanati nelle poesie di Giacomo Leopardi
La cittadina di Recanati rappresenta offre un grande contributo paesaggistico all’opera leopardiana.
Alla domanda: la poesia di Leopardi avrebbe potuto nascere fuori Recanati? La risposta è: la poesia certamente si, gli Idilli no.
Infatti al di fuori dei confini del "natio borgo selvaggio" nascono tra gli altri due testi che possiamo considerare una sorta di pessimismo ragionato sublimato in immagini e cioè: Il canto notturno di un pastore errante dell'Asia e La ginestra
Notturno di Recanati visto dal colle dell'infinito
Che fai tu, luna, in ciel? dimmi, che fai,
Silenziosa luna? ...
La luna, che nei pleniluni sereni viene a rischiarare l'infinita profondità della notte, sorge identica a Recanati e in Russia: eppure qui è detta "mia" e "diletta" perché affettuosamente partecipe delle vicende del poeta, amica, confidente, compagna, quasi una sorta di sostituto simbolico della presenza femminile (Alla luna); là è silenziosa, indifferente e non risponde alle domande del pastore, perché si tratta di un oggetto metafisico, non lirico. Così, il cielo stellato è lo stesso a Recanati e a Torre del Greco, ma non l'animo del poeta: qui è metafora della bellezza dei suoi sogni e della vastità delle sue attese; là è la prova della marginalità dell'uomo nell'universo, della falsità delle sue pretese d'immortalità, frutto di ignorante superbia (La ginestra). A Recanati cioè, grazie all'investimento affettivo della memoria, il paesaggio assume soggettivisticamente la capacità di far diventare vere, più vere della stessa realtà, le illusioni del cuore, che manifestano così la loro irriducibilità. Il "caro immaginar" resiste in qualche modo alla forza corrosiva della ragione e alla stessa amara esperienza del disinganno, che non a caso si esprimono frequentemente nel succedersi di interrogativi, non retorici, ma di protesta.
Il paesaggio recanatese infatti non ha nulla di surreale, di allucinato, di post-moderno, ci si potrebbe tranquillamente passeggiare dentro; solo che si tratta per l'appunto d'un paesaggio lirico, simbolico e non realistico, anche se ha tratto spunto da luoghi riconoscibili.
Qual è la situazione rappresentata nell'idillio Alla Luna? Il poeta contempla la luna sul colle, come un anno prima. La vedeva fra le lacrime, per una sua pena interiore. Questa ancora sussiste, ma è lievemente confortata dal ricordo del passato, anche se esso fu doloroso.
Leopardi sembra qui emulare la limpida semplicità della poesia classica; anzi, sembrerebbe che si limiti a versificare un racconto semplicissimo. C'è soltanto l'immagine della luna che pende sopra la selva, che richiama la poesia classica (virgiliana), e il fascino di quel «che tutta la rischiari» che ha il tono d'una scoperta stupita delle cose del mondo.
Dopo la prima delineazione e delimitazione del paesaggio (ma il parlare alla luna, con quel tono intimo lo interiorizza, lo lega alle «avventure dell'animo proprio», come diceva il poeta parlando dei suoi idilli), si ha la narrazione del proprio stato, di allora e di ora. Allora il pianto rendeva l'immagine della luna nebulosa e tremula, la piegava al lamento, alla sofferenza dell'io; ora il Leopardi non parla non più quel pianto, ma della tristezza di un dolore che dura: anche qui si limita a pochi gesti essenziali: luna, lacrime, vita travagliata, un allora e un’ora congiunti nel dolore.
Leopardi quindi introduce un terzo personaggio indicando il gesto di affacciarsi e guardare il borgo di Recanati: la Natura vive e partecipa alla storia, con la sua bellezza è complice dei sogni e della felicità giovanili, sembra che dica che i sogni si realizzeranno, ma dopo l'estate c'è l'autunno e l'inverno.
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