Giambattista Basile: vita e opere
Indice
1Le fiabe di Giambattista Basile
Giambattista Basile è stato il primo scrittore italiano a cimentarsi nelle fiabe, fondando così quel patrimonio comune che ancora oggi si rinnova di racconto in racconto, nelle case, per far sognare i più piccoli prima di addormentarsi o nei lunghi pomeriggi di pioggia per ingannare il tempo, quando cullati dalle parole si guarda fuori dalla finestra e si sognano reami, bestie prodigiose, principi, gatti parlanti, streghe…
Basile è stato uno scrittore strettamente legato alla cultura napoletana, fatto che all’epoca, nel Seicento, era di grande prestigio perché Napoli è stata in quegli anni una delle più fiorenti città barocche.
L’aver scritto in lingua napoletana l’ha però reso di difficile fruizione nelle epoche successive, al punto che oggi è difficile leggere il suo capolavoro “Lo cunto de li cunti” in lingua originale: abbiamo tutti più dimestichezza con il fiorentino, essendo la lingua letteraria per eccellenza della nostra nazione. Come dirò più avanti, hanno attinto a lui più facilmente gli autori stranieri, come i fratelli Grimm, che lo lessero in traduzione tedesca.
2Una vita tranquilla, all’ombra della famosa sorella Adriana Basile
Giambattista nacque a Giugliano in Campania nel febbraio del 1566, come risulta dal Libro I dei battezzati della parrocchia di S. Nicola. Sappiamo poco dei suoi primi anni di vita e anche della giovinezza sappiamo poco se non che dovette girovagare per l’Italia.
Si arruolò soldato a Venezia e fu inviato insieme con il suo reggimento nell'isola di Candia, allora minacciata dai Turchi. Nella colonia veneta di questa città, trovando l’incoraggiamento di famiglie dell’alta società, Basile fece per la prima volta sfoggio delle sue abilità letterarie e fu accolto nell'Accademia degli Stravaganti. Nel 1607 fu ancora al servizio di Venezia in una campagna navale e servì su una delle navi capitanate da Giovanni Bembo, 92° doge di Venezia.
Una volta finiti i doveri militari, Basile rientrò nella sua città natale. Da lì, complice il successo straordinario della sua famosa sorella Adriana Basile, cantante lirica, fu attirato a Napoli. Adriana era una cantante straordinaria e poli-strumentista, capace di destreggiarsi in particolare negli strumenti a corda, come l’arpa o la chitarra spagnola. Ricordiamoci che la tradizione musicale napoletana – specialmente quella lirica – è ancora oggi una delle più importanti al mondo.
Adriana fu in quegli anni ospite onorata e ammirata presso la corte di Luigi Carafa, principe di Stigliano, ma anche presso i Gonzaga dove introdusse il fratello (1612-1613). Forse per motivi di salute il suo soggiorno presso la prestigiosa corte di Mantova durò assai poco: fu di nuovo a Napoli per i suoi ultimi anni. Dalla sorella e dal marito di lei, Muzio Baroni, gentiluomo calabrese, ricevette cura e affetto. Sarà per cura e volontà della sorella che il capolavoro del fratello Giambattista, “Lo cunto de li cunti”, vedrà le stampe postumo.
3Le opere: dalla poesia alla prosa
Basile fu un letterato molto raffinato capace di esprimersi ad alti livelli sia in poesia sia in prosa. Non fu un Marino o un Sannazaro, ma ebbe una fama solida. Egli fu capace di mettere a frutto tutte le suggestioni letterarie dell’epoca barocca, dalla poesia classicheggiante a quella marinista fino alla prosa dialettale e alla commedia dell’arte.
La sua prima produzione in lingua è rappresentata dal poemetto Il pianto della Vergine apparso a Napoli nel 1608.
Seguì un volumetto di Madriali et ode (1609), di argomento perlopiù celebrativo ed encomiastico. Vediamone un esempio: una poesia simile a quelle di Marino, che prende spunto da una palla di neve:
Testo
La man che neve agguaglia
di colei che di neve ha sempre il core
di neve m’avventò colpo d’amore,
cara nevosa falda,
anzi d’amor cara fiammella calda
ch’a cangiar fu possente
il mio cor freddo in vivo foco ardente.
Parafrasi
Le avventurose disavventure (Napoli 1611) è invece una favola marittima che riprende gli schemi tassiani della favola pastorale e boschereccia, riadattandoli secondo i motivi e gli ambienti marinari (genere piuttosto diffuso a Napoli, tra l’altro).
Nel 1612 pubblicò le Egloghe amorose e lugubri e la Venere addolorata, dramma per musica in cinque atti (ambedue stampate a Napoli).
Nel 1613, a Mantova, ripubblicò tutte Le opere poetiche, aggiungendo ai Madriali et ode una terza parte, dedicata al Gonzaga, in quel momento suoi protettori.
Altra poesia davvero interessante è dedicata all’eruzione del Vesuvio, il vulcano sterminatore, l’icona più rappresentativa di Napoli.
Testo
Mentre d’ampia voragine tonante
fervido vedi uscir parto mal nato,
piover le pietre e grandinar le piante,
spinte al furor d’impetuoso fiato,
e i verdi campi giá sí lievi avante
coprir manto di cenere infocato,
e ’l volgo saettar smorto e tremante
solfurea parca, incendioso fato:
— Ahi! — con lingua di foco ei par che gridi
arde il tutto, e sei pur alma di gelo;
tu nel peccar t’avanzi e ’l mar s’arretra.
Non temi, e crollar senti i colli e i lidi;
non cangi stato, e cangia aspetto il cielo;
disfassi un monte, e piú il tuo cor s’impetra!
Parafrasi
Una poesia davvero icastica, che quasi ci ricorda alcuni passi de “La Ginestra” di Leopardi.
Tuttavia il capolavoro del Basile apparve postumo: “Lo cunto de li cunti overo Lo trattenemiento de’ peccerille” (1634-36). Come ho anticipato prima, questa raccolta di fiabe fu pubblicata grazie all’interesse della sorella Adriana: è la prima raccolta almeno in Europa di 50 fiabe popolari, distribuite in cinque giornate (da cui il titolo Pentamerone).
È uno dei massimi esempi di prosa barocca perché combina insieme la popolare materia fiabesca con una raffinata sapienza letteraria, capace di creare uno stile favoloso e immaginifico, in piena sintonia con la sensibilità barocca. Fu scritto in dialetto napoletano così da poter comunicare con un vasto strato popolare: all’epoca operazione giusta e legittima, che gli diede grande fortuna.
Valorizzato nell'età romantica dai fratelli Grimm, fu “tradotto” in italiano da Benedetto Croce nel 1925 per ovviare alla mancata fruizione di questo capolavoro nel pubblico più moderno.
4Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile: trama e analisi
Partiamo proprio dalle parole di Benedetto Croce a proposito di questo capolavoro:
«L’Italia possiede nel Cunto de li cunti o Pentamerone del Basile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari; com’è giudizio concorde dei critici stranieri conoscitori di questa materia e, per primo, di Iacopo Grimm, colui che, insieme col fratello Guglielmo, donò alla Germania la raccolta dei Kinder und Hausmärchen più volte ristampata. Eppure l’Italia è come se non possedesse quel libro, perché, scritto in un antico e non facile dialetto, è noto solo di titolo, e quasi nessuno più lo legge nemmeno nel suo luogo d’origine, Napoli. Più facilmente lo leggono i tedeschi, che fin dal 1846 ne hanno a lor uso la traduzione del Liebrecht, e gl’inglesi, che fin dal 1848 ne hanno la copiosa scelta del Taylor, anch’essa più volte ristampata, e dal 1893 la traduzione completa del Burton. Intento di questa mia nuova fatica è di far entrare l’opera del Basile nella nostra letteratura nazionale, togliendola dall’angusta cerchia in cui ora è relegata (che non è più neanche quella dialettale e municipale, ma addirittura il circoletto degli eruditi, degli specialisti e dei curiosi), e di acquistare all’Italia il suo gran libro di fiabe».
5Lo cunto de li cunti: personaggi
Nell’introduzione che funge da cornice letteraria incontriamo Zoza, una principessa, che aveva ricevuto come maledizione da una vecchia il dover sposare per forza il principe di Camporotondo, vittima a sua volta di un’altra maledizione: era addormentato in una tomba e si sarebbe svegliato se e solo se fosse stata riempita un’anfora piena di lacrime nel tempo di due giorni.
L’impresa era quasi riuscita, ma una schiava, Lucia “gamba di grillo”, capricciosa e malvagia, le ruba l’anfora piena di lacrime (approfittando di una distrazione della ragazza) e le ruba così anche il futuro marito Taddeo, che si sveglia e la sposa, ignaro di tutto e la mette presto incinta. Zoza non si dà per vinta e va ad abitare davanti ai due sposi, forte del fatto dei doni ricevuti in precedenza dalle fate tra cui c’è una bambola fatata.
La bisbetica schiava, sposa di Taddeo, la desidera a tutti i costi e spinge il marito a chiederla in dono a Zoza. Lei gliela concede ma, prima di consegnarla, ordina alla bambola di far venire alla sua rivale d’amore la voglia di raccontare fiabe. Così nella bisbetica incinta si accende la voglia delle fiabe. E Taddeo deve provvedere altrimenti «Si no venire gente, e cunte contare, mi punia a ventre dare e Giorgetiello mazzoccare!». È incinta e minaccia un maldestro aborto.
Ecco qui il passo e la traduzione di Benedetto Croce:
Testo
(…) che non cossì priesto se la mese nzino pe joquaresenne, che parze n’ammore nforma d’Ascanio nzino a Dedone, che le mese lo fuoco mpietto. Pocca, le venne cossì caudo desederio de sentire cunte, che non potenno resistere, e dobitanno de toccarese la vocca e de fare no figlio, che nfettasse na nave de pezziente, chiammaje lo marito e le disse: Si no venire gente, e cunte contare, mi punia a ventre dare e Giorgetiello mazzoccare! Tadeo, pe levarese sta cura de marzo da tuorno, fece subeto jettare no banno: che tutte le femmene de chillo paese fossero venute lo tale juorno. Ne lo quale, a lo spuntare de la stella Diana, che sceta l’arba ad aparare le strate, pe dove ha da spassiare lo sole, se trovaro tutte a lo luoco destinato. Ma, non parenno a Tadeo de tenere tanta marmaglia mpeduta pe no gusto particolare de la mogliere, otra che l’affocava de vedere tanta folla, ne scegliette solamente dece, le meglio de la cetate, che le parzero chiù provecete107 e parlettere, che foro: Zeza scioffata, Cecca storta, Meneca vozzolosa, Tolla nasuta, Popa scartellata, Antonella vavosa, Ciulla mossuta, Paola sgargiata, Ciommetella zellosa e Jacova squacquarata.
Parafrasi
6Lo cunto de li cunti: morale della favola
Abbiamo incontrato le nostre dieci narratrici dai nomi decisamente buffi: Zeza sciancata, Cecca storta, Meneca gozzosa, Tolla nasuta, Popa gobba, Antonella bavosa, Ciulla musuta, Paola scerpellata, Ciommetella tignosa e Iacova squarquoia. Dieci narratrici per cinque giorni sono cinquanta fiabe. Arrivati al quinto giorno una delle donne è malata, e a Zoza viene chiesto di sostituirla. Il cinquantesimo e ultimo racconto non è altro che la storia di Zoza raccontata da lei stessa: una volta svelata la verità Lucia viene punita, e Tadeo sposa Zoza.
Tutte le fiabe hanno come conclusione dei proverbi (fatto non del tutto estraneo neanche a raccolte di facezie e di novelle), offrendo così una morale finale contro l'invidia, la superbia, l’avidità etc.
Ogni racconto è un'accusa contro persone come Lucia, la serva, quelle che osano troppo – l’antica hybris dei Greci – per i motivi sbagliati, e ogni punizione finale di un antagonista non fa che anticipare la sorte ineluttabile che toccherà alla serva stessa. Ma quali sono queste fiabe? “La gatta Cenerentola”, “La pulce”, “Il racconto dell’orco”, “La papera”, “Le tre corone”, “Il corvo”, “Il dragone” solo per citarne alcune. Sono personaggi che conosciamo, no?
Resta un’ultima domanda, forse la più importante: perché trascrivere o ideare fiabe? Nell’epoca in cui Basile vive, il concetto di verità si fa più ambiguo e sfuggente, un bosco, un intrigo di idee da cui non si riesce a venire fuori. Il bosco non è il luogo delle fiabe per eccellenza? Allora la fiaba permette a Basile «una coscienza del reale più complessa, dove non vige più una legge univoca, evidente per l’intelligenza dell’uomo; e manca una regola ferma, chiara per il suo costume, ma dove tutto è sempre nuovo, disponibile ad esiti molteplici, non sempre prevedibili» (Giovanni Getto).