Hikikomori: l’isolamento volontario che allontana dal mondo

Cos’è e perché avviene l’isolamento volontario: la parola alla scuola e alle mamme di due ragazzi Hikikomori. Come comportarsi e imparare a capirli

Hikikomori: l’isolamento volontario che allontana dal mondo
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Hikikomori: chi sono

Chi sono gli Hikikomori e perché si arriva all'isolamento volontario. La parola alla scuola e ai genitori
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L’hikikomori è un ragazzo che sta in disparte da ogni cosa”. Maria – nome di fantasia – è mamma di un ragazzo che per anni ha scelto l’isolamento volontario, e definisce così la condizione di quei ragazzi che, ad un certo momento della loro vita, scelgono di ritirarsi fisicamente dalle attività di ogni giorno e dalle persone che li circondano. Hikikomori in giapponese, infatti, significa letteralmente stare in disparte. “Il ragazzo hikikomori si ritira da tutto: scuola, sport, parrocchia, se la frequenta” prosegue Maria. “Può rompere tutti gli strumenti che lo mettono in relazione con gli altri. Il momento del ritiro ha una sua evoluzione, ma è un ritiro vistoso”.

Quando Maria parla di suo figlio, lo fa con una grande consapevolezza maturata negli anni, anche grazie all’associazione Hikikomori Italia, nata nel 2017 da un’idea di Marco Crepaldi, laureato in psicologia sociale. L’associazione, che lavora da anni alla sensibilizzazione sul tema dell’isolamento sociale volontario, accoglie in un gruppo facebook i genitori dei ragazzi e delle ragazze hikikomori, per condividere esperienze e buone pratiche. È proprio nella sezione dedicata ai genitori che Maria ha conosciuto altre mamme e papà di ragazzi hikikomori e ha trovato un canale di ascolto per imparare a gestire la situazione con suo figlio: “senza il gruppo non avrei ottenuto quello che ho ottenuto” racconta.

Come si arriva all’isolamento volontario

La prima volta che Maria ha a che fare con l’isolamento volontario è durante il suo lavoro di docente, quando un ragazzo, di punto in bianco, semplicemente smette di presentarsi in classe. “Chiamavo la madre e lei mi diceva che non sapeva che fare. Non si alza dal letto, mi diceva, e mi passava il ragazzo al telefono. Lui mi rispondeva con la bocca impastata e mi diceva: Io non voglio. Mi sembrava assurdo”, racconta.

Fino a quando, poco tempo dopo, il problema le entra in casa con prepotenza, attraverso suo figlio: “I primi tempi sono impazzita” confessa Maria. “Sono andata via di casa per una settimana per non vederlo in quelle condizioni”. Come sempre accade in questi casi, la cosa è progressiva: prima tante assenze, poi il rifiuto della scuola, poi l’abbandono dello sport, poi l’incapacità di alzarsi dal letto. La prima reazione, naturale per un genitore, è quella di tentare di spronarlo in ogni modo: “All’inizio lo prendi per il pigiama, lo trascini per la stanza” racconta Maria “ma alla fine ti accorgi che non è quella la modalità”.

Non lo è soprattutto perché per un ragazzo hikikomori la scuola può assumere i connotati di un vero e proprio elemento di disturbo fisico: “Una volta siamo andati sotto scuola, lui non ce la faceva a uscire dalla macchina. Non ce l’ho fatta più: l’ho preso per lo zaino e l’ho trascinato fuori in mezzo a gli altri.

Lui mi supplicava di non farlo” racconta Maria. “Lì mi sono detta che non era possibile che fossi arrivata a fare una cosa del genere. Era indegno di ogni essere umano”.

I primi tempi sono difficili: suo figlio prima si allontana dalle sue passioni, poi stacca ogni forma di comunicazione col mondo esterno. Dopo tre mesi riprende i contatti con i suoi amici reali, ma in forma esclusivamente virtuale. E qui accade una cosa strana: “I suoi amici conoscevano la sua situazione, e lui lo sapeva. Nonostante questo diceva loro una serie di baggianate, ad esempio che andava a scuola, anche se non era vero. Era consapevole di non condurre una vita come doveva essere”. Contestualmente, Maria entra nel mondo dei genitori dei ragazzi Hikikomori, e suo figlio decide che vuole essere coinvolto. “Per lui essere riconosciuto nella sua identità particolare in un gruppo di situazioni simili lo faceva sentire forte. Era esibizionista, quasi: voleva che postassi le sue foto nel gruppo, che raccontassi alcune cose interessanti che diceva”.

Diversa è invece la situazione della figlia di Carla – altro nome di fantasia – che oggi ha 15 anni, ma che ha scelto l’isolamento volontario in seconda media. “Dopo aver frequentato con molta fatica la prima settimana di scuola, al mattino ha iniziato a non voler più alzarsi dal letto e a manifestare disturbi psicosomatici” racconta Carla. “Da allora non ha più frequentato la scuola, non è più uscita coi coetanei, ha invertito il ritmo sonno-veglia, fino a quando un giorno ha anche smesso di venire a tavola con noi. La sua stanza è diventato il suo mondo. Unico appiglio con il mondo esterno, l'uso della tecnologia e l'uscire con me, con noi genitori, per fare commissioni” racconta ancora. “Ma era come se non ci fosse, come se avessimo dietro un corpo vuoto, un involucro”.

Anche Carla fa parte del gruppo Hikikomori Italia genitori, dove anche lei, come quasi tutti, è arrivata per caso dopo una ricerca in Internet. “Ho scritto un’email per avere informazioni e ho subito ricevuto risposta, sostegno e  conferma sul fatto che mia figlia fosse un'isolata sociale”. Da lì, qualcosa è cambiato. “Non mi sono più sentita una mamma sbagliata, sola e non capita, ma una mamma accolta, ascoltata e supportata. Mi sono tranquillizzata, ho preso ancora più consapevolezza del malessere di mia figlia, ho imparato ad accettarla per com'è adesso, ad aiutarla in un modo più appropriato”.

Un ragazzo hikikomori non può essere forzato ad abbandonare il suo isolamento. Maria con suo figlio l’ha capito proprio grazie all’associazione: “Per prima cosa ci si deve informare della situazione. Non va vissuta la situazione come una vergogna e non si deve chiedere troppo al figlio. Bisogna accettare quello che avviene davanti ai propri occhi e imparare a dire: va bene, non ce la fai”.

Perché si diventa Hikikomori?

Ma quali sono le ragioni per cui un ragazzo decide di isolarsi? Una delle cause scatenanti, secondo molte testimonianze rilasciate in rete, ha a che fare col bullismo. Ma la questione è molto più complicata di così: “C’è qualcosa nel ragazzo che lo spinge a ritirarsi rispetto a un altro: sensibilità, modo di guardare la vita con occhi più spessi” dichiara Maria. Suo figlio ha iniziato ad allontanarsi dalla scuola e dalle sue attività dimostrando disturbi psicosomatici evidenti, ma presto, dice, “ho capito che quella era solo la causa lecita del suo ritiro” racconta Maria. Quella vera è venuta fuori dopo un po’: “Mi ha detto: Ho sempre faticato a stare in mezzo agli altri, ma a un certo punto non ce l’ho fatta più. Lui non si è sentito più ingranato in un mondo di routine: tante cose da fare in certi orari, in certi modi. I ragazzi si sentono pressati da famiglia, società, scuola, sport…la società di oggi è molto pressante, efficientista e bisogna essere sempre forti”.

Dello stesso avviso è Carla, che nell’isolamento della figlia ha visto una serie di concause: “Qualcosa successo in ambito scolastico, famiglia, tanta intelligenza unita a troppa sensibilità, il non trovarsi coi coetanei perché più avanti nel pensare...il tutto unito a una buona dose di ipercriticità verso il mondo”. E continua: “Scuola e società hanno la loro dose di responsabilità nella chiusura di tanti ragazzi verso il mondo esterno. Vedo nella società il voler uniformare tutto, se si è diversi – per intelligenza, per sensibilità, per senso critico – è difficile essere ascoltati, esprimersi ed essere capiti, trovare il proprio posto” spiega carla. “Entrambe non sono in grado di valorizzare le persone singolarmente, ma le opprimono. La scuola non ha saputo adeguarsi ai tempi che cambiano: non mi riferisco solo all'uso delle tecnologie, ma ai metodi di insegnamento e ai suoi contenuti. 

Hikikomori: come interviene la scuola

Eppure proprio dalla scuola vengono una serie di proposte per i ragazzi in isolamento volontario. Patrizia Carfagna, dirigente scolastico dell’IIS Alessandro Volta di Frosinone, sta cercando di arginare il fenomeno attraverso una serie di interventi. “Il primo problema della scuola è capire se siamo in presenza di un caso di hikikomori o può essere una scelta differente. Il problema degli hikikomori è difficile da scovare, perché il ragazzo si ritira e non dice i motivi, quindi spesso le scuole non vengono a conoscenza del problema e prendono semplicemente atto che il ragazzo non sta frequentando. Poi spesso le famiglie si vergognano di venirne a parlare, non collaborano, non ci informano” racconta. Spesso capita anche che ci siano fasi preliminari all’isolamento: “Ci sono ragazzi che prima dell’abbandono decidono volontariamente di non seguire più le lezioni in classe come forma di protesta”.

Cosa fare allora in questi casi? Per prima cosa, convocare i genitori e cercare di presentare il problema con discrezione e tatto: “La nostra conversazione deve essere a porte chiuse. Qui il genitore mi deve raccontare cosa succede. Presento poi a questi genitori il problema” continua la preside: “Il primo errore che il genitore fa è di sentirsi inadeguato e pensare che sia un caso unico, quando invece non lo è”.

Proprio recentemente al Volta ci si è trovati ad affrontare il caso di un ragazzo brillante, che però ad un certo punto ha deciso di lasciare la scuola: “Ha perso la mamma, e a un certo punto qualcosa si è rotto” racconta Carfagna. “Il papà era disperato, ma lo abbiamo intercettato e ci siamo inventati delle lezioni a distanza. Il ragazzo mandava esercizi svolti via mail ai docenti. A fine anno l’abbiamo promosso”. Ma non è il solo: “Con la mamma di un altro ragazzo abbiamo concordato che una volta a settimana andrà una docente a fare delle lezioni. Più avanti, se il ragazzo accetterà la presenza di un altro docente, ne faremo andare più di uno. Questa docente è di indirizzo tecnico ma è anche docente di sostegno, quindi è in grado di relazionarsi con l’alunno in modo particolarmente efficace. Sapersi far accettare dall’alunno è il primo passo per progredire”.

Hikikomori: come la società affronta il problema

Un ragazzo hikikomori si isola da tutto, non solo dalla scuola
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L’atteggiamento positivo del Volta di Frosinone non è però purtroppo lo standard: il fenomeno degli hikikomori non è ben conosciuto, e spesso le risposte da parte delle istituzioni possono essere superficiali: “Mi sono rivolta alla scuola per cercare aiuto non appena mia figlia ha incominciato a stare male e a non frequentare più le lezioni” racconta Carla, “ma non ho ottenuto granché. La scuola è un obbligo, e se i genitori non assolvono a questo obbligo sono perseguibili per legge. Questa è la risposta in sintesi che ho ricevuto quando ho chiesto aiuto”.

Di avviso simile è Maria, che estende il problema all’ambito sanitario: “La prima diagnosi di mio figlio per la scuola, fatta dalla neuropsichiatra del CSM della mia città, era che non era possibile fare diagnosi perché il ragazzo non si era presentato agli incontri. Io ho fatto notare che la diagnosi era proprio che non si era presentato agli incontri”. Ci è voluta pazienza, costanza e determinazione per ottenere un aiuto: “Quando noi stessi andiamo da uno psicologo e diciamo: credo che mio figlio sia hikikomori, questo non viene accettato. Sono pochissimi quelli sensibili alla parola. Mi è successo di essere stata colpevolizzata da uno psicologo da mio figlio, che gli ha detto: ma tu non sei con una madre, tu sei nel terzo Reich. È gravissimo”. Ci sono anche madri che hanno affrontato segnalazioni agli assistenti sociali e denunce per mancato adempimento dell’obbligo scolastico: “Se non c’è una sensibilità sulla tematica, il rischio è che non venga affrontata come situazione” interviene la Dirigente Carfagna.

“Alcune scuole conoscono e affrontano il problema e altre non conoscendolo non fanno nulla. È come nel caso dei BES: le scuole sono obbligate a prendere delle contromisure e fare dei piani personalizzati. Con gli hikikomori è necessario lavorare come con i BES e andare oltre: con le leggi attuali la scuola come fa a promuovere l’alunno se non è fisicamente presente in classe?”.

Per questa ragione la Presidente dell’associazione Hikikomori Italia Genitori, Elena Carolei, si è attivata per stilare con la regione Piemonte e con l’Ufficio scolastico regionale del Piemonte un protocollo ad uso di scuole e famiglie per gestire il problema con soluzioni condivise, dalla gestione delle assenze alle prove di verifica, valutando anche la possibilità dell’istruzione domiciliare e una serie di scenari per la gestione dell’alternanza scuola-lavoro. La stesura del protocollo ha suscitato l’interesse del MIUR, che ha attivato un tavolo tecnico – al quale siedono anche Crepaldi e Carolei – per creare delle linee guida nazionali per la gestione del fenomeno degli Hikikomori in ambito scolastico.

Per fortuna spesso alcune situazioni si risolvono col tempo e con qualche aiuto. Carla racconta di sua figlia che “In questi tre anni abbiamo fatto dei piccoli passi in avanti per quanto riguarda il suo io, da estremamente chiusa nel suo malessere – non sorrideva più, non c'era niente che le facesse mostrare una minima emozione, il suo volto era una maschera senza espressione alcuna – siamo riusciti a farla  sorridere”. E prosegue: “Da marzo di quest'anno circa è tornata a condividere con noi i pasti. A piccoli passi andiamo avanti a testa alta nonostante le difficoltà. Siamo seguiti da un'équipe sanitaria e da un'educatrice che fa a capo all'assistente sociale”.

Anche Maria può raccontare una storia a lieto fine: “Dopo tre anni di totale ritiro e due anni di istruzione domiciliare, mio figlio è tornato a vivere attraverso un contatto umano e social con una ragazzina che conosceva bene, perché sono cresciuti insieme” racconta. “Lei gli aveva raccontato di un corso che aveva fatto in un ente di volontariato, e lui si è infervorato talmente tanto che tramite lei si è iscritto allo stesso corso, si è fidanzato con lei e c’è stata la svolta. È come se mio figlio avesse perso la bussola del suo senso sulla terra e nell’essere d’aiuto agli altri l’abbia ritrovata”.

Per aiutare i ragazzi in isolamento volontario il primo passo è parlarne: “Va preso atto che questo disagio esiste: iniziamo a nominarlo e a renderci conto che c’è. Tra tanti ragazzi che non vanno a scuola ci sono anche quelli che oltre a non andare a scuola non vanno nemmeno ai compleanni, non fanno sport, non seguono corsi e così via. Il problema travalica il disagio del singolo ragazzo: i giovani ci stanno mettendo in guardia su qualcosa che non funziona”.

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