Vittorio Alfieri è
nato ad Asti il 16 gennaio 1749 e morto a Firenze l’8 ottobre 1803. Apparteneva ad una
famiglia della ricca nobiltà terriera. A nove anni è stato mandato a compiere gli studi presso la
Reale Accademia di Torino, che aveva radicate tradizioni militari. Si dice che abbia tentato di avvelenarsi durante la permanenza in Accademia. Più tardi ha dato
giudizi durissimi sulla formazione che aveva ricevuto, considerata antiquata. Uscito dall’Accademia
ha compiuto numerosi viaggi per l’Italia e l’Europa, viaggi che non rientravano nello spirito illuministico in cui i giovani si spostavano per la curiosità di vedere, conoscere e accumulare esperienze, ma era spinto da una
smania di movimento che non gli consentiva di fermarsi in alcun luogo, come se dovesse inseguire qualcosa di ignoto e irraggiungibile. Si delinea così il profilo di un
animo tormentato. Interpreterà nella Vita questa scontentezza come il bisogno di
trovare un fine sublime intorno a cui ordinare tutta l’esistenza: la vocazione poetica. Durante i suoi viaggi ha potuto accumulare una concreta esperienza delle
condizioni politiche e sociali dell’Europa contemporanea: la tirannide monarchica provocava reazioni negative e quasi tutto ciò che ha visto non gli piace, per lo più provava insofferenza e sdegno. Ha avuto una reazione più positiva nei
paesi con maggiore libertà civile, come l’Inghilterra e l’Olanda, ma ciò che lo affascinava erano soprattutto i paesaggi desolati e selvaggi come le selve della Scandinavia: in questi paesaggi poteva proiettare il suo io (accanto alla natura ritrovava pace e serenità). Dopo il ritorno a Torino, ha ricominciato la
vita oziosa di un giovin signore, chiuso in solitudine. La depressione era accresciuta da un triste amore che nel giovane causava infinite angosce, vergogne e dolori, ma da cui non è riuscito a liberarsi.
L’unica attività che gli si offriva era quella letteraria. Ha iniziato a leggere dedicandosi agli illuministi francesi che rappresentano la base della sua cultura. A Torino nel 1772 ha fondato insieme ad alcuni amici una
società letteraria per cui ha scritto in francese, lingua che parlava e scriveva abitualmente. Nel 1775 ha trovato un senso alla sua vita, con la sua "
conversione" alla scrittura. Dopo la scrittura di
Antonio e Cleopatra ha notato il primo manifestarsi della sua vocazione di tragediografo e si è reso conto di come proiettare i propri sentimenti. Si è applicato così allo
studio della lingua italiana in modo da impadronirsi del linguaggio usato nelle tragedie. Per meglio far proprio l’italiano ha soggiornato in Toscana, dove
ha conosciuto la moglie di Carlo Stuart, Luisa Stolberg, in cui ha trovato il degno amore che insieme alla poesia, ha dato equilibrio alla sua vita. Nel 1778 per troncare ogni legame dal re di Sardegna ha rinunciato a tutti i suoi bene. Nella sua intensa attività sono nate una dopo l’altra le sue tragedie. Lo
scoppio della Rivoluzione ha eccitato il suo spirito anarchico e lo indotto a scrivere un’ode alla
presa della Bastiglia (Parigi sbastigliata), ma presto gli sviluppi hanno suscitato in lui disgusto per quella che riteneva una nuova tirannide, ma borghese.
Nel 1792 è fuggito da Parigi e si è trasferito a Firenze animato da un odio contro i francesi che si erano impadroniti dell’Italia.