Questi canti segnano il ritorno di Leopardi alla poesia dopo un lungo periodo di silenzio, durante il quale ha scritto in prosa e pubblicato le Operette morali. Non a caso nel libro i canti pisano-recanatesi sono preceduti dal Risorgimento, una poesia molto diversa dal punto formale, ma che celebra la rinascita della capacità dell’autore di nutrire illusioni e quindi di poetare.
In passato i canti pisano-recanatesi di Leopardi venivano chiamati ‘grandi idilli’ per sottolinearne gli aspetti di continuità sia nella poetica sia nella speculazione filosofica con gli idilli, a loro volta definiti ‘piccoli idilli’.
Dagli idilli, composti solo di endecasillabi sciolti, questi canti si differenziano già a prima vista per una nuova e importanteinvenzionemetrica, quella della canzonelibera: una forma metrica che conserva della canzone tradizionale la divisione in stanze e l’uso di endecasillabi e settenari. Le stanze però sono di lunghezza disuguale e i versi non seguono uno schema rimico (cioè una disposizione delle rime) predeterminato.
Già in alcune canzoni della stagione precedente Leopardi aveva impiegato schemi relativamente più liberi rispetto a quelli della canzone tradizionale, ma è solo con A Silvia che possiamo parlare di canzone libera, che poi, con pochissime eccezioni, diventerà largamente maggioritaria nella sua produzione poetica. Per la prima volta qui le strofe sono di lunghezzavariabile e alternanoliberamenteendecasillabiesettenari; le rime, non vincolate a uno schema fisso, sono interamente gestite dal poeta, il quale può diradarle o accumularle a seconda delle necessità.
Con la canzone libera, insomma, il poeta diventa il padroneassoluto della strofa, del suo ritmo e del gioco fonico delle rime.
La canzone libera è la forma che corrisponde idealmente all’etichetta di ‘canto’, che, infatti, Leopardi creerà dopo aver sperimentato questo tipo di canzoni. Si tratta di un’invenzione che anticipa le conquiste della metrica libera di fine Ottocento senza però collocarsi in una posizione apertamente eversiva e distruttiva nei confronti della tradizione.
I canti pisano-recanatesi di Leopardi sono una sintesi fra temi privati e temi pubblici: una poesia di tipo nuovo, allo stesso tempo lirica e filosofica. In essa la distinzione tra la poesia del Noi delle canzoni e la poesia dell’Io degli idilli è superata.
A partire da A Silvia l’io poetico parlerà sempre per se stesso, ma anche per i suoi simili più vicini a lui (come Silvia) e per tutte le «umane genti», e così il suo discorso sarà insieme una rievocazione del proprio passato, una meditazione sulla propria esistenza e una meditazione sul destino umano, sintetizzando, come Leopardi non aveva mai fatto prima, temi personali, umili e quotidiani, e temi universali e metafisici.
Ciò risulta particolarmente evidente nell’unico componimento, il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, in cui l’io lirico cede la parola a un suo alter ego (il pastore) assunto a emblema della condizione umana in generale: nel monologo non sono distinguibili le domande che riguardano la sua vita da quelle che riguardano la condizione umana, perché il pastore errante è il portavoce di tutta l’umanità.
Nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la tempesta le scenedivitaquotidiana recanatese diventano una sorta di esemplificazione delle leggi che regolano la condizioneumana, poiché l’attesa gioiosa della festa prova la validità della legge secondo la quale il piacere non consiste nella sua (impossibile) realizzazione, ma solamente nella sua attesa; nella gioia che accompagna il ritorno del sereno dopo la tempesta emerge che il piacere è «figlio d’affanno».
Nell’ambito delle riflessioni intorno all’uomo i canti pisano-recanatesi di Leopardi segnano la definitiva caduta delle illusioni e la cruda scoperta del vero, cioè il raggiungimento di una concezione interamente pessimistica. Caduta ogni illusione, il confronto con la Natura si fa diretto, tanto che essa può essere apostrofata con enfasi («o natura, o natura») e accusata dei suoi tradimenti: «O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? Perché di tanto / inganni i figli tuoi?» (A Silvia, vv. 36-39).